lunedì, 7 Ottobre 2024

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Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu – Prima edizione

Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu – Prima edizione

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Autore/i:  Emilio Lussu

Tipologia:  Memoriale

Editore:  Einaudi, Collana "Saggi", n.59

Origine:  Torino

Anno:  1945 (settembre)

Edizione:  Prima italiana

Pagine:  220

Dimensioni:  cm. 21 x 15

Caratteristiche:  Legatura coeva in cartone marmorizzato e tela che conserva la copertina originale riquadrata di colore arancio e bianco con titoli in nero e fregio editoriale

Note: 

Prima edizione del capolavoro di Emilio Lussu (1890-1975) pubblicato, in edizione italiana, a Parigi nel 1938 e, per la prima volta in Italia, da Einaudi (Collana “Saggi”, n.59) nel settembre del 1945.

Tra i libri più famosi della vastissima produzione sulla prima guerra mondiale, questo non vuol essere un saggio, né una compiuta narrazione, ma una testimonianza sulla guerra “rievocata come fu realmente vissuta” e, in particolare, di un anno soltanto di essa: il 1916 trascorso in prima linea sull’Altipiano di Asiago. Lussu registra quanto lo aveva maggiormente colpito, richiamandosi alle idee e ai sentimenti di allora. Così la guerra può anche significare la gioia di vivere dei soldati, felici di abbandonare le pietraie del Carso e di poter combattere in vere azioni, tra alberi e vallette, o il dolce riposo al sole, nelle retrovie. Maggiore risalto acquistano però le pagine di pacata denuncia, ferma alla fredda constatazione, ma che si avvale di un’ironia tagliente e insistita per suggerire un inequivocabile giudizio: è la denuncia, dapprima, della disorganizzazione, della faciloneria, della micidiale noncuranza con cui la fanteria veniva mandata allo sbaraglio.

Complessa è la situazione psicologica di Lussu: in questo suo racconto è sempre critico verso chi conduce male la guerra, verso chi manda ai soldati scarpe con le suole di cartone; vede la guerra con lucidità e disincanto, cerca a volte di correggere gli ordini che gli sembrano sbagliati, non nasconde la sua paura prima degli attacchi e ne soffre gli orrori e le morti, ma non si piega e non rinnega il suo interventismo.

Tuttavia, questo libro è uno dei più significativi testi italiani di denuncia della guerra.

 

Da questo libro è stato tratto il film Uomini contro (1970) di Francesco Rosi.

Sinossi: 

Le vicende fanno solo da sfondo e sono dominate dal caos: il trasferimento delle truppe dal Carso all’altopiano, pieno di speranze, ben presto risultate fallaci, di una guerra di movimento, rapida, la conquista e l’abbandono di monte Fior, la guerra di trincea che si ripete, interrotta di tanto in tanto da inutili assalti, segnati da sanguinose perdite e, infine, dopo un anno la discesa in pianura, breve riposo ben presto interrotto dall’ordine di partire per la Bainsizza. Incisivi i ritratti degli uomini incontrati, colorati da umana pietà, volta specialmente ai soldati che, se qualche volta sbagliano, sono pur sempre riscattati dal senso del dovere e dalla fiduciosa obbedienza ai superiori. Tra questi ritratti emerge per spietato sarcasmo, con sfumature persino comiche, quello del generale Leone: coraggioso, ma pazzo fanatico, espone se stesso e gli altri a inutili pericoli. Il generale Piccolomini che lo sostituisce è descritto più superficialmente: è meno pericoloso di Leone ma è un fanatico delle definizioni dei manuali militari che pretende in continuazione da sottufficiali e soldati. Un’altra vittima dell’ironia dell’autore è il tenente colonnello Carriera che, ferito non gravemente, prima di accasciarsi, detta egli stesso la segnalazione di un suo eroico comportamento, proponendosi per una medaglia. Gli ufficiali inferiori sono a volte valorosi, a volte vittime del sistema, e in alcuni casi critici e decisi alla ribellione, come il tenente Ottolenghi, che pone coscientemente il generale Leone in condizione di essere ucciso (solo per caso si salverà) e un’altra volta, coperto dall’omertà di tutti, guida un gruppo di sciatori a saccheggiare il magazzino di sussistenza, per rivolta contro gli ufficiali superiori, che meriterebbero tutti, egli pensa, la fucilazione. Molti sono amici dell’autore, che di parecchi deve piangere la morte (ad esempio il tenente Avellini). Altri bevono, per dimenticare la guerra o perché per essa non sono tagliati. Pur denunciandone gli orrori, l’autore giustifica la guerra  «moralmente e politicamente». Tuttavia una volta, e ne riferisce in una pagina intensa, non riesce ad uccidere un ufficiale nemico da una distanza ravvicinata, perché  vede in lui non il nemico, ma un uomo.

