Palermo Ridens o La capitale mancata del comico in”Luci sulla città. Palermo nel cinema dalle origini al 2000″ – Associazione Culturale ASCinema-Archivio Siciliano del Cinema
Tipologia:  Saggio in "Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini al 2000", a cura di Antonio La Torre Giordano, Edizioni Lussografica, 2020
Data/e:  Agosto 2020
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Che Palermo non sia stata la capitale della commedia alla siciliana, uno dei filoni peculiari della via popolare al made in Italy cinematografico nel secolo scorso, lo si rileva limitandosi a scorrere la catalogazione geografica delle sue location.
Non c’è dubbio, infatti, che durante il periodo produttivo su cui il presente libro indaga fermandosi alle soglie degli anni Duemila, il luogo Palermo, inteso come spazio scenico generatore di fiction, sia stato quasi sempre utilizzato come contenitore o fondale di trame e performance, anziché come paesaggio “in divenire”, simbolicamente eloquente e conduttore di quell’epica minore del quotidiano sulla cui rappresentazione si è fondata, nella storia del cinema italiano, l’efficacia demistificatrice della macchina comica.
E se lo stesso non può dirsi degli altri territori inclusi nella mappatura di quella che il critico palermitano Vittorio Albano definì una volta la Sicilia ridens cinematografica (a cominciare da Catania, la sua capitale elettiva), il merito va ascritto soprattutto all’influenza esercitata, in quel contesto, da una solida tradizione letteraria e teatrale novecentesca che, attraverso i suoi poliedrici protagonisti (da Pirandello a Martoglio, da Brancati a Patti), ha imparato a dialogare efficacemente con i codici espressivi e i registri tematici del medium cinematografico.
Si deve dunque al funzionamento di questo mélange tra pratiche diverse il relativo successo del cinema comico (e di tutte le sue categorie) ambientato in Sicilia a partire dagli anni ’50.
Per quel che riguarda la nostra indagine su Palermo e la sua provincia, parliamo di un numero limitato di film girati e raramente prodotti nell’isola.
Sono gli esemplari di un cinema di genere abituato a conformarsi, con alterni risultati, alle esigenze del mercato, costringendo i suoi artigiani ad abbandonare ogni ambizione o velleità “artistica” spesso a favore di una deprimente medietà, e contribuendo a diffondere alcuni di quei cliché (primo tra tutti, l’uso e abuso di un dialetto siciliano stereotipato e improbabile) che nel tempo hanno alimentato, edulcorandola, l’immagine della Sicilia e delle sue tante dimensioni e metafore identitarie, per altri versi esplorate dal cinema “d’autore”, che ha invece preferito preservare, di quell’immagine, il mistero e l’illeggibilità.
Non resta che prendere atto dell’inerzia, iconica prima che culturale, rilevabile nella maggioranza dei prodotti appartenenti al genere comico e alla commedia girati a Palermo durante il periodo preso in esame nel presente capitolo.
Davvero sono pochi i film del nostro elenco che si sono mostrati all’altezza della connaturata intelligenza di quel cinema di serie votato alla “regionalizzazione”, che in qualche caso ha saputo ben nutrirsi delle cosiddette pratiche basse (il circo, l’avanspettacolo, il varietà).
E dire che la maniera del comico e della commedia “alla siciliana” ha riconosciuto come proprio modello testuale il magistrale dittico di Pietro Germi, Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata.
Ricordiamo che quei due capolavori, rispettivamente del 1961 e del 1963, hanno contribuito più di altri a strutturare, rifondandone la caratura popolare, l’arte “all’italiana” della commedia d’ambiente così radicata nel presente e nei suoi cerimoniali socioculturali da innestarsi, per poi sostituirsi, al canone neorealista, utilizzando il bozzetto e la caricatura, la macchietta e la maschera, come strumento di rappresentazione critica (e qualche volta politica) della realtà.
E se c’è un elemento che caratterizza esemplarmente il Germi “siciliano” è proprio il modo propulsivo con cui egli è riuscito a fare interloquire la storia e i personaggi con il paesaggio dei suoi film. Basti pensare al valore iconografico conservato da quella piazza Noceto a Sciacca che fu uno dei set centrali di Sedotta e abbandonata. Purtroppo, però, la lezione di stile tramandata da questi due classici è stata raramente capita, assimilata, rivivificata.
La misura barocca, insieme smagliante e chiaroscurale, del cinema di Germi è stata elaborata solo in superficie da quei cineasti che da allievi si sono ridotti a epigoni.
