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Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda – Prima edizione

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda – Prima edizione

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Autore/i:  Carlo Emilio Gadda

Tipologia:  Romanzo

Editore:  Garzanti, Collana "Romanzi Moderni"

Origine:  Milano

Anno:  1957 (22 giugno)

Edizione:  Prima

Pagine:  348

Dimensioni:  cm. 20 x 13,5

Caratteristiche:  Legatura tela, sovraccoperta illustrata a colori da Fulvio Bianconi e ritratto fotografico in b/n dell'autore al secondo risvolto

Note: 

Prima edizione del romanzo di Carlo Emilio Gadda edito da Garzanti (Collana «Romanzi Moderni») con la sovraccoperta firmata da Fulvio Bianconi.

Il romanzo è apparso per la prima volta, in 5 puntate, nella rivista «Letteratura» (gennaio/dicembre 1946, numeri 26-29 e 31). Fu annunciato nel 1946 dalle Edizioni di Letteratura e poi previsto da Vallecchi. L’uscita in volume è datata 1957 per Garzanti, con sostanzioso incremento e notevoli varianti, diviso in dieci capitoli a loro volta articolati in parti minori. I capitoli assenti dall’edizione definitiva furono utilizzati (probabilmente nel 1947-1948) per il trattamento di un film, mai realizzato, pubblicato nel 1983 col titolo Il palazzo degli ori. 

Finito di stampare il 22 giugno 1957 nelle Officine Grafiche  di Aldo Garzanti Editore a Milano.

Una seconda edizione con minime varianti, di 5000 copie non numerate, fu pubblicata 3 mesi dopo la prima di giugno con le stesse caratteristiche. La terza edizione, pubblicata nel gennaio 1958, offre il testo definitivo considerato ne varietur. 

La copia è in buono stato di conservazione.

 

” (…) Il commissario Ciccio Ingravallo, con pazienza ostinata, sorretta da un lume umanissimo di intelligenza morale, si trova impegnato a penetrare il groviglio sordido di un delitto che ha avuto come vittima una giovane e bella signora della borghesia. Ma questa è solo la partenza, il pretesto, diciamo: la vicenda si svolge poi folta di figure e di fatti, trattata con una lingua piena di impuntature, di humour, di accostamenti sorprendenti, e prende la forma di un romanzo doloroso, carico di quella pietà verso umili e potenti che è il segno della partecipazione dell’artista al destino comune. (…) ”

(Dalla nota ai risvolti di questa edizione del romanzo)

