“Viva l’Italia” di Rossellini, meno emozioni più riflessione, in “Segno”
Tipologia:  Articolo
Autore:  Umberto Cantone
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Le magnifiche foto di Bronzetti sulla lavorazione di Viva l’Italia documentano in che modo Palermo si era trasformata in un set risorgimentale due anni prima del Gattopardo di Visconti. In un’epoca di kolossal e di peplum, Rossellini scelse la via di uno stile rigorosamente spoglio e straniato – più carrellate ottiche che primi piani – votandosi a un’idea di cinema come “freddo” strumento di conoscenza che mira a convincere anziché emozionare e apre la strada ai suoi apprezzati biopic tv da Socrate a La presa del potere da parte di Luigi XIV. Negli anni ’70 sugli schermi si dissolverà ogni scoria leggendaria sul nostro Risorgimento.
C’è rimasto lo squillante bianco e nero degli scatti di quel magnifico fotografo che è stato Eugenio Bronzetti a evocare i giorni palermitani del film che, per celebrare nel 1961 il centenario dell’Unità d’Italia, affidò l’epica di Garibaldi e dei suoi Mille al più garibaldino dei nostri cineasti, la leggenda vivente Roberto Rossellini.
In quel periodo, il regista di Roma città aperta si era scrollato di dosso il marchio di pioniere del Neorealismo imbarcandosi nell’impresa della Trilogia della solitudine con la moglie Ingrid Bergman, per poi virare ancora sulla rotta del cinema didattico e televisivo.
A sessant’anni di distanza, le magnifiche foto sulla lavorazione di Viva l’Italia, messe in mostra per la prima volta da Nosrat Panahi Nejad nell’estate 1997 a Villa Trabia, documentano in che modo Palermo si era trasformata in un set risorgimentale due anni prima della impresa del Gattopardo in Technirama di Luchino Visconti.
Sono immagini di uno sparuto assembramento di curiosi addossato alla Buca della salvezza in via Alloro, di un gruppo di comparse garibaldine che attendono il “si gira” davanti alla chiesa di Santa Caterina, di frati-attori all’interno del convento della Gancia. E poi, scene di patrioti in azione ai Quattro Canti e a Piazza Marina, e alcune pose di Renzo Ricci/Garibaldi e Paolo Stoppa/Nino Bixio sullo sfondo della fontana di Piazza Pretoria, insieme a quelle con Rossellini che sovraintende a delle riprese nel corridoio dei frati delle Catacombe dei Cappuccini.
Proprio in questa scenografia claustrofobica, quindici anni prima che vi mettesse piede la troupe di Rosi per l’incipit di Cadaveri eccellenti (tratto da Il contesto di Sciascia), il regista decise di ambientare la trepidante attesa dei patrioti in rivolta del 4 aprile 1860.
Viva l’Italia si apre con la ricostruzione di quel tentativo di cospirazione, con tanto di tricolore sventolante sul campanile della Gancia, prima del brutale intervento repressivo della polizia borbonica richiamata dai “taschittara” che quel giorno, insieme ai congiurati borghesi, tradirono pure i monaci che li fiancheggiarono.
L’episodio del moto di Palermo, che accese l’impresa garibaldina, fu girato nella stessa maniera antispettacolare utilizzata per le trionfali battaglie di Calatafimi e del Volturno, come per tutti gli altri episodi da manuale di storia, incontro di Teano compreso, squadernati dal film e perlopiù ambientati nei luoghi dove realmente si erano svolti (anche se è il Palazzo Landolina di Noto a fungere da residenza napoletana di Garibaldi).
In un’epoca di kolossal e di peplum da Hollywood sul Tevere, Rossellini aveva scelto la difficile via di uno stile rigorosamente spoglio e straniato (più carrellate ottiche che primi piani), votandosi a un’idea di cinema come “freddo” strumento di conoscenza (il cinema didattico, appunto) che mira a convincere anziché emozionare lo spettatore, e aprendo la strada ai suoi apprezzati biopic televisivi, da Socrate a La presa del potere da parte di Luigi XIV.
Oggi che a trionfare sui terminali delle nostre visioni medie è l’enfasi dell’impatto viscerale, Viva l’Italia rischia di provocare lo stesso straniante effetto vintage di certi peplum anni ’50.
Si può ancora ammirare la geometrica sapienza compositiva con cui furono gestite le centinaia di comparse nelle sue sequenze epiche, ma non si può che sorridere della retorica di certi suoi dialoghi intercalati da motti come “Qui si fa l’Italia o si muore” e “Tutte le strade conducono a Roma”, o di battute da spot pro loco come quel “Com’è buono il pane siciliano!” attribuito al Generale in uno dei tanti tableau vivant concepiti per restituirci la dimensione quotidiana dell’avventura unificatrice.
Detto questo, visto che di Viva l’Italia rimane ancora oggi rimarchevole il valore cinematografico dei suoi paesaggi, allora godiamoci come un film epico d’antan l’ingresso a Palermo dei “garibaldeschi” alla Porta dei Greci, il loro bivaccare all’interno e all’esterno di Palazzo Pretorio, o la sequenza della visita di alcuni di loro al Tempio di Segesta.
Regalano ancora qualche bella suggestione la scena dell’agguato dei borbonici dall’alto del Castello di Federico II a Milazzo, o quella dello sbarco notturno dei liberatori girata sulle coste calabresi, dove la patriottica popolana di Giovanna Ralli viene falciata dagli oppressori come Anna Magnani in Roma città aperta.
Ma a rendere obsoleta questa operazione rosselliniana che sui titoli di coda utilizza l’Inno di Mameli, e dove Garibaldi ha il timbro di John Wayne (perché è Emilio Cigoli a doppiare Ricci), provvidero in seguito gli affondi antirisorgimentali – incoraggiati dalla linea revisionista sdoganata da Denis Mack Smith – di film polemici e allora boicottati e censurati come Bronte: cronaca di un massacro che i libri di Storia non hanno raccontato di Florestano Vancini (con la sceneggiatura firmata, tra gli altri, da Leonardo Sciascia)e Quanto è bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini.
Bastarono quei due film a segnare la svolta: erano arrivati gli anni Settanta e anche sugli schermi andava dissolvendosi ogni scoria leggendaria sul nostro Risorgimento, che da allora in poi rimase senza eroi.