Sono apparso alla Madonna – Vie d'(H)eros(es) di Carmelo Bene – Prima edizione
Autore/i:  Carmelo Bene
Tipologia:  Autobiografia
Editore:  Longanesi & C., Collana "La Gaja Scienza", n. 69
Origine:  Milano
Anno:  1983 (gennaio)
Edizione:  Prima
Pagine:  224
Dimensioni:  cm. 21 x 14
Caratteristiche:  Legatura in tela blu muta, titoli al dorso di color oro, sopraccoperta con illustrazione fotografica a colori riquadrata (ritratto di Carmelo Bene di Cristina Ghergo), fondo grigio, titoli in bianco, particolare in bianco e nero di opera di Gaugin al retro
Note: 
Prima edizione dell'”autobiografia” di Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, finita di stampare dalla TIMEC di Albairate (Milano) per conto della Longanesi & C. nel gennaio 1983. La grafica della sopraccoperta, dove campeggia una fotografia a colori di C.B. durante lo spettacolo Macbeth scattata da Cristina Ghergo, è di John Alcorn.
Indice: La fine del primo atto / Attrici / Entracte / Francesco Siciliani e “i cretini con lampi d’imbecillità”/ Ofelia / Incomprensione (a Lydia) / Palco di prosa (Giuseppe Di Stefano) / Salvador Dalì / Sono apparso alla Madonna / “Ma quelli che vedono, non vedono quello che vedono…” / Eduardo / Parodie / “Eusebio”/ Della poesia a teatro / “Romeo e Giulietta” a Parigi / Un altro Amleto di meno / Edipo attore / A Jules Laforgue / “Riccardo III”, o del delitto mondano / “Macbeth”, o il tramonto della solitudine /
Sinossi: 
« V’ è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine – non necessariamente connessa con la nascita – in terra d’Otranto è destinarsi un reale-immaginario. E lì appunto, nel primo dì d’un settembre io fui nato. Otranto. Da sempre magnifico, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche. » Tale l’ incipit di questo quasi-diario di quasi una vita o di una quasi-vita, se, come dice Bene, la sua pur sintetica autobiografia si fonda sul proprio non- esserci, sull’abbandono, sulla mancanza. Otranto è la culla delle storie estromesse, il lutto oltremare. Lì ci si trova immersi in qualcosa che mai ebbe inizio: un’etnia sposata a una vita immaginaria. Da inventare. Per un’autobiografia rischiosissima, immaginaria e reale a un tempo. Ed ecco Bene quattrenne palleggiato da una montagna di donne “d’ogni forma” e “d’ogni età” (le tabacchine di Campi Salentina), la chiesa con le madonne di cartapesta degli artigiani leccesi, gli scolopi, i salesiani, i gesuiti, il latino e il greco antichi, il servir messa; poi, dallo stupore dell’infanzia, Roma, l’Università, le lezioni trascurate, l’apprendistato teatrale, le notti ubriache, in smoking, strangolando colli di bottiglie vuote, le permanenze notturne nei commissariati di zona. Ecco le donne, gli amici, le polemiche; ecco Di Stefano, Eduardo, Dalì, Montale, Klossowski, Lacan, Deleuze. Ed ecco che il rifiuto di esser nella storia, in qualunque storia, anche e soprattutto in scena, induce Carmelo Bene a dar avvio a un teatro che ha inizio «là dove non c’era più nulla da dire, ovvero ‘tutto da essere detti’»; a scendere in campo, in scena, ricercando «nel ‘piano di ascolto’ del ‘dire’ tutte le storie estromesse da quell’unica storia verificatasi e dalla quale ci si esclude »; a compiere cioè quella “rivoluzione” teatrale “copernicana” che raggiungerà il suo culmine col Macbeth: dalla fine del teatro al teatro della fine, alla «fine d’ogni teatro del possibile ». »
(Dalla nota al risvolto di sopraccoperta)
DAL LIBRO
« Nel Teatro Laboratorio spiravano soffi e ventate che fatalmente molto s’imparentavano a quelli del Borgo Santo Spirito. Dopo un’attesa che a volte durava anche tre ore il pubblico era costretto a passare al “trucco”, nell’androne adiacente dove io e il signor Nistri, che vestiva sempre un ineccepibile tight e ghette alle scarpe (tutto materiale che reperiva a Porta Portese), conservando una dignità eroica, sfregiavamo ad libitum il viso agli “abbonati” che, uscendo all’intervallo, si buscavano prima enormi catinellate d’acqua condominiali sul loro snobismo voyeurismo d’accattò (sospesi tra un “mortacci vostri” e “… però carino, stravagante, questo posto…!”) e poi andavano al bar attiguo e si vedevano allo specchio pittati da strapazzo, sicché non potevano criticar nulla o trinciare il repertorio dei loro valori, perché derisi comunque da quel trucco che li cancellava.