«  (…) Quando Gadda cominciò il Pasticciaccio, pensava a Guerra e pace. «Se avessi fiato (cioè gioventù e danaro) vorrei viaggiare tutt’Italia,» scrisse a Gianfranco Contini «impadronirmi dei dialetti: fare un pasticcione con interlocutori nei vari dialetti: un settetto di voci con veneto, bolognese, bresciano, romano, fiorentino, napoletano, ecc. ecc. come in certi numeri di “variété”. Un Guerra e pace col principe Bolkonskij che parla milanese, Nikolenka bolognese, donne fiorentine, ecc. ecc.» Forse non sapeva che anche Guerra e pace era un settetto: anzi più che un settetto:  con la lingua settecentesca del vecchio Bolkonskij, l’intreccio di francese e russo in Andrej Bolkonskij – e poi la lingua dei Rostov, la lingua di Nataša, la lingua di Pierre, quella di Platon Karaetev, di Kutuzov e dello zar Allessandro e di Napoleone. Gadda iniziò il Pasticciaccio alla fine del 1945: durante il 1946 e l’inizio del 1947 compose circa duecentoventi pagine, pubblicate via via su «Letteratura»; con quell’impeto, quella furia, quella velocità, quell’«urgenza esplosiva» che conosceva nei momenti di ispirazione. Continuò più lentamente fino al 1949: salvo tre pagine, ignoriamo cosa abbia scritto. Certo, non la fine: sebbene nell’aprile 1948 Gadda assicurasse Contini che «anche la coda serpentesca del coccodrillone» si era snodata; soltanto che quella coda era una fine provvisoria, che avrebbe trasformato. Nel luglio 1953 Livio Garzanti propose a Gadda di ultimare il Pasticciaccio offrendogli un anticipo allora vistoso. Garzanti aveva trentadue anni: era intelligente, nervoso, ombroso, bizzarro; e possedeva una cultura non comune tra gli editori italiani. Era un vero editore. Come tutti i veri editori, desiderava pubblicare libri bellissimi, e imporli, con lo slancio, la seduzione e il danaro, a un pubblico vasto. Più tardi venne travolto dal suo spirito di distruzione e di autodistruzione. Ma allora era protetto da Attilio Bertolucci, che gli dava eccellenti consigli; e l’avvolgeva con l’immensa dolcezza e mitezza nella quale la sua nevrosi, o quasi follia, si era trasformata. Garzanti aveva compreso ciò che quasi nessuno, allora capiva: il Pasticciaccio era un grande romanzo. Non comprese che lo stile di Gadda era composto a strati successivi, come una torta ligure o siciliana; e che Gadda non raccontava in linea retta, ma fingendo di perdere il filo e soffermandosi su particolari in apparenza insignificanti, come una pagnottella imbottita o un pitale pieno di gioielli, che riflettevano le grandi leggi della natura. Nemmeno i critici letterari lo avevano capito. Garzanti fu l’unico editore che sia mai riuscito nell’impossibile impresa di costringere Gadda a scrivere un libro: lo fece con un’intelligenza, uno slancio e un fervore che, oggi, hanno qualcosa di unico. Quando rilesse il romanzo, egli scrisse: «Mi pare che nessuno di noi si sia reso conto sino in fondo dell’importanza del Suo libro: forse ci vorranno anni. Io mi sento commosso e quasi impacciato ad esserne l’editore». Ho assistito alla pubblicazione di molti libri. Non ho mai conosciuto un entusiasmo come quello che c’era allora in casa editrice, a via della Spiga, a Milano. Il direttore di produzione, Francesco Ravajoli, mi disse: «È bello come I promessi sposi». Non aveva torto. Con grande energia, tra il 1955 e il giugno 1957, Gadda compose il primo volume del Pasticciaccio. Doveva scrivere molte pagine nuove (non sappiamo quante): riscrivere i capitoli pubblicati su «Letteratura»: tagliare un capitolo, lasciando appigli per il secondo volume: correggere il dialetto romanesco, e avviare il secondo volume. Come al solito, ci furono rinvii e ritardi, dovuti, diceva Gadda, al «terreno vulcanico» sul quale viviamo: ma il rinvio è sempre stato un aspetto