Trappola per una diva. Ricordo di Laura Antonelli
Tipologia:  Note
Data/e:  22 giugno 2015
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
A ogni diva è concesso, in vita, il privilegio di un lacerante rispecchiamento, il quotidiano supplizio di essere riconosciuta, col passare del tempo, a confronto con la propria ammaliante giovinezza, fissata e proiettata nel qui e ora della riproducibilità mediatica. Come a molte icone dello schermo anche a Laura Antonelli, trappola di bellezza femminile divenuta popolarissimo simbolo sessuale dell’Italia provinciale (già omologata e in preda all’Austerity) che preferì glissare sul suo non comune talento d’attrice, la beffa del naturale sfiorire dev’essere apparsa come un intollerabile affronto, bastevole a ingabbiarla (con il corollario di spinose vicissitudini sentimentali) in quel malessere che è l’implacabile causa di ogni dipendenza: la depressione. In questo suo precipitare, la divina creatura morta nei giorni scorsi in modesta solitudine, ha pagato il prezzo più alto, anche a causa dell’intrecciarsi di avvenimenti sfortunati. Per lei, nata col cognome di Antonaz durante l’esilio istriano nella Pola del 1941 per approdare a Napoli e poi a Roma (dove fu insegnante di ginnastica al rinomato Liceo artistico di via Ripetta), il calvario da “marginalizzata” cominciò troppo presto, una tempesta sopraggiunta al crepuscolo di una carriera felicissima. Prima le capitò la detenzione a Rebibbia per una presunta attività criminogena di “spaccio di cocaina”, scandalo giudiziario del ’91 in seguito risoltosi con assoluzione piena e risarcimento tardivo del Ministero di Grazia e Giustizia (come nel caso di Chiari e Luttazzi, per simili motivi esiliati ai confini della farisaica società dello spettacolo che li riabilitò solo in extremis). Seguirono le estenuanti quanto vane battaglie legali da lei animate sia per rivendicare il danno subito da un’organica reazione (edema di Quincke) a dosi di collagene iniettatele come antidoto alla smorfia dell’incipiente maturità, sia per difendersi da temuti predatori familiari pronti a sottrarle i pochi beni custoditi durante la caduta nell’indigenza. Più di recente, le cronache smagate del gossip insistettero sul suo fiero rifiuto di qualunque vitalizio materiale e sul conseguente volontario ricovero in un orgoglioso anonimato periferico a Ladispoli che la nascose fino all’ultimo dall’indiscrezione morbosa dei tanti estimatori (non si prestò mai a farsi ritrarre nel suo declivio fisico, come icona vintage da stracult, e per questo della sua recente immagine devastata rimangono solo alcuni impressionanti scatti rubati). Quella che oggi si racconta di lei è la rutilante cronaca di una parabola esistenziale esemplarmente bruciata, riaffiorata alla notizia del decesso, nel turbinio dell’ultim’ora che, notificandone la scomparsa, non ha lesinato i patetici particolari della squallida sua condizione finale di reclusa dalla deambulazione incerta, assistita da servizi sociali e sorretta da una ritrovata devozione mistica, a comporre l’estremo capitolo di un martirologio divistico destinato a rotocalchi e fiction rigorosamente per famiglie. Per altri versi, almeno per i pochi giorni del memorial, Laura è risorta come rinfrescante paesaggio femminile tutto da rimpiangere (al di là dei doverosi “coccodrilli” su piccoli schermi e tablet), riapparsa in tutto il suo bruno splendore traboccante di armoniose sinuosità, quando era il simbolo di erotiche promesse primaverili, come violoncello carnale da commedia domestica a fianco dell’Homo Eroticus Buzzanca (nel Merlo maschio e in All’onorevole piacciono le donne, 1971-72), o come sapiente mantide meridionale, e maestrina di sverginamento puberale, nel dittico di Samperi che la vide nel ruolo di brancatiana governante e di cognatina compiacente alla Ercole Patti, rendendola celeberrima e apprezzata dalla critica più severa (Malizia e Peccato veniale, 1973-74). Prima di quell’exploit, l’avevamo conosciuta come lolita dallo sguardo ferino nei fotoromanzi Sogno, nei caroselli Rai della Coca Cola e nelle foto osé di Angelo Frontoni, assolutamente irresistibile nel suo nudo e perverso candore ostentato soprattutto in proibitissime versioni su grande schermo sia di Sacher von Masoch (Venere in pelliccia o Le malizie di Venere,1969-75, dove interpreta Wanda de Dunaieff, fotomodella ninfomane e dominatrice), sia di Bataille ( Simona del 1972, tratto da L’Histoire de l’œil,).