La sua acutezza antropologica e sociologica è stata spesso equivocata, trasformata in ridondanza folcloristica o bozzettismo di maniera. Al gusto pittorico è subentrato un patinato, insopportabile estetismo.
Riguardo alla lezione di Germi e alla sua dissipazione, assai rare rimangono le eccezioni rintracciabili nel repertorio della Sicilia ridens.
Una riguarda sicuramente quel laboratorio d’irregolarità e anticonformismo che è stato (che è) il cinema palermitano di Franco Maresco e Daniele Ciprì.
Un cinema che del Germi touch (e non solo di quello) ha assunto (consapevolmente, criticamente) la qualità di sguardo. Cha saputo lavorare su una idea radicale di spaesamento umoristico, tra l’altro conferendo al paesaggio, ai suoi valori come ai suoi volumi, un eccezionale protagonismo.
Torneremo su questo virtuoso esempio di geniale alterazione comica applicata al reale, dopo aver cercato di fare ordine in questa nostra rapida ricognizione “archeologica” nel territorio della Palermo ridens, per un regesto delle location individuate che riguardi non solo il “dove” ma anche il “come” esse siano state utilizzate una volta diventate set.
Ed è doveroso iniziare dal fenomeno, anche questo tutto palermitano, di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la coppia comica più prolifica e brillantemente smandrappata del nostro cinema di genere.
Nella prima fase della carriera, li abbiamo conosciuti mentre cavalcavano l’onda di un successo mediatico come irresistibili fuoriclasse della smorfia e del lazzo elementare, virtuosisticamente funzionanti come lo yin e yang del cinema popolare con tanto di tormentone imperituro (“soprassediamo!”).
In seguito, è emersa prepotentemente la loro statura di maschere umoristiche (e quindi anche tragiche) della più flagrante sicilitudine, in coppia come da solisti. Un duo perfettamente calibrato che, fin dalla prima apparizione sul grande schermo (in Appuntamento a Ischia, un Mario Mattoli del 1960), seppe marcare ma anche incarnare il proprio territorio di provenienza: “Franco e Ciccio sembravano due appena presi dalla strada. Non solo, ma anche due che erano appena arrivati a piedi da Palermo mentre stai scegliendo i nuovi mobili firmati per il tinello” — ha scritto una volta Marco Giusti, per dare conto della sorpresa che costituì l’irruzione della loro comicità squilibrata e corporale nei “tinelli” tirati a lucido del cinema italiano degli anni ’60.
Una comicità, la loro, che soprattutto seppe adattarsi (qualche volta genialmente) alle misure standardizzate della parodia, genere lucrativo per il sistema-cinema a ridosso della Hollywood sul Tevere, deciso a puntare sullo sfruttamento intensivo per la serie B dei set allestiti per la serie A.
Il fatto che, in ognuno dei loro 116 film e rotti (e delle numerosissime prove televisive), Franchi e Ingrassia siano diventati essi stessi un “luogo” (oltre che un logo) di Palermo, potrebbe affrancarci da ogni verifica delle location palermitane nei loro film.
Infatti, si tratta più che altro d’indicazioni di luoghi, orpelli utili solo a fare capire l’ambientazione della trama o a incorniciarla.
È il caso, cronologicamente inaugurale, di I due mafiosi (Giorgio Simonelli, 1964) dove, per illustrare una partenza a Parigi, appaiono incongruamente montate insieme l’inquadratura della pista all’aeroporto palermitano (allora Punta Raisi e oggi Falcone e Borsellino) e la ripresa, compiuta a 30 chilometri di distanza, di una veduta dal Foro Italico Umberto I.
Una panoramica dall’alto di Palermo inaugura poi l’episodio Gli ultimi pupari di I zanzaroni (Ugo La Rosa, 1967), interamente girato nei teatri di posa dell’Istituto Luce a Roma dove fu ricostruito un cortile e un tradizionale teatrino dei pupi. Trenta minuti di distillato della sapienza mimica, astratta e visceralmente evocativa, di Franchi e Ingrassia chiamati ancora una volta a incarnare una Palermo elevata a paradigma teatrale, attraverso l’epica popolarissima e ironicamente deformante dell’Opera dei pupi.
Ma dobbiamo arrivare a Il figlioccio del padrino (Mariano Laurenti, 1973) per identificare un’autentico esterno palermitano, anche se si tratta del primo lungometraggio che Franchi girò senza Ingrassia e diretto da Laurenti, artigiano dei musicarelli diventato in seguito uno dei maestri della commedia erotica.