 

ANTOLOGIA

♦ Pagina 5- 6

La compagnia in testa, per quattro, marciava, marziale. I soldati erano infangati, ma quella tenuta da trincea rendeva più solenne la parata. Arrivato all’altezza delle autorità, il tenente Grisoni si drizzò sulle staffe e, rivolto alla compagnia, comandò:

Attenti a sinistra!

Era il saluto al comandante di Brigata. Ma era anche il segnale convenuto perché il 1° plotone entrasse in azione. Immediatamente, si svelò tutta una fanfara accuratamente organizzata. Una tromba, fatta con una grande caffettiera di latta, squillò il segnale d’attenti cui rispose l’accordo degli strumenti più svariati. Erano tutti strumenti improvvisati. Abbondavano quelli che facevano maggior chiasso per accompagnare il passo. I piatti erano rappresentati da coperchi di gavetta. I tamburi erano avanzi di vecchie ghirbè di salmeria, fuori uso, sapientemente adattate. Pistoni, clarini e flauti erano ricavati dai pugni chiusi, in cui gli specialisti, aprendo ora un dito, ora l’altro, sapevano soffiare nelle forme più efficaci. Ne risultava un insieme mirabile di musicata allegria di guerra.

♦ Pagina 7

Il colonnello ebbe un onesto sorriso di compiacimento, soddisfatto di veder marcata, sia pure in modo provvisorio, la superiorità dell’autorità militare sull’autorità civile. Con un’espressione di contenuta fierezza, che invano si sforzerebbe di ostentare chi non abbia avuto, per lungo tempo, comando di truppe, egli portò lo sguardo dal sindaco a noi e da noi al sindaco e, per quel briciolo di malvagità che serpeggia nel cuore degli uomini più miti, pensò d’impressionare ancora di più il sindaco.

Egli comandò: – Signori ufficiali, viva il re! – Viva il re! – ripetemmo noi, urlando la frase come un monosillabo.

Contrariamente alla sua aspettativa, il sindaco non batté ciglio e gridò con noi. Il sindaco era uomo di mondo. Ormai padrone di sé, raccolto il foglio, continuava il discorso:

– Noi vinceremo, perché ciò è scritto nel libro del destino… Dove fosse quel libro, certo, nessuno di noi, compreso il sindaco, lo sapeva. E, ancora meno, che cosa fosse scritto in quel libro irreperibile.

♦ Pagina 8

Il sindaco continuò:

– Belle e sublimi attrattive. Infelice colui che non le sente! Perché, o signori, sì, bello è morire per la patria… Quest’accenno non piacque a nessuno, neppure al colonnello.

♦ Pagina 10

Ci saremmo finalmente potuti sdraiare, nelle ore di ozio, e prendere il sole, e dormire dietro un albero, senza esser visti, senza avere per sveglia una pallottola nelle gambe.

♦ Pagina 10

Avremmo finito d’ucciderci l’un l’altro, ogni giorno, senza odio.

♦ Pagina 10

Un reggimento di cavalleria ci traversò la strada e noi dovemmo fermarci per lasciarlo sfilare. Beati loro che stavano a cavallo! Ma ci accorgemmo subito che anch’essi erano stanchi morti.

