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L’onorevole – Dramma in tre atti di Leonardo Sciascia – Prima edizione

L’onorevole – Dramma in tre atti di Leonardo Sciascia – Prima edizione

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Autore/i:  Leonardo Sciascia

Tipologia:  Testo teatrale

Editore:  Einaudi, Collana "Collezione di Teatro", n. 64

Origine:  Torino

Anno:  1965 (19 gennaio)

Edizione:  Prima

Pagine:  64

Dimensioni:  cm. 18,2 x 10,7

Caratteristiche:  Brossura riquadrata con illustrazione in bianco e nero (fotografia di Enrico Cattaneo), titoli in nero e fregio su fondo bianco e fascia di color arancio

Note: 

Prima edizione di L’onorevole, dramma in tre atti di Leonardo Sciascia pubblicato, il 19 gennaio 1965, da Einaudi nella collana Collezione di teatro (n. 64) diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri. Il testo è stato scritto da Sciascia nell’agosto del 1964. Il committente era il Teatro Stabile di Catania che programmò la pièce per la stagione 1964-65 dopo il placet del direttore Mario Giusti. Dopo una serie di esitazioni da parte dell’autore, il testo è stato pubblicato su insistenza di Italo Calvino (che vi aveva ravvisato non pochi difetti) e scavalcando il parere dei curatori della collana, Grassi e Guerrieri. Con Sciascia, Calvino concordò l’illustrazione fotografica della copertina: avrebbe dovuto essere una fotografia scattata da Ferdinando Scianna durante la campagna elettorale trascorsa, ma alla fine si optò per la fotografia di Enrico Cattaneo. Nel frattempo, dopo un confronto con un regista “comunista ma espulso dal partito” che propose delle modifiche al testo, Sciascia annunciò di volere abbandonare il progetto della rappresentazione al Teatro Stabile di Catania. A Natale, lo stesso autore apprese che la pièce, prevista nel cartellone dello Stabile, era stata sostituita dal Miles gloriosus di Plauto. Verso la metà del febbraio 1965, Sciascia ricevette la prima copia del volumetto einaudiano, con il testo corredato da una Nota dell’autore che accompagna quasi tutte le edizioni successive. La pièce è stata ripubblicata da Einaudi nel 1976 nella collana «Nuovi Coralli» con la Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D. e I mafiosi. Nel 1995, il trittico teatrale è stato edito da Adelphi nella collana Piccola Biblioteca Adelphi (n. 354).

Sinossi: 

« Questa non è una commedia. (Anche nel senso di quel famoso racconto di Diderot che non è un racconto: Ceci n’est pas un conte). È uno “sketch” in tre tempi (brevissimi tempi) con due o tre “caratteri” e un solo larvatico personaggio (e con un certo carico, questo personaggio, di improbabilità e di convenzionalità insieme). Lo svolgimento pedissequamente naturalistico dei primi due tempi e di parte del terzo, è voluto in funzione della disgregazione che avviene nelle ultime scene. Poiché il destino di questa commedia che non è una commedia è forse solo quello della lettura (benché sia nel cartellone di un teatro stabile siciliano, in questa stagione ’64-65), tengo ad avvertire il lettore che l’ho scritta in pochi giorni, dal lunedì alla domenica, nell’agosto di quest’anno. E avrei potuto lavorarci un po’ di più, e davvero farne una commedia. Ma perché? Lavoriamo alla giornata e per la giornata. E poi soltanto mi interessava fare una proposta, tentare un assaggio: di cominciare a scrivere su certe cose; di misurare, ancora una volta, le censure istituzionali, ambientali e psicologiche del nostro paese.