Si tratta di una delle parodie del Padrino con Brando, dove Franchi è un Candide italoamericano svezzato dal “don” incarnato da Saro Urzì, anche in questa occasione (come nel prototipo di Coppola) padre dell’avvenente Apollonia di turno che qui finisce per attizzare il “figlioccio” del titolo.
Un low budget con location ingannevoli (Latina, Roma, Acireale) scelte apposta per evocare paesaggi e ambienti del mafia movie. Palermo è identificabile grazie a soggettive in camera car lungo un percorso improbabile che dalla Villa Bonanno di via Vittorio Emanuele sbocca alla Salita Belmonte fino a condurci all’immancabile Hotel Villa Igea, simbolo della capitale felicissima dei Florio, di Ernesto Basile architetto e della remota Bella Époque.
Seguendo l’ordine cronologico c’imbattiamo poi in Farfallon (Riccardo Pazzaglia, 1974), dove diventa difficile distinguere la presunta sequenza girata nel Golfo di Palermo dal resto dei suggestivi esterni a Procida, Porto Santo Stefano, Isola del Giglio, Balsorano.
Questa surreale, caustica parodia del blockbuster carcerario Papillon, doveva essere una corroborante rentrée per Franchi e Ingrassia, a seguire uno dei tanti loro litigi, e invece provocò l’ennesima rottura.
A riunirli nuovamente e fatalmente provvide il più infausto tra i titoli della loro folta filmografia, lo “scult” Crema, cioccolata e pa…prika (Michele Massimo Tarantini, 1981), un regalo da 500 milioni di lire fatto dal “papa” di Cosa nostra, Michele Greco, al figlio Giuseppe aspirante cineasta, che per l’occasione scrisse il soggetto ritagliandosi il ruolo di giovane protagonista, e pretendendo la presenza dei due comici palermitani affiancati dal mattatore della commedia sexy Renzo Montagnani, dalla sinuosa e spiritosa Barbara Bouchet e dalla conturbante fatina Silvia Dionisio.
Di questa pochade tendente al pecoreccio e dalle imbarazzanti ambizioni surreali, Palermo è il set privilegiato. Si tratta dell’unica volta in cui la coppia gira quasi interamente un film nella città natale.
Villa Malfitano Whitaker, gioiello neoclassico famoso per i suoi sette ettari di giardino, presta i suoi esterni all’ambigua clinica di lusso (utile a coprire un’attività di esportazione all’estero di tangenti) che sta al centro dell’intrigo. Negli interni della stessa villa sono state girate le scene della paludata festa organizzata dall’onorevole Mazzetta (nomen omen) interpretato dallo strampalato Giorgio Bracardi.
Durante gli incongrui incroci e inseguimenti tra personaggi (Franchi è un infermiere che si ritrova tra le mani una valigetta con cinque miliardi di lire tampinato da Ciccio, segretario del direttore della clinica, incaricato di recuperarla) riconosciamo le piazze Pretoria, Giuseppe Verdi e quella del Parlamento, insieme a porzioni di via Noce, viale della Libertà, via Leonardo da Vinci.
Nel film appare il Foro Italico dalla prospettiva di Porta Felice, il molo Vittorio Veneto al porto, e viene utilizzato l’ormai dismesso ristorante “Chamade mare” di via Principe di Scalea a Mondello. Dal canto suo, per una casta scena d’amore con la fatina Dionisio, Greco junior si riservò la mistica location del Chiostro dei Benedettini a Monreale.
Più che il filmetto in sé, fu il suo profilmico a far precipitare, alla fine degli anni ’80, nel tritacarne mediatico il povero Franco Franchi, da “persona informata sui fatti” per una indagine del giudice Falcone e del suo pool sul riciclaggio dei soldi sporchi di Cosa nostra.
Gli “indizi” erano uno stock di magliette con il logo del film trovate nel covo di un mafioso, l’utilizzo durante la lavorazione di una Mercedes concessa da uno dei cugini Salvo organici alla mafia, e il coinvolgimento dello stesso Giuseppe Greco (che in seguito diventò regista con lo pseudonimo di Giorgio Castellani) in una delle tante inchieste che alimentarono il “maxiprocesso” in cui il padre Michele fu condannato all’ergastolo.
A Franchi non bastò il non luogo a procedere per frenare quel crollo nervoso che ne minò la verve e la salute fisica sino alla morte, avvenuta nel 1992, undici anni prima di quella di Ingrassia.
Lo spiacevole episodio fu subito cancellato e lo sarà nella memoria dei posteri, mentre a temprarsi sempre di più è il mito post mortem di queste due singolari incarnazioni della comicità tellurica made in Sicily.