– La guerra dei signori – gridavano i soldati ai lancieri curvi sulla sella.

– Beati voi – rispondevano questi, – che potete camminare a piedi. Noi, sempre a cavallo, sempre a cavallo. Non poter marciare con le proprie gambe! Dover faticare per sé e poi per il cavallo. Che vita!

♦ Pagina 11

I contadini allontanati dalla loro terra, erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore.

♦ Pagina 13

I gruppi si rianimarono quando un graduato ritornò dal vivandiere con i fiaschi del vino e col tabacco. Egli aveva speso tutte le venti lire. In guerra, non si pensa al domani.

♦ Pagina 16

Egli mi accolse molto gentilmente e mi offrì un bicchierino di cognac.

– Molte grazie, – dissi – non bevo liquori. – Non beve liquori? – mi chiese, preoccupato, il tenente colonnello.

Tirò dal taschino della giubba un taccuino e scrisse: «Conosciuto tenente astemio in liquori. 5 giugno 1916». Si fece ripetere il mio nome, che io gli avevo già detto presentandomi, e lo aggiunse alla nota.

♦ Pagina 17

– Dove sono gli austriaci? – chiesi.

– Ah, questo non lo so. Questo non lo sa nessuno. Sono di fronte a noi. Potrebbero, da un momento all’altro, essere anche alle nostre spalle. Ciò dipende dalle circostanze. Quello che è certo è che essi sono dappertutto e che, oltre al mio battaglione, non vi sono truppe italiane.

♦ Pagina 22

Ti sei sbaffato il cioccolato come un vero austriaco.

♦ Pagina 24-25

– Prenda due portaordini – mi disse il maggiore – vada nella Malga e s’informi di ciò che è avvenuto, durante la notte. Dica al comando degli alpini che noi siamo arrivati e che attendiamo ordini.

Il maggiore ornò il discorso di qualche bestemmia. Era toscano, di Firenze, e bestemmiava di giorno e di notte. Quando era eccitato, adoperava, senza parsimonia, tutto il repertorio del Lung’Arno.

♦ Pagina 29-30

– Io mi difendo bevendo. Altrimenti, sarei già al manicomio. Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo.

♦ Pagina 30

Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra.

♦ Pagina 30

L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina.

♦ Pagina 32

A meno che i due carabinieri non fossero toscani, essi non sentirono in vita loro tante bestemmie come in quei pochi minuti.

♦ Pagina 37

Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte.

♦ Pagina 43

L’ordine del giorno del comandante di corpo d’armata ce lo presentò «un soldato di provata fermezza e d’esperimentato ardimento».

♦ Pagina 68

Egli non gridava. Egli urlava a voce altissima, e con tono di comando, come se si rivolgesse non ad una persona isolata, ma a tutto un reparto, a un battaglione in ordine chiuso.

Egli diceva «cognac» con la stessa voce con cui, da cavallo, avrebbe comandato «battaglione in colonna!» o «colonna doppia!»

♦ Pagina 71

Arrivavano, ogni giorno, munizioni e tubi di gelatina. Erano i grandi tubi di gelatina del Carso, lunghi due metri, costruiti per aprire dei varchi fra i reticolati. E arrivavano pinze tagliafili. Le pinze e i tubi non ci erano serviti mai a niente, ma arrivavano egualmente.

♦ Pagina 71

E arrivò il cognac, molto cognac: eravamo dunque alla vigilia dell’azione.

♦ Pagina 72

– Tuttavia…  E ripeté, dopo una boccata di fumo: – Tuttavia… Se Ettore avesse bevuto un po’ di cognac, del buon cognac, forse Achille avrebbe avuto del filo da torcere…

Anch’io rividi per un attimo, Ettore, fermarsi, dopo quella fuga affrettata e non del tutto giustificata, sotto lo sguardo dei suoi concittadini, spettatori sulle mura, slacciarsi, dal cinturone di cuoio ricamato in oro, dono di Andromaca, un’elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille.

