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Pino Mercanti: il neorealismo a basso costo

Pino Mercanti: il neorealismo a basso costo

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Tipologia:  Articolo

Testata:  la Repubblica / Palermo

Data/e:  mercoledì 31 luglio 2019

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Forse l’immagine più efficace della parabola di Pino Mercanti sta tutta in quella via stretta e tortuosa che, a Palermo, porta il suo nome.

Perché davvero tortuosa e sacrificata è stata la carriera di questo cineasta nato a Palermo nel 1911 e morto nel 1986 a Roma dove si era trasferito, costretto troppe volte a ricominciare da zero fino all’ultimo dei suoi 22 lungometraggi, Il clandestino del 1970, il cui completamento egli dovette affidare a un collega per l’acuirsi di malanni senili, e che qualcuno definì il film della sua rinascita, sia pure in extremis.

E invece da allora in poi a lui e al suo talento spettò l’oblio, né gli fu garantito alcun doveroso apprezzamento post mortem, cosa che ormai non si nega all’ultimo dei registi trash.

A oggi, solamente uno dei suoi film, Il vendicatore mascherato, è stato pubblicato in Dvd, e quasi nessuno finì compreso nei palinsesti nazionali anche dopo che il nostro divenne il bersaglio della caustica parodia di Ciprì & Maresco nel magnifico Ritorno di Cagliostro (2003), identificato come simbolo della serie Z trasferita nell’utopia di una scalcagnata Hollywood siciliana.

A restituire la giusta caratura a vita e opere di Mercanti provvede oggi l’accurata monografia pubblicata da Algra Editore, “Pino Mercanti – Un regista siciliano tra realtà e utopia”.

I due autori — l’autorevole decano della storiografia cinematografica isolana Nino Genovese, insieme al figlio Mauro — portano a compimento, attraverso una dettagliata schedatura dell’opera omnia, un percorso di riesumazione critica intrapreso con generosità negli anni da Nila Noto, Gregorio Napoli, Giovanni Massa, Sebastiano Gesù e da Tatti Sanguineti, al quale si deve la proiezione di due titoli del regista in una retrospettiva al Festival di Taormina 1994.

Di Mercanti scopriamo in queste pagine innanzi tutto l’ostinata vocazione verista, manifestata dal 1932 in poi sia nella produzione documentaristica inizialmente per il Cineguf di Palermo, sia nei ripetuti tentativi di portare sullo schermo I Malavoglia (la prima volta nel ’37 e quindi 11 anni prima di La terra trema).

Una predilezione, questa per Verga, che nel ‘46 influenzò quanto meno la concezione di Malacarne o Turi della tonnara, il film-bandiera non solo del Mercanti aspirante neorealista ma anche della sua impresa imprenditoriale più ambiziosa, quell’OFS (Organizzazione Filmistica Siciliana) di cui fu tra i fondatori e il cui compito, com’è noto, doveva essere quello di esportare nel mondo il brand cinematografico dell’isola.

Per la verità, la melodrammatica vicenda di Turi, che più che un ‘Ntoni verghiano pare un Liolà marinaresco, si distacca non solo dal dettato verista ma anche dal Rossellini touch. E dunque neorealismo sì, ma “rosa” (anticipando di tre anni la svolta di Riso amaro di De Santis).

Nonostante gli accenni alla condizione sociale dei “vinti” di Castellammare del Golfo, valorizzato dall’impatto realistico con le impressionanti scene che mostrano la mattanza dei tonni, Malacarne finì per piacere più al pubblico che alla critica, forse anche a causa delle interpretazioni del protagonista Otello Toso e della guest star Amedeo Nazzari, stucchevoli almeno quanto il lieto fine imposto dai noleggiatori.

Ma fu sufficiente mostrare “dal vero” ambienti e paesaggi della realtà siciliana per attizzare il disappunto dei benpensanti finanziatori della Casa di produzione palermitana, tra cui un influente funzionario del Banco di Sicilia che, dopo l’anteprima del film, irritato da tanta ostentazione di “panni sporchi”, pare abbia esclamato un dirimente “Anche noi siciliani sappiamo portare il frack!”.