necessario nella scrittura di Gadda («sono il morante, remorante, colui che tarda a far tutto, a leggere, a scrivere, ad andare, a venire»). Il Pasticciaccio in  volume è più bello, credo molto più bello, della sua prima apparizione in «Letteratura»: lo stile non conosce mai le fredde isterie di Eros e Priapo. Come un famoso linguista dell’ Ottocento affermò dei Promessi sposi, venne scritto con «l’infinita potenza di una mano che non pare avere nervi». Il 9 giugno 1957, l’ultimo capitolo, con le correzioni definitive, fu spedito a Garzanti: il 25 o 26 luglio il romanzo apparve in libreria; in piena estate, in una stagione poco propizia alle vendite. Oggi quasi nessuno immagina la profonda ostilità con cui il Pasticciaccio venne accolto. Mario Missiroli, un genio filosofico-politico, che allora dirigeva il «Corriere della Sera», impedì a Emilio Cecchi, il critico italiano più influente, di dedicare al Pasticciaccio un elzeviro, cioè due colonne di stampa. Era un libro «irrilevante e senza respiro»; e quindi un «taglio basso», cioè due cartelle, bastava e avanzava; ma Cecchi pubblicò in ottobre un lungo e bellissimo articolo sull’«L’Illustrazione italiana». Giulio Debenedetti, direttore della «Stampa», ebbe la stessa idea di Missiroli: poi si ricredette. Il premio Marzotto venne negato. Il Pasticciaccio non piaceva a Calvino (che poi cambiò parere), né a Moravia, né a Elsa Morante – e nemmeno a Pasolini, che gli preferiva L’Adalgisa. Il successo letterario del Pasticciaccio venne deciso da una dozzina di giovani scrittori e critici: alcuni stavano a Roma, altri a Milano, uno a Voghera, uno era nato a Vicenza: avevano trent’anni o meno di trent’anni; e, tranne uno, erano conosciutissimi. Non posso dire che comprendessero il Pasticciaccio, che forse è un libro incomprensibile: ma, per loro, incarnava la letteratura e il sogno della letteratura. Gadda era contento: forse fu l’ultimo momento di quasi felicità della sua vita. Comprese quanto fosse ancora grande la sua energia creativa: a sessantatré anni, quando i romanzieri (tranne Cervantes) non scrivono più romanzi, o grandi romanzi. Le recensioni negative lo lasciarono quasi indifferente. L’amore e il fervore giovanili, che sentiva attorno a sé, gli piacevano. E certo lo lusingò il fatto che, quando il Premio Marzotto gli venne negato, Emilio Cecchi e Raffaele Mattioli inventarono apposta per lui il Premio degli editori. Almeno ad alcuni, sembrava che negare un premio al Pasticciaccio fosse un’onta che andava pubblicamente cancellata. Come Proust, Gadda pensava che un’opera letteraria, specialmente moderna, sia «una cattedrale incompiuta»: manca sempre la conclusione, un passaggio, una spiegazione, un’illuminazione, una vetrata, un capitello, «una cappellina, con la sua statuetta in un angolo». Ma, alla fine del 1957, con le sue forze consce e inconsce, Gadda voleva concludere il libro; e si irritò con Garzanti, perché aveva fatto apporre la parola Fine nell’ultima pagina del primo volume. Del secondo volume, mi parlò decine di volte: non della trama, perché difendeva i suoi segreti romanzeschi. Mi disse che avrebbe utilizzato in flash-back (parola che detestava) una quarantina di pagine della versione di «Letteratura»; e che aveva già scritto una trentina di pagine nuove. Come ripeté a Giulio Cattaneo, il secondo volume avrebbe compreso centoventi-centoquaranta pagine. Poi si stancò: diventò indifferente e quasi ostile verso il proprio libro; come Ruskin, pensava che «nessun grande cessa di lavorare finché non raggiunge il punto di fallimento». Lui lo aveva raggiunto. Le Leggi, premeditate o suggerite da Dio, rimasero nascoste. Questi sono i misteri del Pasticciaccio: forse non li scopriremo mai, nemmeno se l’introvabile manoscritto venisse alla luce. »