♦ Pagina 86

Una batteria motorizzata fece un’apparizione sulla strada di Gallio, tirò un centinaio di granate, che caddero sui nostri, e scomparve.

♦ Pagina 87

E per me è tutt’uno morire a destra oppure a sinistra.

♦ Pagina 101

Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra.

♦ Pagina 105

Dalle trincee, nessuno sparava. In una ampia feritoia, di fronte, scorsi la testa d’un soldato. Egli mi guardava. Io non ne vidi che gli occhi. Vidi solo gli occhi. E mi sembrò ch’egli non avesse che occhi, talmente mi parvero grandi.

♦ Pagina 106-107

– Io ho paura di diventare pazzo, – mi disse. – Io divento pazzo. Un giorno o l’altro, io mi uccido. Bisogna uccidersi.

♦ Pagina 108

La vita di trincea, anche se dura, è un’inezia di fronte a un assalto. Il dramma della guerra è l’assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono.

♦ Pagina 108-109

Nella vita normale della trincea, nessuno prevede la morte o la crede inevitabile; ed essa arriva senza farsi annunciare, improvvisa e mite. In una grande città d’altronde vi sono più morti d’accidenti imprevisti di quanti ve ne siano nella trincea di un settore d’armata.

Anche i disagi sono poca cosa. Anche i contagi più temuti. Lo stesso colera che è? Niente. Lo avemmo fra la 1a e la 2a armata, con molti morti, e i soldati ridevano del colera. Che cosa è il colera di fronte al fuoco d’infilata d’una mitragliatrice?

♦ Pagina 109

Qualche giornale ci arrivava ogni tanto e ce li passavamo fra di noi. Erano tutti gli stessi e c’irritavano. La guerra vi era descritta in modo così strano che ci era irriconoscibile.

La Valle di Campomulo che, dopo Monte Fior, noi avevamo attraversato senza incontrare un ferito, vi era dipinta «imbottita di cadaveri». Di austriaci, naturalmente.

♦ Pagina 110

– E la biancheria? – gli chiesi –

Non essendo un genere di prima necessità, l’ho abolita. La mia fauna mi obbligava a tali fatiche di caccia, piccola e grossa, che ho preferito bruciarne i ricoveri. Ora mi sento più uomo. Voglio dire più animale.

♦ Pagina 110

– Bere e vivere. Cognac. Dormire e vivere e cognac. Stare all’ombra e vivere. E ancora del cognac. E non pensare a niente. Perché, se dovessimo pensare a qualcosa, dovremmo ucciderci l’un l’altro e finirla una volta per sempre.

♦ Pagina 111

– Il libro è interessante. Bertoldo e Bertoldino mi faceva ridere di più, ma questo è più attraente e vario. Tutti gli uccelli sono qua dentro. Non ne manca uno. Ci sono persino i beccafichi. Non dico di no, a me piacciono gli uccelletti alla polenta. I beccafichi vi stanno bene. Ma, senza far torto ai veneti, io preferisco i merli e i tordi arrosto.

♦ Pagina 112

Simile a lui, simile a mille altri dei miei compagni, egli aveva bisogno di bere per stordirsi e dimenticare. La vita era, per lui, ciò ch’era per noi la guerra.

♦ Pagina 113

La questione divenne intricata. Nel breve chiarimento che ne seguì, capii che io parlavo di Orlando, il «Furioso», quello d’Ariosto, mentre il mio collega intendeva parlare dell’onorevole Orlando, deputato al Parlamento e Ministro di Grazia e Giustizia nel Ministero Boselli.

♦ Pagina 114

Io lo precedetti e salimmo in trincea. Egli non aveva paura. E, quel ch’è sempre un pericolo grave in trincea, ci teneva a dimostrare di non aver paura.

Io gli dicevo «fa’ come me», «qui curvati», «qui tocca terra con le mani», «qui fermati», ed egli non si curvava, non toccava terra, non si fermava.