Fu un segnale inequivocabile per Mercanti e soci, ai quali non restò che rinunciare alle ambizioni neorealistiche e ripiegare sull’inattualità del cinema in costume, sul più consolatorio e digestivo motivo amoroso-cavalleresco del “cappa e spada” che costituisce la succulenta materia dei popolarissimi feuilleton di Luigi Natoli.

Ed ecco I Cavalieri dalle maschere nere, derivatoda “I Beati Paoli”, e Il principe ribelle da “Coriolano della Floresta”, entrambi girati in poche settimane nelle stesse location palermitane (suggestive le scene al Parco della Favorita, a San Giovanni degli Eremiti, a Palazzo dei Normanni) e utilizzando il medesimo cast artistico e tecnico.

L’utile monografia dei Genovese c’informa come questa strategia votata al low budget d’appendice non bastò comunque a impedire il fallimento della “OFS”, abbandonata dalla banca finanziatrice e snobbata dalle istituzioni politiche fino al punto da svendere il proprio patrimonio a un rigattiere per la misera somma di 500 mila lire.

Trasferitosi a Cinecittà e dintorni, Mercanti intraprese la strada del cinema popolare, affinando anno dopo anno le proprie qualità di gran virtuoso del basso costo (qualità allora come oggi assai ricercate).

E tutto questo lo fece misurandosi dignitosamente con i generi allora più in voga: dal cappa e spada al mélo (come il film tratto da Carolina Invernizio, La vendetta di una pazza, e quello a sfondo storico di I cinque dell’Adamello sulle storie degli alpini trovati morti alla fine della Grande Guerra), e poi il western con Le maledette pistole di Dallas (il cui titolo nel 1964 sfruttava le macabre risonanze della città dell’attentato al presidente Kennedy), uno spy-movie di marca anti-bondiana come Cifrato speciale e alcuni tosti musicarelli interpretati da beniamini del melodico d’antan come Claudio Villa e Aurelio Fierro.

A rivederli oggi (a patto di reperirli avventurosamente in home video usciti all’estero), questi efficaci prodotti di genere esportati in mezzo mondo sembrano tutti raccontare, magari sublimandola, la stessa storia: quella di un “vinto” in cerca di riscatto, travestito da vendicatore mascherato, da cavaliere dai cento volti, da cantante proletario smanioso di affermazione o da pistolero in cerca di giustizia.

E così, pur adeguandosi alle leggi del mercato fino a ricorrere a quei soprannomi esotici acchiappaspettatori (Joseph Trader, Herbert J. Sherman, Henry Folkner), Mercanti dimostrò di non voler rinunciare alla propria coerenza di cineasta, proseguendo un’attività da documentarista che gli permise un costante corteggiamento della realtà, e coltivando una serie di progetti ambiziosi che avrebbero dovuto affermare le proprie qualità d’autore.

Nel suo ultimo e più ispirato Il clandestino, arricchì di risonanze autobiografiche e realiste l’avventura del suo emigrante siciliano in America che, dopo essere stato abbandonato tra i flutti dal suo nostromo aguzzino (uno scafista di quei tempi) e aver subito le truci angherie di un caporalato allora destinato agli italoamericani disprezzati come “dago” o “wop”, prima fonda un sindacato e poi si trasforma in un rabbioso gangster proletario simile quelli dei film di Altman ai tempi della New Hollywood anni ‘70.

Anche in quel caso non girò un capolavoro, ma dimostrò la lucidità di chi sa come tenere la barra dritta una volta giunto all’approdo di una carriera piena di rimpianti.

Quei rimpianti che Mercanti confessò in una lettera del 1986 che pare il j’accuse di un “vinto”, un ‘Ntoni Malavoglia dell’industria dei film: “Ho una cantina piena di sceneggiature che potevano fare la fortuna di quanti si fossero accorti, in tempo, che il Cinema è una cosa seria!”.

 

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