Pietro Citati, brano dal capitolo «Carlo Emilio Gadda» di La malattia dell’infinito-La letteratura del NovecentoMilano, Mondadori 2008 )

 

ANTOLOGIA

Gadda svelato da Caravaggio

L’autore del «Pasticciaccio» era un grande esperto d’arte. E nell’alludere a «Giuditta e Oloferne» offre una chiave per risolvere il delitto di via Merulana

di Paolo Di Stefano

Un dettaglio di «Giuditta e Oloferne» di CaravaggioUn dettaglio di «Gi
Un commento necessariamente enciclopedico per un’opera necessariamente enciclopedica. Quasi 1.200 pagine per spiegare un romanzo di poco più di 300 che è un concentrato di riferimenti criptici, di allusioni, di citazioni sotterranee, di rimescolamenti e garbugli stilistici che solo l’ingegner Carlo Emilio Gadda poteva concepire. Un laboratorio tenuto aperto, all’Università di Basilea, con un’équipe variabile di studenti e ricercatori, per oltre sei anni sulle pagine del romanzo più noto di Gadda, uscito nel 1957 per Garzanti e subito ristampato con successo, diventando un bestseller assurdo se si pensa che si tratta di un giallo talmente complesso da non trovare soluzione (il secondo volume promesso all’editore non sarebbe mai stato consegnato), di un intrigo più mentale che materiale su cui indaga il commissario-filosofo don Ciccio Ingravallo.

È stata Maria Antonietta Terzoli, uscita dalla scuola di Dante Isella, a immaginare e poi a guidare questa opera-mondo al quadrato, dopo tanti studi dedicati al Gran Lombardo. È nell’arte della contaminazione che si gioca l’idea gaddiana di letteratura. Nella consapevolezza che lo scrittore non è mai solo con se stesso, ma «per simpatia o per contrasto, per imitazione o per avversione», lavora sempre in compagnia di altri, quelli che sono venuti prima di lui: dunque, la sua opera è il risultato di una selezione nella gamma infinita delle opere precedenti, letterarie e non solo. Il fatto incontestabile è che Gadda è un autore iperletterario, che in modo più o meno esplicito accoglie, rimescolandole, tessere visive, lessicali, stilistiche provenienti da fonti molteplici e diversissime. Ecco perché un commento applicato al Pasticciaccio era non solo auspicabile ma necessario, come lo è stato quello della Cognizione del dolore , elaborato per anni da Emilio Manzotti. Stessa necessità che riguarda in genere i capolavori letterari, le cui risorse non cessano di sorprendere.

E infatti le sorprese con Gadda sono infinite. Uno degli aspetti più notevoli di questo Commento è la messa in rilievo dei fittissimi rapporti con le arti figurative. Già critici come Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro se n’erano occupati: «Nella biblioteca di Gadda conservata al Burcardo – ricorda Terzoli – abbiamo trovato molti volumi di storia dell’arte e cataloghi postillati, in cui Gadda annota, contesta o concorda, rivelando in materia una competenza straordinaria». Il secondo volume del Commento contiene un inserto significativo di immagini di opere d’arte firmate dai maggiori e dai minori, dagli italiani agli stranieri: dal Botticelli a Scipione, da Tiziano a Boldini, dal Signorelli al Correggio, dal Melozzo a Everett Millais, dal Mantegna al Bellini a Pietro Longhi a Picasso, e si potrebbe continuare con (quasi) l’intero scibile dell’arte figurativa. Tutto materiale presente nel romanzo, in ecfrasis più o meno occulte, cioè in una interminabile serie di traduzioni verbali da opere d’arte visiva. Ecco, per esempio, un quadro del romantico monferrino Eleuterio Pagliano che raffigura il pittore greco Zeusi a Crotone davanti a un quintetto di fanciulle da cui si propone di copiare i pregi migliori per dipingere la bellezza perfetta di Elena: eccolo, quel quadro, comparire, su una parete della bettola promiscua gestita dalla maga Zamira, un quadro erroneamente interpretato dai frequentatori come una sorta di ambulatorio medico. Non c’è da meravigliarsi che Gadda giochi di parodia o di deformazione. Ma l’oleografia, che apre la serie delle rappresentazioni pittoriche descritte nel romanzo, ha un valore emblematico. Gadda è Zeusi: «Allude implicitamente – osserva Terzoli – alla costruzione del suo proprio testo, che per rappresentare il reale recupera, selezionandole e contaminandole, le parti migliori di opere precedenti».