Li si truccava solo per questo: perché non fosse possibile seriosità di giudizio alcuno. Si tagliava in loro i fili dell’eventuale pettegolezzo. Erano già, quelle, sane iniezioni di pessimismo che scoppiavano in risa allo specchio.
Era allora con me certo Alberto Greco, gran pittore argentino che predicando l’“Arte-Vivo” sottoponeva le sue migliori tempere al bel-casuale-oltraggio dei copertoni zigrinati che solcano l’asfalto.
Assuefatto pericolosamente a non bere, mi capitò in scena briaco – giusto la sera del debutto del Cristo ’63 nel ruolo dell’apostolo Giovanni, in un teatrino stipato all’inverosimile di centoventi cristiani, pigiati, stropicciati in una clamorosa promiscuità.
Forse spinto – che so io… in quel caso povero Cristo – dall’urgenza di travasare il “colmo”, caro il mio Alberto si concesse d’irrorare a scrosci d’urina le sagome a bella vista in prima fila dell’ambasciatore argentino, della sua signora non casualmente disgraziata al fianco, e dello a seguito addetto culturale.
Così cangiato in quell’altro Giovanni (Battista), trasse nuovi diffamanti spunti dalle torte di scena dell’“Ultima Cena”, allestita in quel caso con un che di esagerato lusso per un’occasione certo più “santa”.
Esaurita la pioggia dorata, il briaco rovesciò in creativo slancio a ripetizione manciate di panna, grumi di liquorosa pasta sopra i tre compatrioti inchiodati al loro seggio in una stuporosa, incredula, dignitosa fissità, ben torniti dalla vischiosa melma e impasto che si addensavano a mo’ di mastice su quel vilipeso onore.
Ormai tradotto quel degenere alla sua abitudine di pittore-imbianchino, meglio dispose la mano in cazzuola a spalmare, rifinire le superfici umane “tutto per bene” (vestiti, chiome, visoni ecc.). E dalla panna al resto: “Spagheti, passame!”
Complici di scena, gli altri guitti tratti a quell’orgia schizoide di materia in libera pulsione porgevano eccitati in quell’ormai demenza collettiva grumi ripugnanti di bigoli filamentosi che il pazzo spalmava sulle nuche arrese che presero a colare ragù misto a terrore. L’ambasciatore specialmente sembrava la Statua del Commendatore, impietrato a quel torrentizio flusso.
Fu una serata davvero indimenticabile.
Il brivido destruens com’è natura dilagò rapido ovunque tra i centoventi, e lo spettacolo fu grande. L’ambasciata argentina fu convertita in blocco-pattumiera. L’ambasciatore in-persona si divertì non poco, se così caldamente sollecitò il giorno dopo la chiusura del teatro, perché quello spettacolo avesse a restare irripetibile. E irripetibile restò. Folgorante anticipo degli happenings che ebbero a seguire negli anni.
Il Cristo che fui non poté altro miracolo che “togliere la luce” a quello sciagurato quadro. Inutilmente. Ci fu chi rapinò l’evento saettando tempestivi flash su quel disdoro.
Benedette foto! Causa della mia assoluzione “per non aver commesso il fatto”.
Già, perché tanti imbecilli si piacquero di fantasticare a voce alta che fui quell’io che orinava in bella copia su tanta terra latina. Diffamazione che mi crocifisse fino a pochi anni or sono.
Definitiva chiusura del Laboratorio a Roma. Processo per direttissima. Vi si contemplava l’arresto preventivo, non avendo la stampa nera e rosa perduto un colpo solo, e in prima pagina, sulla profanazione perpetrata dall’Anticristo che ad ogni costo si volle fossi io, e non il mio prediletto apostolo argentino che in un baleno riparò invece in Spagna a battezzare forse altre ambasciate e predicare l’“Arte-Vivo” a orecchie naturaliter più disposte al suo idioma.