Preferendo un diverso ordine rispetto a quello cronologico in questa nostra identificazione cine-topografica, scoviamo la Palermo trasformata nel set di uno dei tanti successi anni ‘70 di Lando Buzzanca, palermitano doc originario del quartiere attraversato da quel che resta del fiume Oreto, anche lui emigrato a Cinecittà e dintorni, forgiato da Germi e diventato col tempo un altro primatista del botteghino nazional popolare, una ironica maschera post-brancatiana e un gigionesco “brillante” del grande e piccolo schermo.
Il film è La schiava io ce l’ho e tu no (Giorgio Capitani, 1973), il cui solo titolo appare improponibile nei presenti tempi di “politicamente corretto” e “Me Too”.
Si tratta della storia ambiguamente ironica di un “masculo” che, stufatosi della moglie Catherine Spaak e dell’amante Adriana Asti, importa la remissiva Manua (Veronica Merin) dall’Amazzonia per esibirla beffardamente come schiava ad amici e concittadini invidiosi.
Soprattutto a Palermo alcuni lo ricordano per la sequenza (che allora sembrò spiritosa) del risciò tirato dalla seminuda Manua con a bordo l’ “homo eroticus” Buzzanca, girata lungo una delle corsie laterali di viale della Libertà (zona Politeama), in via Turati, in piazza Castelnuovo e in via Ruggero Settimo.
Va detto per inciso che questa è l’unica commedia che documenti in qualche modo la convivenza squilibrata della Palermo “residenziale” di quegli anni (depredata del suo liberty architettonico dal sacco edilizio dei suoi governanti mafiosi) con quella dei palazzi storici resistenti al degrado.
E così vediamo l’aristocratico machista dal cuore d’oro, il Dedé di Buzzanca, abitare nel Palazzo Ugo delle Favare a Piazza Bologni, e il padre a Villa De Simone nella via Atlante di Partanna Mondello, mentre la stizzosa moglie radical-chic va a dimorare da separata nei piani alti di un palazzo residenziale in viale della Libertà 193.
Il rimanente elenco degli esterni del film comprende Palazzo Pretorio come sede del Vescovado, la storica piazza della Vittoria, il frontespizio del Teatro Massimo (un anno prima di essere chiuso per una ristrutturazione che si protrasse fino al 1997) e quello del Teatro Politeama inquadrato in prospettiva sul primo piano di una cabina telefonica posticcia dove l’amante Asti scandisce il suo messaggio in codice all’esasperato Dedé.
S’intravedono pure le linee neoclassiche del frontespizio della Stazione centrale, una veduta della Cattedrale e una gioielleria all’angolo tra via Ricasoli e viale della Libertà.
Esaurito l’unico itinerario palermitano del cinema “buzzanchiano”, La schiava… ci riserva il bonus “pro loco” di una pretestuosa escursione a Cefalù, tra il Duomo e, in un’altra scena, la via Carlo Ortolani di Bordonaro affacciata sul molo antico.
Un curioso tentativo utilizzare parodisticamente, per una commedia nera al cui centro c’è la consueta eredità della “buonanima” di turno, alcune location palermitane entrate nel repertorio dei mafia movie e del cinema civile degli anni ’70, lo si riscontra ne L’ammazzatina (Ignazio Dolce, 1974), lancio sul grande schermo di Pino Caruso, un altro fuoriclasse della scena comica made in Palermo a cui la paleotelevisione garantì l’originario exploit. In questo mélange di erotismo farsesco, satira di costume modello Bagaglino e pirandellismo di maniera, funzionano da indicatori di una cercata (ma solo abbozzata) intenzionalità grottesca gli ambienti scelti per le scene clou. Parliamo degli esterni palermitani, all’Arenella dove avviene l’iniziale pranzo tra i boss sullo sfondo della Palazzina dei Quattro Pizzi, nei sotterranei delle Catacombe dei Cappuccini (prima che le utilizzasse Francesco Rosi per Cadaveri eccellenti), o in quella piazza Marina nella quale, com’è noto, si consumò il delitto mafioso del poliziotto Joe Petrosino, e che qui è il teatro dell’ “ammazzatina” del titolo in cui viene fatto fuori il suocero del protagonista, mentre il funerale dello stesso si svolge nella piazza Duomo di Carini. Del tutto generiche appaiono invece le altre location al Foro Italico, al Parco d’Orleans e davanti la Cattedrale.