In altri casi non c’è parodia ma più che seria allusione occulta. È il caso – autentica scoperta critica di questo Commento – della pala caravaggesca di Palazzo Barberini raffigurante Giuditta che taglia la testa a Oloferne : da lì proviene, scrive Terzoli, «il tratto fisiognomico più significativo che suggella il Pasticciaccio, la ruga verticale tra le sopracciglia del volto adirato» dell’ultima cameriera della vittima Liliana Balducci, e cioè Assunta. Il cui identikit trova rispondenza in Giuditta anche per gli orecchini pendenti di perle. Al quadro di Caravaggio, di grande attualità negli anni ’50, Roberto Longhi, il critico d’arte prediletto da Gadda, aveva dedicato un saggio su «Paragone» nel 1951: un fascicolo presente nella biblioteca dello scrittore. Ecco un elemento extratestuale che induce a pensare che oltre a Virginia, la nipote già pesantemente indiziata come colpevole dell’omicidio della povera Liliana (vittima di un taglio alla gola), ci fosse anche Assunta. Un altro quadro, ben noto a Gadda, che confermerebbe la doppia colpevolezza è la Giuditta di Artemisia Gentileschi, dove l’assassinio è compiuto da due giovani donne, la stessa Giuditta e la fantesca. Ecco, dunque, spiegato uno dei finali più misteriosi della letteratura italiana? Può essere, in attesa dell’indagine che sta portando avanti su alcuni inediti un altro gaddista doc, Giorgio Pinotti.

«Il Commento – dice Terzoli – illustra come lavorava Gadda: utilizzando cioè strumenti importanti per la costruzione del sapere della nuova Italia, elaborati a inizio Novecento». Tra questi non solo i classici latini (che l’Eneide sia uno dei grandi modelli è dimostrato, tra l’altro, dall’insistito gioco onomastico: Enea, Lavinia, Camilla…). E non solo i classici italiani: don Ciccio ha la stessa età, 35 anni, del Dante che si avvia nella selva oscura, ed è lui (controfigura dell’autore) che costruisce gran parte della narrazione. Non solo l’amato Manzoni, anche in questo caso con allusioni onomastiche (la diabolica Virginia porta lo stesso nome della monaca di Monza). Anche i richiami letterari, come quelli artistici, spaziano, dalle origini ai contemporanei (Moravia e Montale), passando per Dossi, Verga, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Svevo e Pirandello. Per non dire dei dialettali, Porta e Belli in primis, e persino il napoletano Giambattista Basile, il cui Cunto de li cunti fu letto da Gadda nella versione di Croce. Senza dimenticare la presenza della tradizione lirica. È per questo che Terzoli parla di un autentico «romanzo dell’Unità nazionale», diversamente dalla lombarda Cognizione, dove ovviamente mancano i richiami alle tradizioni romane e all’archeologia presenti nel Pasticciaccio. Nulla sfugge al Gadda pasticciante: neanche i grandi stranieri, dall’amatissimo Shakespeare a Goethe, all’adorato Balzac, ai russi (Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij).

Ma sul versante nazionale, ecco un’altra lettura trasversale che non può (e non deve) sfuggire: come può, il lombardissimo Ingegnere in blu, trasferitosi a Roma solo nel 1950, ma alle prese con il romanzo sin dal 1946, conoscere alla perfezione i tracciati della Capitale e in particolare dei Colli Albani (dove si svolge l’indagine degli ultimi capitoli), rispettandone le planimetrie e le topografie? Ricorrendo massicciamente alle guide del Touring, che, con l’Enciclopedia Treccani, sono il vero fondamento del romanzo (e del sapere italico).