In quegli anni d’esordio, a chi la vedeva come cosa di carne, “viso infantile con un corpo da Messalina”, Laura rispondeva per le rime: “Spero di non avere anche il cervello da bambina”. E quando tirarono in ballo un supposto suo amour fou con Giorgio Albertazzi, che la diresse in Gradiva (1970), all’insinuazione che avrebbe tentato il suicidio per lui oppose un “Semmai avrei tentato di uccidermi per sfuggire alla sua noia”. Seppe farsi largo nel jet-set della Macchina Cinema con tenacia e scaltrezza, conquistando la ribalta internazionale quando lavorò per Chabrol in Trappola per un lupo (1972) abbandonandosi, con Jean-Paul Belmondo, a una relazione burrascosa i cui colpi di scena eccitarono i paparazzi nel fare il verso a quelli dell’hollywoodiana coppia maudit Taylor & Burton. Fu poi Dino Risi a elevare al quadrato la sua originale, straniata verve da virtuosa di screwball comedy nella perturbante/esilarante galleria femminile di Sesso matto (1973), mentre Comencini ne scoprì per primo il febbrile aplomb dannunziano nel grottesco Mio Dio, come sono caduta in basso! (1974), poi utilizzato in chiave liberty da Patroni-Griffi per Divina creatura (1975), da Visconti nel sulfureo e ferale L’innocente (1976), tratto dal romanzo del Vate di Pescara, e da Vicario nel feuilleton ben scritto da Sonego, Mogliamante (1977). Non bastarono il Nastro d’argento (vinto per Malizia) e le due Grolle d’oro (per lo stesso film e per Divina creatura), né l’adeguamento a motivi e stilemi della neo-pochade degli anni Ottanta (Castellano & Pipolo, Vanzina, Corbucci e altri), né tantomeno la torsione dell’erotismo autorale ammiccante al soft-core di Patroni-Griffi (La gabbia) e di Bolognini (La Venexiana), o il cupo e scipito remake samperiano (Malizia 2000), a impedirne la fuoriuscita dall’olimpo divistico nostrano. A quel naturale declino si sovrappose lo sfascio di un insostenibile, ammalato cul-de-sac esistenziale. Indebolita dalle avversità, sprofondata nel gorgo di relazioni sbagliate, Laura continuò a battersi ossessivamente, fino allo spasimo, contro quelle che riteneva fossero tutte ingiustizie patite, alla ricerca di un riscatto che potesse affrancarla dall’angoscia crescente. Si dice che fosse diventata testarda e irascibile, che in privato alternasse rassegnazione e disprezzo (specialmente verso se stessa), e non è difficile immaginarsela come una leonessa ferita, privata di conforto amoroso e interiormente invasa dai ricordi peggiori. Forse i suoi ultimi giorni somigliavano a quelli della diva sfigurata di Billy Wilder, non la narcisistica e tragica Gloria Swanson di Viale del tramonto, ma la macabra Fedora dell’omonimo capolavoro del 1978, divina creatura dello schermo che non si rassegna a vedersi deturpata dalla furia del tempo e va alla ricerca di un’altra se stessa che avrebbe potuto continuare a vivere al posto suo, fantasma in carne e ossa della propria giovinezza perduta, ancora levigata e seducente, pronta a rimettersi in gioco : ma è solamente una notturna, amarissima illusione d’attrice.
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