Eh, bisognava non mostrarsi in giro per almeno un mesetto, m’informò un avvocato, mio paziente tra gli eletti più assidui dell’ex teatro. M’acquattai a meditare, cambiando ogni tre giorni domicilio, di villa in villa, di strada in strada, travestito da arabo ammantato alla maniera berbera, vuoi per “non dar nell’occhio”, vuoi perché furono quelli – bianchi e azzurri – bencapitati a me soli indumenti, tramite certi amici miei africani, sempre allegri divoratori di dolciumi al Kief.
Bighellonai così di notte in notte, come uscito di senno-sartoria teatrale, indisturbato come non mai da poliziotti che, pure tentati, di buon cuore mi trascuravano per non precipitare in troglodita sulfurea colpa.
Lavoro a più progetti, trasformati di lì a poco in spettacoli ufficiali: Edward II, da Marlowe (Teatro Arlecchino), Ubu roi, da Jarry (ai Satiri), e infine la ormai storica Salomè, da e di Oscar Wilde (Teatro Delle Muse), salutata da infinite ovazioni e fischi d’una folla élitaria; sostenitori accaniti, Ennio Flaiano, Arbasino, Moravia e Francis Lane. Detrattori altezzosi e irriducibili, gli altri tutti al completo.
Partorita da spensierata sofferenza – poche ore di prova in compagnia di Franco Citti, “Battista” straordinario, e d’Alfredino Leggi, allora ospiti del carcere mandamentale di Ceccano; e di quel Vincenti poi grande attore nelle successive edizioni d’Amleto –, gestita tra gli incensi, in rosso e oro d’accatto nei costumi; la scena, un dopoguerra di bottiglie estinte, questa Salomès’impone all’universo provincialismo romanesco e all’italietta critica, d’un balzo.
“Questa geniale Salomè,” scrisse Alberto Arbasino, “ha avuto il merito di giocare da cartina tornasole, dividendo così le persone intelligenti dalle mezze calzette.”
Si scopre nel suo artefice, chez nous, un “côté Artaud” (quello brechtiano, scontato ormai di Strehler).
Il Borghese dà in smanie: “… Qui nulla può la critica teatrale. Debbono intervenire i carabinieri!…” Il povero Flaiano è sospeso a divinis in qualsivoglia sacramentato salotto della capitale, per avere, simoniaco recidivo, addirittura bissato un “pezzo” sull’Europeo (Il rosa e il nero), mandando a scuola Giuseppe Patroni Griffi. Con questo stesso “autore del Mare” se la prende John Francis Lane sul Times.
All’“enfant terrible” che l’esecuzione immacolata e argentea del precedente “Marlowe” m’aveva procurato, s’aggiunge adesso (fonte fatale d’equivoci corrente tuttavia sul “mio teatro”) – è d’ascriversi a Flaiano anche questa – tutta per me coniata voce scenica, “dissacrazione”, nel senso, è ovvio, demistificante. Macché! Dagli a spiegarsi, traducendo quel detto di tant’Ennio nazionale. Macché! Niente da fare. Eccomi Simon Mago, una volta per tutte, profanatore del testo-altarino, e “L’inferno – l’eterno caldo e freddo dell’idiozia totale addetta e no ai lavori – è certo”.
Ventiquattro anni. Equivoci dovunque e, peggio, in crescita, inversamente proporzionali al mio nome e cognome che sui giornali (sempre storpiato fino a quel momento) appariva oramai nel suo incredibile miraggio anagrafico: melos-carme – montagna.
Equivoci anche “gialli”, nella ineffabile historiette “augusta” della polizia Scelba-Scarpia. Per esempio: Roma era azzurra d’un bel meriggio d’ottobre (si replicava allora Ubu roi al Teatro dei Satiri, patrono l’amico mio, conte Partanna, trepidante fittavolo a malpartito), quando il teatro fu invaso da più truppe di birri, parte a presidio delle entrate-uscite; parte – la più insensata – alla cerca sul palco e sottopalco, si diceva, d’un “quadro della Madonna”. »
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