Luce e tenebra di Vittorio Storaro caravaggesco e rinascimentale
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  giovedì 4 ottobre 2018
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
La migliore definizione di Vittorio Storaro l’ha data una volta il suo regista elettivo, Bernardo Bertolucci, quando inventò per lui il neologismo di metteur en lumière. Ed è proprio l’abilità speciale nel dare spessore drammaturgico alla luce che ha reso innovativa l’esperienza di questo cinematographer (o direttore della fotografia come si dice da noi)diventato uno dei campioni dell’età aurea del cinema italiano, gratificato da tre Oscar e da una miriade di riconoscimenti, buon ultimo quello della Laurea Honoris Causa in Scienze dello spettacolo assegnatagli nel giugno scorso dall’Università di Palermo.
Non è un caso poi che Scrivere con la luce sia il titolo che da decenni Storaro utilizza come un mantra, prima per i tre magnifici tomi dell’atlante pubblicato nel 2001 da Electa, che sono la summa del proprio magistero anche teorico, e poi nella mostra fotocinematografica che dal 2005 funge da frantoio per il suo archivio, e che finalmente approda a Palermo negli austeri ambienti di Palazzo Steri nell’ambito dei progetti di “Palermo capitale della cultura”. Dal 4 ottobre, alla presenza dello stesso Storaro, la mostra sarà inaugurata al pubblico (fino al 6 gennaio 2019) anche fuori dai perimetri del suo allestimento, proiettandosi all’esterno, diffusa come storytelling da un’app collegata a dei beacons distribuiti lungo l’itinerario della Palermo arabo-normanna. C’è da dire che, al di là del valore documentale di una carriera irripetibile, queste 70 immagini divise secondo lo stesso ordine dell’ormai introvabile atlante Electa — luce, colore, elementi — si propongono come veri e propri objets d’art, risultato di un metodo di esposizione fotografica che coniuga elementi cinetici e pittorici.
Non semplici fotografie di scena, dunque, ma “doppie impressioni” dei fotogrammi più rappresentativi dello Storaro touch, sapienti ibridazioni iconografiche che debbono il loro originale magnetismo a un procedimento di fissazione effettuato, si badi bene, non al computer ma dentro la macchina fotografica. Nella prima sezione, il tema della luce artificiale e naturale, dei suoi contrasti come dei suoi impasti, è rappresentato dalle immagini evocanti le imprese formative di Storaro, dalle incursioni caraveggesche di Giovinezza, giovinezza (lavoro d’esordio e unico bianco e nero della sua carriera) fino alle esplorazioni di categorie filosofiche e psicologiche su cui innestare un dialogo cromatico di elementi opposti, tra sole e luna come tra conscio e subconscio, presenti nelle prime prove importanti con Patroni Griffi, Dario Argento e il Ronconi dell’Orlando teatral-televisivo. Per arrivare poi alle vette espressive dei capolavori anni ‘70/’80 di Bertolucci e Coppola in cui emerge prepotentemente la sua marcata qualità d’autore capace di fare propria la poetica del regista che sigla il film. A rivelarcelo è la memoria di certe scene evocate da questi fotogrammi rimodellati: le rasoiate di luce che attraversano la stanza del professore nel Conformista dalla cui tenebra si staglia proiettandosi il mito della caverna platonica come metafora del fascismo, lo smembrarsi di volti e corpi invasi dalle rifrazioni baconiane del colore arancio con cui si racconta la deriva erotica- mortuaria della coppia di Ultimo tango a Parigi, la lancinante ricerca cromatica di una coincidenza degli opposti nell’epocale trip della guerra tra civiltà nel Vietnam di Apocalypse Now. Un percorso concettuale, quello di Scrivere con la luce, che prosegue in una sezione dedicata al colore, alla sua materialità come alla sua metafisica, dove emergono le predilezioni figurative di Storaro — le scuole ferraresi e venete rinascimentali fino al Novecento di Magritte e dell’arte naïf attraversando Caravaggio e de La Tour e Van Gogh — insieme al suo riferirsi, da autodidatta avido di erudizione, a certi pensatori paradigmatici (da Platone a Nietzsche, da Isaac Newton a Elémire Zolla) le cui schegge teoriche fanno qui da didascalia alle immagini. In questa sezione, e nella terza dedicata agli elementi, i materiali iconografici di base riguardano, tra gli altri, i due film-oscar seguiti all’exploit con Coppola, ossia L’ultimo imperatore (trionfo dell’epica bertolucciana con le fasi della vita caratterizzate dalle temperature cromatiche come accade per le stagioni in Novecento) e Reds di Warren Beatty, memorabile solo grazie ai virtuosismi con cui Storaro rende omaggio al suo prediletto Ejzenstein. Insomma, per lo spettatore questo tragitto di “doppie visioni” funziona come una esperienza di meditazione sulla potenza sintetica che l’immagine, quando si fa limpida evidenza di pensiero, riesce ancora a restituire. Non ci resta che consigliarvi di visitarla con lo stesso estatico entusiasmo con il quale Coppola (come racconta la moglie Eleanor nel suo diario sulla lavorazione di Apocalypse now) guardò alcune delle “doppie esposizioni” del sodale e indispensabile Vittorio, seduto con lui e la parte più familiare della troupe, durante una delle infinite pause di quell’anno e mezzo trascorso nei set delle Filippine.
Quando il regista, di fronte all’inquietante immagine della testa di Martin Sheen/Willard da cui emergono le figure di Brando/Kurtz e dei bambini Ifugao, non poté fare a meno di esclamare: “Dio! Io ci andrei a vedere questo film, voi no?”
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