Se c’è un film del nostro elenco che si sforza di trasformare un luogo esterno in spazio scenico, posto che non incornicia ma semmai determina la centralità e la specularità della performance comica, questo è Johnny Stecchino (1991), dove Roberto Benigni (attore ma anche regista e sceneggiatore con Vincenzo Cerami) guarda a Blake Edwards ed emula Jerry Lewis, giocando a dosare e incattivire i propri trucchi e sdoppiamenti per arrivare, utilizzando l’arma dello sberleffo antimafioso, alla demolizione di ogni stereotipo attraverso la clownerie, lo slapstick, la satira. Purtroppo Palermo c’è ma non si vede, in questa fiabesca e corrosiva commedia degli equivoci, dove il mite autista di un pulmino per disabili si sostituisce come sosia a un truce boss pentito che Cosa nostra vuole liquidare.
Nel senso che la storia di Dante doppio di Johnny Stecchino ha come teatro una Palermo indicata simbolicamente ma realmente dislocata in altri set siciliani.
E così, nel film, il palermitano Teatro Massimo (ancora “fuori servizio” al tempo delle riprese), crocevia del dilemma comico sul “costo delle banane a Palermo”, è in realtà il Teatro Massimo Bellini di Catania.
Spacciati per palermitani sono, tra gli altri, un negozio di frutta e verdura a Letojanni e un bar a Giardini Naxos, segno evidente che Benigni ha voluto evitare il chiaroscurale labirinto urbano del cliché della Palermo noir.
Fa eccezione intelligente la scena dello zio di Dante che indottrina il candido nipote circa le piaghe palermitane la cui peggiore sarebbe quella del “traffico”: un camera car girato nella congestione “presa dal vero” di via Foro Umberto I sul lungomare di Palermo.
Altra location palermitana a cui Johnny Stecchino regala centralità è la Villa Malfitano Whitaker della festa altolocata che viene trasformata in un surreale proscenio d’avanspettacolo, con gli “amici degli amici” messi alla berlina da Benigni, che in questa scena usa il gag della cocaina come Peter Sellers la schiuma in Hollywood Party.
Per rintracciare un utilizzo altrettanto espressivo degli esterni rispetto al Benigni di Johnny Stecchino, l’esempio da fare, per ciò che concerne il nostro genere di riferimento, è quello di La fame e la sete (1999).
Un film dove emerge in tutta la sua prorompenza, anche satirica, la cifra grottesca dello stile comico di uno dei più singolari attori italiani nei presenti anni zero, Antonio Albanese (nato a Olginate ma di ascendenza siciliana), in questa occasione sceneggiatore e regista oltre che interprete.
L’intenzionalità vagamente espressionista, che elabora la storiella del ritorno al borgo natio di tre fratelli che sono altrettante maschere del repertorio di Albanese, viene assecondata non solo dall’utilizzo del grandangolo (che conferisce al suo straniante umorismo un’accensione fumettistica ed “extra quotidiana”), ma anche dalla ricerca scrupolosa di quel “senso in più” che l’ambientazione può offrire a un film.
L’Albanese moltiplicato per tre (Alex, Ivo e Pacifico, figure estremizzate del bestiario della commedia all’italiana) potenzia l’effetto della propria esuberanza attorale decidendo di inscrivere se stesso e gli altri attori/caricature nello spazio claustrofobico degli interni come degli esterni.
E nel proporsi come total-filmmaker, persegue l’idea moderna di un cinema comico capace di rigenerare gesti e sguardi della sua tradizione attraverso un rinnovato rapporto visuale con lo spazio e la sua rigorosa economia.
Un effetto, quello cercato da Albanese, qui rilevabile nella scelta meditata delle angolazioni di ripresa, ma ottenuto soprattutto grazie alla motivata selezione delle viuzze e piazzette di Petralia Soprana, il borgo in provincia di Palermo che è la location principale del film.
Seguendo tale criterio spaziale/funzionale si stagliano espressivamente, una volta trasformate in set, non solo gli edifici (come il Municipio della cittadina utilizzato come stazione dei carabinieri) ma anche i monumenti (quello ai caduti) e le costruzioni (la Torre Saracena).
Mentre si prestano a diventare le ribalte di godibili simmetrie comiche piazza Duomo, piazzetta San Michele, corso Agliata e corso Umberto I.
Persino l’itinerario della surreale fuga del corteo durante il funerale del padre dei tre fratelli protagonisti è geometricamente funzionale alla medesima logica, nel giovarsi dialetticamente di una messa in quadro del vuoto del paesaggio ottenuta attraverso l’adeguata scelta (figurativa e non illustrativa) dei luoghi.