 

 

Sinossi: 

L’azione si svolge a Roma, durante il fascismo, a partire dal marzo del 1927. Il trentacinquenne commissario di polizia Ingravallo, di origini molisane e chiamato familiarmente  don Ciccio, è incaricato dal capo della squadra mobile, il napoletano dottor Fumi, di svolgere un’inchiesta su un furto di gioielli appartenenti alla contessa veneziana Teresa Menegazzi, avvenuto al numero 219 di via Merulana, una via popolare nel cuore di un vecchio quartiere di Roma. Le prime indagini consentono di ricostruire la rapina: un giovane vestito in tuta grigia da meccanico e con una sciarpa verde al collo si è fatto aprire con un pretesto dalla Menegazzi e, sotto la minaccia di una pistola, l’ha costretta a svuotare un cassetto ricolmo di gioielli e a tirare fuori le banconote da un portafoglio. I testimoni indicano, come probabile complice del ladro, un biondo garzone di pizzicagnolo, la cui ripetuta frequentazione nel palazzo è dovuta all’accondiscendenza interessata di Filippo Angeloni, impiegato del ministero dell’Economia Nazionale e appassionato di gastronomia. Ingravallo interroga quest’ultimo non lesinando insinuazioni riguardo alla sua omosessualità. Nello stesso palazzo abitano due amici del commissario: i coniugi Remo e Liliana Balducci, dai quali egli è solito andare a pranzo nei giorni festivi. In quelle occasioni, lo scapolo Ingravallo si è imbattuto nella nipote adottiva della coppia, Gina Zanchetti, e nella bellissima domestica Assunta (detta Tina), subentrata a un’altra splendida ragazza, Virginia. Tuttavia egli ripone tutta la propria morbosa ammirazione per Liliana Balducci, considerandola l’incarnazione della purezza e della dolcezza femminile. E così il mattino di giovedì 17 marzo, il commissario è sgomento quando apprende la notizia che Liliana è stata selvaggiamente assassinata nel suo appartamento al 219: il furto di gioielli e l’assassinio sono opera della stessa persona? Gli indizi sono scarsi, le testimonianze contraddittorie. Il romanzo illustra l’odissea di don Ciccio Ingravallo, del dottor Fumi e dei loro uomini (tra gli altri, il maresciallo Santarella e il carabiniere Pestalozzi) attraverso Roma e la sua periferia nel tentativo di ricostruire la verità. Nello stesso tempo agli inquirenti si rivelerà tutta una società, dall’alto funzionario alle prostitute, dall’aristocrazia al popolino di Roma. I sospetti di Ingravallo si concentrano inizialmente su Giuliano Valdarena, giovane e aitante nipote di Liliana (assai invidiato dal commissario), mentre le autorità perseguitano il povero Angeloni. Man mano che l’inchiesta procede, emerge un nuovo aspetto di Liliana: non potendo avere il figlio che desiderava, la donna riversava il proprio affetto frustrato sull’aitante nipote, e su orfane che faceva venire dalla campagna, da lei “adottate” e colmate di favori fino a quando sfuggivano al suo controllo. Le ragazze, entrate in casa come domestiche, si trasformavano in potenziali “nipoti”: una, Milena, si era rivelata una piccola ladra e un’abile bugiarda; l’altra, Ines, cinica e ignorante, aveva abbandonato la “madrina” per sposare un eterno studente di legge; e c’era stata poi l’altera Virginia che sembrava aver stregato sia Liliana sia il marito con la sua procacità demoniaca. Delusa e truffata ogni volta, Liliana attingeva dalla religione la forza di ricominciare daccapo l’esperienza, col tacito accordo del marito Remo, semplice “oggetto domestico” abituato a dividere l’esistenza tra i viaggi d’affari e la caccia. Al termine di un interrogatorio che mette a confronto Giuliano Valdarena e Remo Balducci, il sacerdote don Ciotti consegna agli inquirenti il testamento di Liliana: quasi la metà del patrimonio va al marito e una grande parte all’ultima “nipote”, Gina Zanchetti, mentre alla più recente domestica Assunta va una dote di biancheria. Tutte le  ragazze entrate a far parte nel giro di adozioni della defunta