Vigilanza stretta (Haute Surveillance)
Tipologia:  Dramma
Di:  Jean Genet
Regia:  Umberto Cantone
Location:  Piccolo Teatro di Palermo/Ridotto del Teatro Biondo Stabile di Palermo
Data/e:  1994
Produzione:  Cooperativa Teatrale Dioniso
Cast:  Alberto Scala, Sergio Lo Verde, Adriano Giammanco, Paolo Briguglia
Costumi:  Maria Adele Cipolla
Scene:  Enzo Venezia
Note: 
Traduzione di Giorgio Caproni
Luci: Alfonso Orlando
Musiche: Mario Modestini
Assistente alla regia: Eleonora Orlando
Scenografo assistente: Lilia Chifari
Tecnico del suono: Gianni Allegra
Organizzazione generale: Maurizio Spicuzza
Foto di Daniele Ciprì e Franco Maresco
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INDICAZIONI di Umberto Cantone
Forse solamente le opere irrisolte dei grandi autori si prestano liberamente ad un profondo lavoro di riscrittura dal quale rinascono fortificate. Forse soltanto quelle rivelano con sincerità il lato doloroso e perturbato di chi le ha portate a compimento.
Testo
Vigilanza stretta è la prima opera teatrale di Jean Genet, prolissa e a tratti imbarazzante come un ingenuo manifesto estetico. In realtà si tratta di un’affascinante e consapevole trappola d’autore, un testo maledetto su cui operare come fosse un corpo prostrato che si presta a un intervento rigenerativo.
Fu pubblicato per la prima volta nel 1949, in seguito nel ’65 e, fra continue dichiarazioni d’abiura del suo stesso autore (“Mi auguro che sia riprodotto come bozza o minuta alla fine dell’ultimo volume delle mie opere”), venne rimaneggiato con ostinata amorevolezza nel 1985 per un nuovo allestimento.
L’ho scelto come capitolo primo di un progetto di scrittura scenica sulle Rovine di Palermo (Palermo come laboratorio della malattia del vivere) con l’intenzione di esaltare, al di là del testo e del luogo eletto che questo propone (la galera), la materialità di una scrittura che, come quella pasoliniana, non esita a evidenziarsi come sintomo di crisi profonda della scrittura stessa.In questa prospettiva, Vigilanza stretta appare un’opera sulla paura: paura della scrittura (della sua inutilità) e della morte (idem), paura della vecchiaia e dell’amore. Paura dell’omosessualità che, per Genet come per Gide, resta la forma di eros più disinteressata e quindi più potente e vacuamente pericolosa.
Figure
Gli angeli di Genet sono demoni e martiri con troppe aureole letterarie sul capo. Hanno ali pesanti e corpi maleodoranti (belli o brutti che siano, ma fa davvero differenza?), come quelli di certe figure di Buñuel e Tarkovskij, condannati a un sadiano purgatorio perpetuo. Sono come certi ragazzi selvaggi di Burroughs o come i sanguinari re adolescenti nelle opere di Shakespeare, che sanno farsi invisibili e così indispensabili a raccontare il male.
“Esiste un invisibile che si connette inscindibilmente a ciò che chiamiamo visibile, ma che è formato dalla trama degli invisibili, come la percezione risulta da quella degli impercettibili.” (Massimo Cacciari, Icone della legge, Adelphi Edizioni)
Tempo
Vigilanza stretta è anche un testo sull’invisibilità. Invisibiltà perversa del tempo (opprimente nella sua assenza) che costringe a vivere in un’attesa di morte. È un testo sulla scandalosa impotenza della morale, sulla malattia di cui ogni legge umana e divina si fa portatrice, e sulla profonda moralità dell’eros malato.
“Il principio della morale classica si collega alla durata dell’esser, quello della santità si collega all’essere la cui bellezza è fatta di indifferenza alla durata,anzi di attrazione verso la morte.” (Georges Bataille, La letteratura e il male, Guanda Edizioni)
Percorsi
Il luogo è la cella di una galera immaginaria, in un qualunque Sud del mondo. Occhiverdi, uno dei regnanti del luogo, usa le proprie residue forze di ammalato per liberarsi del peso marcio delle proprie colpe. Prima deve incontrare nella Stanza Rossa la Maria continuamente evocata che ignora il suo destino. Giulio, specie di Riccardo III, attiva una inutile congiura contro il principe morente e alla fine sceglie d’identificarsi in lui, uccidendo a sua volta. Maurizio, il più giovane, marchiato dalla propria bellezza, organizza un commovente gioco di seduzione e, dopo aver subito le torture di Giulio, s’immola come vittima di un sacrificio necessario. Su queste tre figure incombe il Capoposto, emissario di un potere invisibile che si finge divino (la sua voce è il rumore del carcere).
Nella gabbia della vigilanza impossibile, ogni dolore deriva dalla perdita della memoria di cui soffrono i tre protagonisti. Lo stupro della fanciullina e del giovane Maurizio, il delitto compiuto da Occhiverdi e quello desiderato da Giulio, appartengono allo stesso ordine: che avvengano oggi o che siano avvenuti da tempo poco importa. Il vero scandalo è la morte che stenta a concedersi, raccontandosi come eternità da post-apocalisse, già terribilmente viva.