Un funerale che è l’ennesimo tributo di un film comico italiano al paradosso dinamico di Clair, e che inizia nella Piazza del Popolo di Palazzolo Acreide per finire a Petralia Soprana, prima all’imbocco di via Saragat e poi assecondando la fuga prospettica di via Quintino Sella.
E se la cifra grottesca di Albanese punta a rimodulare visivamente le proporzioni di questo rapporto tra corpi e luoghi nelle architetture del comico, un’altra importante esperienza della Palermo ridens, che mette al centro le dinamiche del set per una operazione di demistificazione somigliante a uno sberleffo futurista, è quella dei due primi lungometraggi di Roberta Torre, Tano da morire (1997) e Sud Side Stori (2000).
L’exploit d’esordio della regista milanese segna l’irruzione dell’estetica camp all’interno del già variegato schema di rappresentazione della mitologia legata al fenomeno mafioso.
Se il camp è la vittoria estetica dell’ironia sulla tragedia ottenuta affermando provocatoriamente la possibilità di poter teatralizzare qualunque esperienza (così ne parlò Susan Sontag), Tano da morire ne è il manifesto made in Italy.
Un musical tra postmoderno e nostalgia pop che suscita scandalo elaborando in modo acceso e scalcinato il fattaccio realmente accaduto dell’esecuzione di un piccolo boss di quartiere nella Palermo della mattanza mafiosa degli anni ’80.
Torre, a quei tempi palermitana d’adozione, utilizza attori dal vero caricaturizzandoli alla Fellini, e li inscrive in un allucinante parco a tema che fissa la Palermo città-set e ce la consegna come il contraltare ludicamente visionario di quella spettralmente beckettiana di Ciprì e Maresco.
Nel vertiginoso montaggio hip-hop di Tano da morire acquistano un iperrealistico rilievo (nel ‘97, mai visto prima) i set teatralizzati del Capo, di Ballarò, di Brancaccio, di Roccella-Acqua dei Corsari, dello Zen.
Nella piazza Caracciolo del rinomato mercato della Vucciria (prima che fosse abbandonato al degrado) è stata interamente girata la scena in cui protagonisti e comparse si scatenano sulle note di ‘O rap ‘e Tano, composto dal cantautore napoletano Nino D’Angelo come il resto della colonna sonora che mescola rock’n’roll, disco music, samba e neomelodico.
Gli studi di posa per gli allucinati inserti paratelevisivi che contrappuntano tutto il film, sono stati allestiti in uno dei capannoni nell’area delle ex Officine Ducrot, dove oggi sorgono i Cantieri Culturali alla Zisa, virtuoso esempio di archeologia industriale restaurata.
Il successivo musical palermitano di Roberta Torre, Sud Side Stori, nell’abbandonare la sensibilità camp di Tano da morire, si presenta come un febbrile pastiche psichedelico, uno scherzo cinematografico acidamente onirico e ricercatamente underground, che mescola commedia e tragedia fino a renderle indistinguibili. Il pretesto esilissimo è una love story finita nel sangue tra il cantante neomelodico Giulietto e la prostituta nigeriana immigrata Romea. Per questo film, ancora di più che per il precedente, ogni location (nuovamente la Vucciria, e poi le piazze Sant’Anna e Tarzanà) ha subito un intervento che ne ha trasfigurato architetture e décor.
Così è accaduto, in particolare, al vicolo e al cortile dell’Anello, nel quartiere Capo, che sono stati interamente trasformati nell’iperrealistica porzione di un degradato ma coloratissimo quartiere d’immigrati africani.
A questi esempi di esterni che hanno investito dinamicamente sul privilegio della funzione iconica del set, caratteristica di generi come quello comico e della commedia nati nel segno della città e del suo habitat, vanno a questo punto contrapposti quei film che hanno utilizzato in modo più ordinario o inerte lo stimolo offerto dalla dialettica dei luoghi, degli spazi, degli ambienti intesi come paesaggio specificatamente cinematografico.
Per ciò che concerne la commedia sentimentale, un modello di approccio turistico nei riguardi della location lo offre sicuramente Vacanze d’amore (Jean-Paul Le Chanois, 1955), carosello folcloristico che fu l’impresa più alimentare dell’ intraprendente produttore palermitano Francesco Alliata di Villafranca, il quale pretese una scena nella sua città natale, alla Cala e con tanto di carretto siciliano.
Va detto poi che si esaurisce nel titolo la rilevanza, per queste nostre note, di Vacanze a Villa Igea (Massimo Alviani,1954), dove l’evocativo hotel funge da caratteristico contenitore della solita pochade a quel tempo solo timidamente pruriginosa.