Onestamente debbo anche avvertire che l’onorevole Frangipane è democristiano, e la sua circoscrizione elettorale è quella della Sicilia occidentale, soltanto – come dire? – per comodità: perché conosco bene la Sicilia occidentale e perché più lungamente e generalmente noti sono i meccanismi di sottogoverno, le complicità e le aderenze del partito democristiano. Purtroppo, l’onorevole Frangipane potrebbe anche essere di un altro partito, di più o meno lunga esperienza governativa; e il suo collegio elettorale di un’altra regione italiana. Non cerchi dunque il lettore la vera identità di Frangipane: ogni riferimento a fatti e persone è davvero puramente casuale. » ( Leonardo Sciascia, dalla nota introduttiva per L’onorevole )

 

NOTE SUL TESTO

« (…) La commedia sviluppa un intreccio tutto sommato lineare: un professore di lettere classiche di un piccolo centro della provincia, negli anni del secondo dopoguerra, conduce una modesta quanto dignitosa esistenza arrotondando lo stipendio con le lezioni private. L’equilibrio della sua famiglia viene sconvolto dalla proposta, rivolta al professore da un monsignore locale, di una candidatura per le elezioni politiche nella lista democristiana. Egli, dopo una breve esitazione accetta, e, com’era prevedibile, subisce una progressiva metamorfosi: nell’arco di pochi anni, l’esercizio quotidiano del potere lo trasforma in uno spregiudicato professionista della politica, disposto a compromessi e intrallazzi. Solo la moglie  resta a difendere le ragioni dell’onestà: cosciente che l’agiatezza raggiunta è frutto di affari poco puliti, rimpiange il probo marito di un tempo e la stessa perduta povertà, e paventa un imminente arresto del consorte, suscitando generale apprensione relativamente alla sua salute mentale. Spetta al monsignore il compito di persuadere la donna, irremovibile nei suoi convincimenti, ad un temporaneo ricovero in clinica, nella speranza che ella giunga a più miti consigli. A questo punto, l’impianto naturalistico del lavoro, che parrebbe aver trovato soluzione, è improvvisamente stravolto da un finale amaro e sarcastico: l’attore che impersonava il prelato, liberatosi dagli abiti di scena, avverte gli spettatori che si è trattato di uno scherzo; nessuno scrupolo di coscienza affligge la moglie dell’onorevole, che una serie di immagini proiettate su uno schermo mostrano sorridente a fianco del marito, perfettamente a suo agio durante mondane cerimonie e inaugurazioni. (…)

La pièce si divide in tre “tempi”, nei quali manca la suddivisione in scene. Le didascalie che li introducono offrono una circostanziata descrizione dell’ambiente, ma a tratti indulgono un poco alla narrativa, colorendosi nell’aggettivazione (…). Mancano però le indicazioni relative alle posizioni delle porte e alla collocazione dei mobili. A quanto pare, Sciascia non sembra preoccuparsi troppo del momento della rappresentazione. Con un probabile omaggio alla scena terza del primo atto di L’uomo, la bestia e la virtù, lo schiudersi del sipario mostra Frangipane intento a spezzare, per quattro ragazzi, “il pane delle umane lettere”: solo la lettura permette di cogliere la significatività di quest’ultima metafora, la quale, se è vero che nomina sunt consequentia rerum, carica il cognome del professore di semantiche suggestioni, mentre fissa colui che lo porta nell’atto sacrale di una laica eucarestia.

Il secondo tempo, in cui possiamo individuare, sulla base delle entrate e delle uscite dei personaggi, ben dodici scene (contro le sei del primo e le quattro dell’ultimo), si rivela alquanto movimentato, e denota pertanto u ritmo felicemente teatrale. Riesce inoltre a raccontare, riassumendola in un breve arco di tempo, una situazione più generale, che viene esplicitata dal personaggio della cameriera nella scena sesta; ed è questa una sequenza degna di nota all’interno di una indagine volta ad analizzare il rispetto o meno delle convenzioni teatrali da parte di Sciascia: la cameriera, infatti, non senza un ammicco a quella della Cantatrice calva di Ionesco, dopo un breve monologo, interpella direttamente il pubblico, infrangendo antinaturalisticamente la “quarta parete” in una sorta di anticipazione di quella, ben più significativa del finale. (…)