♦ Pagina 117

Chi non ha fatto la guerra, nelle condizioni in cui noi la facevamo, non può rendersi un’idea di questo godimento. Anche un’ora sola, sicura, in quelle condizioni, era molto.

Poter dire, verso l’alba, un’ora prima dell’assalto: «ecco, io dormo ancora mezz’ora, io posso ancora dormire mezz’ora, e poi mi sveglierò e mi fumerò una sigaretta, mi riscalderò una tazza di caffè, lo centellinerò sorso a sorso e poi mi fumerò ancora una sigaretta» appariva già come il programma gradito di tutta una vita.

♦ Pagina 117

L’eccezionale onore, che ci distingueva ancora una volta fra tutte le brigate di fanteria, sarebbe stato da noi tutti più apprezzato se fossimo stati a riposo.

♦ Pagina 118

Eravamo giunti all’altezza del comando del 1° battaglione, quando ci arrivò la notizia che il generale Leone era morto, colpito al petto da una pallottola esplosiva. Perché non chiamare le cose con il loro vero nome? Fu una gioia, un tripudio. Il capitano Zavattari, c’invitò a fermarci al suo comando e fece sturare delle bottiglie.

♦ Pagina 118

La pace sia con lui! Con lui la pace e con noi la gioia. E ci sia infine consentito rispettare da morto un generale che detestavamo da vivo.

♦ Pagina 134

Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci! …

Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai venuta alla mente.

Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

♦ Pagina 135

Io facevo la guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita.

Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo.

Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.

♦ Pagina 137

Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che lo sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno.

Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!

♦ Pagina 137

Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido» è un’altra.

♦ Pagina 139

Il freddo, la neve, il ghiaccio, le valanghe non rendono la guerra più dura, per uomini validi. Sono elementi che ben conoscono, in tempo di pace, quanti vivono in alta montagna e nelle regioni dalla neve perenne. La guerra, per la fanteria, è l’assalto. Senza l’assalto, v’è lavoro duro, non guerra.

♦ Pagina 151

Lo assegnai al 2° plotone ed egli vi prese subito servizio, perché la prigione non si scontava, in trincea, e si faceva solo la ritenuta sul soldo.

♦ Pagina 161

Il capitano fece preparare il caffè, che era una specialità della batteria. La specialità consisteva in tre bicchieri di cognac finissimo e che si bevevano così: uno, prima del caffè, uno nel caffè e uno dopo il caffè.

♦ Pagina 162

– L’esperienza serve a valutare la vita per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse.

♦ Pagina 166

– Secondo te, Antonio, finirà presto la guerra?

Io, fino ad allora, avevo evitato si parlasse di guerra.

Antonio rispose con sicurezza: – Non finirà mai. La guerra è un macello permanente.

♦ Pagina 171

Sono ufficiale di carriera ed è probabile che anch’io avanzi ancora di grado. Ma le assicuro che le più belle soddisfazioni della mia carriera sono come questa d’oggi. Noi siamo professionisti della guerra e non ci possiamo lamentare se siamo obbligati a farla.

Ma, quando siamo pronti per un combattimento, e, all’ultimo momento, arriva l’ordine di sospenderlo, glielo dico io, mi creda, si può essere coraggiosi finché si vuole, ma fa piacere. Sono questi, lealmente, i più bei momenti della guerra.

♦ Pagina 174

– I comandi non si sbagliano mai e non commettono errori. Comandare significa il diritto che ha il superiore gerarchico di dare un ordine. Non vi sono ordini buoni e ordini cattivi, ordini giusti e ordini ingiusti. L’ordine è sempre lo stesso. È il diritto assoluto all’altrui ubbidienza.

– Così tu, caro collega, puoi comandare un bel manico di scopa, posto che tu l’abbia fra le mani. Ma non comanderai mai reparti italiani, francesi, belgi o inglesi.

– È che voi avete introdotto la filosofia nell’esercito. Ecco la ragione della nostra decadenza.