Un’altra generica ambientazione palermitana si offre come fondale per La cintura di castità (Camillo Mastrocinque, 1950), scolorita commedia degli equivoci che ha per canovaccio un soggettino di Ennio Flaiano fondato sugli scherzi che una compagnia di varietà (con in testa quel gran virtuoso di Nino Taranto) compie ai danni del tipico aristocratico siculo, il duca Guiscardo di Castelgrosso, consentendogli il recupero del gioiello di famiglia, la cintura del titolo.
E dobbiamo fare un salto di più di vent’anni per arrivare alla svolta erotica di quel genere che, tra i suoi filoni, contò quello “scolastico”. A inaugurarlo è stato L’insegnante (Nando Cicero, 1975) sui cui titoli di testa appare una panoramica della Cala di Palermo e, più avanti, una parziale veduta di Cefalù. Un film prevalentemente “romanesco” che si affidò a un cast di specialisti (Fenech, Caprioli, Vitali, Carotenuto, D’Angelo, Delle Piane, Cannavale) e che utilizzò le location siciliane solo per evocare atmosfere e umori della morbosità provinciale il cui modello esotico ha come set primario l’Acireale di Malizia, archetipo della commedia erotica diretto da Salvatore Samperi.
Alla stessa filiera appartiene La settimana al mare (Mariano Laurenti, 1981), per il quale sono stati trasformati in studi di posa gli ambienti, esterni e interni, di due hotel in provincia di Palermo, il Kafara di Santa Flavia e lo Zabara di Bagheria.
Le poche trasferte nel capoluogo (le più rilevanti a Piazza Pretoria e alla Stazione Centrale) servirono a incorniciare quello che la frase di lancio del film pubblicizzò come “il più bel seno d’Italia”, unico attributo tramandato dalla starlette protagonista Anna Maria Rizzoli.
Puramente descrittive o illustrative (quando non insignificanti) risultano, nel nostro ambito di riferimento, le location palermitane di Come una rosa al naso (Franco Rossi, 1976), Questo e quello (Bruno Corbucci, 1983), Occhio nero, occhio biondo, occhio felino (Muzzi Loffredo,1983), Chiedimi se sono felice del trio Aldo, Giovanni e Giacomo (Massimo Venier, 2000).
Porzioni di paesaggio, rapide vedute, panoramiche a misura di pro loco. La nostra lista rischia di farsi una ripetitiva elencazione di paesaggi ridotti a sfondi.
Una rinomata e pluripremiata eccezione, entrata giocoforza nell’immaginario e del midcult come paradigma stesso di nostalgia struggente per l’ultimo, irrecuperabile spettacolo dell’infanzia perduta della celluloide, è Nuovo Cinema Paradiso (1988) del bagherese Giuseppe Tornatore.
È un film compulsivamente citazionista, sospeso tra commedia e intimismo, levigato anche nelle sue accensioni, figurativamente controllatissimo nel trattare plasticamente paesaggi, architetture, décor.
Per Tornatore ogni cosa, elemento, esperienza, è recuperabile e ricostruibile attraverso la “cineteca” non della memoria ma del ricordo, e l’artificio della cinefilia viene utilizzato come valore assoluto e principale filtro estetico. Così nel suo cinema il ricordo diventa l’ispirazione e il testo si trasforma nell’espressione pianificata della macchina spettacolare di un verosimile che mima non il reale ma la sua immagine più astratta e patinata. La favola del bambino proiezionista e del suo mentore cieco diventa il simulacro di una suggestiva, ma ingannevole mitologia del cinema come omologante lingua universale.
E si consegna al tutto tondo di una godibilità di superficie fatta di evidenze e ridondanze scenografiche, il cui simbolo è la sala cinematografica del titolo, ricostruita nella piazza Umberto I nel borgo di Palazzo Adriano. In questo film, ogni paesaggio, luogo o architettura appare una ricostruzione, sempre finzione e mai fiction: la stazione di Lascari, il Castello di Castelbuono, il porticciolo di Cefalù, uno spiazzo sul mare a Solanto (Santa Flavia), il frontespizio settecentesco della chiesa di Maria Santissima del Lume o uno dei cortili di Palazzo Adriano (luogo di ripresa privilegiato), le rovine belliche di via Castello a Palermo. Per questa ragione, ognuno di questi set è stato inevitabilmente assimilato all’aneddotica delle location pro loco.
Sicuramente, agli antipodi del cinema di Tornatore c’è quello dei palermitani Ciprì e Maresco. Un cinema che, nell’ispirarsi alla lezione di Pietro Germi, si affida alla potenza del set che è quella dello sguardo.