Liliana Balducci finiscono con l’essere coinvolte  nell’inchiesta. Intanto, una telefonata in questura comunica l’avvenuta identificazione dell’uomo con la sciarpa verde: si tratta di Enea Retalli, un ladro di professione. E le rivelazioni di una prostituta, Ines Cionini, mettono sulle tracce di una sedicente lavandaia che gestisce un postribolo nei dintorni di Roma, Zamira Pacori, ex meretrice dei battaglioni d’Africa, poi diventata ruffiana, cartomante e guaritrice. Ines confessa tra le lacrime il suo infelice amore per Diomede Lanciani, un prestante gigolò per turiste, da tempo in combutta con Zamira. Dall’interrogatorio di Ines emergono anche le figure della “diabolica” Virginia (su cui ricadono i sospetti dell’omicidio) e del fratello minore di Diomede, Ascanio, le cui fattezze ricordano giustamente a Ingravallo il garzone biondo sospettato di essere il complice del primo furto a via Merulana. Nel frattempo, guidato dalle proprie intuizioni e da un certo sogno, il carabiniere Pestalozzi compie un’indagine che lo mette a confronto con Zamira e con una sua dipendente, Lavinia Mattonari, sul cui dito egli scopre uno dei topazi rubati alla contessa Menegazzi in via Merulana. Pestalozzi requisisce alla ragazza l’anello come parte della refurtiva Menegazzi insinuando che si tratti di un dono di Enea Retalli. Inizialmente, Lavinia dichiara di aver ricevuto l’anello in prestito da una sua lontana cugina, Camilla Mattonari. La pista è buona e conduce Pestalozzi a casa di Camilla, guarda-barriere della campagna romana, dove viene ritrovata un’altra parte del bottino nascosta in un pitale, un mucchio di gioielli appartenenti alla Menegazzi e, forse, alla Balducci. In preda all’esaltazione, Camilla sospetta che ci sia stata una delazione agli inquirenti da parte di un essere diabolico. Ma in ballo c’è un’altra donna, Clelia Farcioni, informatrice del maresciallo Santarella. Il confronto tra le due cugine Lavinia e Camilla, in lite tra loro, sembra essere risolutivo: Lavinia confessa che a darle l’anello è stato Enea Retalli, la cui fuga è stata favorita da Camilla. Nel vortice dell’intrigo, le figure di Camilla, Lavinia e Clelia sembrano scambiarsi continuamente i ruoli, mentre dietro di loro emerge una inquietante presenza femminile dai tratti indistinti. Intanto, parte un’operazione degli inquirenti che conduce al fermo del giovane Ascanio, accusato di essere il complice di Enea nel furto di gioielli. Mentre il maresciallo e il brigadiere sono in missione, l’uno da Zamira e l’altro sulle tracce del colpevole Enea, il commissario Ingravallo si reca a interrogare la bellissima Assunta, la domestica conosciuta a casa dei Balducci. La casa è circondata dagli agenti. Quando Assunta compare, Ingravallo la incalza duramente, chiedendo chi si stia nascondendo in casa. Alla risposta che c’è solo il padre morente e una donna anziana, Veronica Migliarini, che aiuta la ragazza a occuparsi del malato, Ingravallo irrompe nella misera abitazione, fin dentro una sporca e maleodorante stanza dove giace a letto una figura immobile, dall’indistinguibile identità sessuale. Per terra è adagiato un pitale di maiolica dal contenuto indefinibile, dono di Liliana Balducci come del resto la bella coperta sul letto del morente. Ingravallo si abbandona a un violento interrogatorio di Assunta, chiedendole il nome dell’assassinio: ma ottiene solo il grido di diniego della ragazza, che illumina improvvisamente la mente del commissario conducendolo alla soluzione del caso.

♦ Così termina il Pasticciaccio: «(…) Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe’llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».

 

♦ In alcune interviste successive Carlo Emilio Gadda dichiarò:

«(…) Io il Pasticciaccio lo considero finito. (…) Sì, letteralmente concluso. Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta».

 

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