♦ Pagina 175

– Compagnia in riga, fucile alla mano! I soldati si disposero, correndo per eseguire l’ordine. Io pensavo: se i soldati malmenano gli ufficiali ed io do l’ordine di prendere le armi, non corro più il rischio d’essere bastonato. Se essi hanno le armi, rifletteranno maggiormente e, tutt’al più, io corro il rischio di essere sparato. Debbo dirlo: preferivo essere ucciso che bastonato.

♦ Pagina 185-186

Lo avete visto l’altro giorno con le scarpe distribuite al battaglione. Che belle scarpe! Sulle suole, con bei caratteri tricolori, c’era scritto «Viva l’Italia». Dopo un giorno di fango, abbiamo scoperto che le suole erano di cartone verniciato color cuoio.

♦ Pagina 196

Un giorno, passando lungo i filari d’una vigna per controllarvi un filo telefonico del battaglione, guardando per aria, inciampai su un soldato della 10a. Egli era con una giovane contadina. Sdraiati sull’erba, sotto un arco di viti, essi si confidavano i loro segreti.

Io non m’ero accorto di loro, altrimenti li avrei evitati. L’incontro fu improvviso, per me e per loro. Il soldato scattò in piedi, sull’attenti, e salutò. Egli era rosso e confuso. Al suo fianco, lentamente, lentamente, con una calma leggiadra, anche la donna si levò in piedi.

Snella e bionda, essa appariva ancora più bionda accanto all’uomo bruno dai capelli neri. Mi guardò per un istante, con un sorriso timido, abbassò gli occhi e si strinse al soldato, protettrice. Io levai il portafoglio, ne tolsi dieci lire e dissi, dandole al soldato:

– Il capitano è fiero di vedere un suo soldato in così bella compagnia. Il soldato prese il denaro, ancora imbarazzato, e la giovine donna sorrise a lungo, dondolandosi, i grandi occhi aperti e colmi di grazia. Com’erano felici! Anch’io mi sentivo felice.

♦ Pagina 208

Io non mi ero accorto che sul letto, sotto la sua mano distesa, v’era una lettera. Egli la prese e me la mostrò.

– Fammi il favore, leggimela. Vieni vicino, vienimi vicino.

Io presi la lettera. Mi sedetti accanto al letto, fino a toccarne le coltri. La busta era ancora chiusa. Io chiesi: – Debbo dunque aprirla?

– Sì, sì. Ma vienimi più vicino. Io m’addossai al letto. Guardai la busta. Era indirizzata a lui e portava il timbro di Marostica. Io tremavo. L’aprii e ne trassi due fogli. Non osavo leggere.

Egli mi chiese: – L’hai aperta? – Sì. – Leggi dunque, fammi il piacere. Io spiegai i fogli e il mio sguardo corse alla firma. Era il nome della signorina bionda.

Cominciai a leggere. La voce mi tremava: «Mio piccolo…» Avellini si portò le mani agli occhi bendati, quasi volesse con le mani nascondermi le lacrime. Egli piangeva. Io avevo interrotto la lettura e non parlavo più. Lo lasciai piangere, senza dire una parola.

Dopo qualche minuto, mi disse: – Continua, continua. Proseguii la lettura. Una donna non può scrivere parole più tenere di quelle che io lessi quel giorno.

Dovetti interrompere la lettura ancora, più volte, perché Avellini non riusciva a frenare il pianto. – Che m’importa di morire? che m’importa? Finii di leggere la lettera.

Egli mi pregò di leggergliela una seconda volta. Ed io la rilessi, spesso interrompendomi, come prima, talmente intensa era la commozione dell’amico.

– Anche la morte è bella… Egli riprese la lettera fra le mani e l’accarezzò lungamente. Mi disse: – Lasciamela qui. Verrai a prenderla dopo la mia morte.

♦ Pagina 211

Non è vero che l’istinto di conservazione sia una legge assoluta della vita. Vi sono dei momenti, in cui la vita pesa più dell’attesa della morte.

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