In tutti i film del loro periodo in coppia, i corti come i lungometraggi negli anni di Cinico Tv, le location assumono l’aspetto di siti archeologici, diventano l’orizzonte di un paesaggio tombale di architetture abbandonate e panorami sterminati che si è fatto appena in tempo ad inquadrare. In questo cinema di frammenti ed ellissi si consuma la ricerca di una sintesi visuale che sa fare della memoria non un feticcio delle nostre perdizioni nostalgiche, ma una evidenza misteriosa e dolorosa. Una visionarietà rappresa che, mentre elabora, reinventandolo, il visto e rivisto di tutte le arti figurative (non solo del cinema), nello stesso tempo se ne disfa, provocando un effetto di disvelamento della tragedia umana radicalmente, implacabilmente comico.
Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1998) sono dunque leggibili come esempi originali di un umorismo cripto-fantascientifico, attraverso il quale si mette in scena il “ritorno a un futuro” post-apocalittico e, flagrantemente, il presente del cinema insieme a una feroce critica della società contemporanea, della sua cultura e natura.
In entrambi i film, a essere protagonista è una Palermo buffa, volgare e anti-epica che esibisce le proprie macerie architettoniche e umane votate all’abbandono. Difficile è distinguere i siti/location all’interno del frantumato labirinto predisposto come set uniforme di questa desertificata megalopoli diventata il serbatoio della incosciente (e per questa euforica) bestialità sottoproletaria. In Lo zio di Brooklyn, lungometraggio di esordio della coppia di autori, il bianco e nero della fotografia di Luca Bigazzi regala un’allucinata, ipnotica dinamicità alle immagini desolanti di porzioni del quartiere ZEN 2, come della via Adorno che costeggia il fiume Oreto, di piazza Sant’Euno, dello stradone di via Antonio Laudicina, del brullo piazzale di via Cannatella, di una facciata da borgata pasoliniana in via dell’ Ermellino.
E rimangono impresse nella memoria le prospettive abissali dello svincolo stradale a Brancaccio (il quartiere più esplorato e sezionato per questo film), la via Mattei che è il crocevia del memorabile funerale, le scheletriche architetture della vecchia e abbandonata stazione ferroviaria a piazza Lolli e della ex stazione di Sant’Erasmo non ancora restaurata. In questi luoghi, a cui conferisce ipnotico rilievo l’oltranzismo concettuale dei due autori, si va dilatando e sfaldando la storia dei fratelli Gemelli costretti a ospitare per forza dello “zio” venuto dal niente e destinato al niente che è l’implicito impalpabile simbolo di Cosa nostra come accolita di morti viventi.
Altrettanto pretestuosa è la trama dei tre episodi di Totò che visse due volte, film buñuelianamente feroce e “radioattivo”, finito nel buco nero della censura di stato e di mercato subita per avere osato mettere in forma l’incubo ridicolmente orrorifico dell’uomo nudo.
Si nega a ogni linearità narrativa il racconto delle disperate vicissitudini di Paletta, della veglia funebre dell’omossessuale Petrino a cui rubano l’anello, del Messia che ritorna mentre Lazzaro risorge dopo essere stato sciolto nell’acido dal feroce boss don Totò. L’umanità del “cinico mondo” non può che avere come capitale Palermo che è simbolo di catastrofe.
È un’umanità disposta a qualunque oscenità violenza blasfemia perché bestialmente affamata di cibo e di sesso, risucchiata dall’illimitato degrado della propria condizione.
Il film, ancora più cupo e claustrofobico del precedente, è un ritorno ai paesaggi desertificati della nullificazione urbana e del martirio di corpi e luoghi. Uomini e topi, maiali, cani randagi. Golgota ed ecce homo, schermi del porno e zombie senza tomba.
Qui la Palermo ridens mostra il suo ghigno più spaventoso. E lo sguardo dello spettatore viene risucchiato in un visuale tunnel degli orrori che ha come scenari l’imbuto prospettico di un paesaggio dell’Arenella, lo spettrale lungofiume di via Adorno, i frontespizi macerati delle case di via San Giacomo alla Guilla, e le macerie del terremoto del 1968 a Poggioreale nella Valle del Belice.
Quelli di Ciprì e Maresco sono luoghi che, come accade nei film migliori, si consegnano all’energia propulsiva del set.
Una energia che, come abbiamo più volte rilevato in queste note, può dare al cinema quel che è del cinema, concedendogli una meccanica folle.
Quella meccanica che dà la possibilità d’incidere sull’immaginario e, qualche volta, reinventarlo.
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