Da sottolineare, nel secondo tempo, il dialogo emblematico tra don Giovannino Scimemi e il neopolitico, che sviluppa teatralmente il motivo della collusione tra mafia e politica e quello correlato della speculazione edilizia, portando alle estreme conseguenze la corruzione morale del protagonista. Che don Giovannino sia un mafioso ci viene detto qualche pagina prima da Frangipane stesso; e più che il don, che è titolo onorifico usato genericamente come forma di rispetto, il diminuitivo del nome avrebbe già dovuto metterci sull’avviso. (…) Frangipane inizialmente rifiuta l’appoggio di don Giovannino, ma in seguito, con un inevitabile stravolgimento mistificatorio della verità, ne diventa “amico”: «Quando sono andato al suo paese, l’ho anche trattato male. Ho posto un aut-aut a quelli del direttivo locale: se don Giovannino sale sul palco con me, io non parlo. E don Giovannino, poveretto, è rismasto giù. Per di più, nel discorso ho letto chiaro e tondo che i voti dei mafiosi non li volevo. E credete che don Giovannino si sia offeso? Neanche per sogno. Alla fine del comizio mi si è avvicinato e mi ha detto: “Professore, io il mio voto glielo debbo dare; perché non sono un mafioso e lei, glielo voglio dire, parla di mafia solo per conoscenza di libri”. E debbo riconoscere che aveva ragione». Il paralogismo non potrebbe suonare più beffardo. Dato che come premessa il rifiuto della mafia e di ogni interazione in campo politico di Frangipane, don Giovannino oppone ad una conoscenza dei libri la verità della mafia e, appunto, il nostro politico sceglie la mafia. Le scelte di Frangipane sono coerenti con le premesse solo quando la conoscenza della verità, della mafia nella fattispecie, non è mediata dal potere, ma solo dalla letteratura, mentre la capacità del potere di mistificare la realtà determina soluzioni che occultano la verità. Verità che per Sciascia ha luogo, come in questo caso, più nei libri che nella vita. (…)

Nel terzo tempo la metamorfosi del professore è interamente compiuta. La sua unica preoccupazione è ora la moglie, che dà segni di squilibrio. Viene chiamato monsignor Barbarino perché cerchi di comprendere le cause del turbamento di Assunta, e il dialogo tra i due dà modo a Sciascia di sferrare un aspro attacco ai meccanismi perversi del potere. Notiamo qui un intensificarsi delle didascalie: cresce la preoccupazione dell’autore circa la resa dei personaggi. Le battute che Assunta pronuncia abbandonano a volte il ritmo e le espressioni del parlato, si fanno letterarie; ciononostante, raggiungono un pathos morale autentico: qual è il motivo per cui esse si dimostrano tanto vive e sentite? In un’affermazione di Barbarino troviamo la risposta: Assunta è un personaggio vero, vivo, sentito perché è il portavoce del pensiero dell’autore, che nella di lei pazzia vuole essere riconosciuto. (…) Certo il registro letterario su cui si muove ora il personaggio della moglie crea qualche scompenso, a livello di proporzioni, del tessuto drammaturgico. Ma, come fa notare Calvino in una lettera a Sciascia, il difetto non toglie vitalità alla pièce : “Questa brava signora Assunta che tu ci hai quasi nascosto per due atti, adesso deve farsi portavoce di discorsi tuoi, però è proprio per questo errore che la commedia vive e segna – al di là della sacrosanta polemica civile – un passo avanti nella tua storia di scrittore e nella nostra comune ricerca”.

Il Don Chisciotte, libro la cui presenza in scena, in qualità di oggetto, durante il primo tempo viene insisistentementre evidenziata, mettendo in qualche modo sull’avviso lo spettatore circa la funzione iconologia che assumerà nello svolegersi della vicenda, ricompare qui non più fisicamente ma come segnale tematico, perno e punto d’appoggio delle ragioni di Assunta; evocati sul palcoscenico, i fantasmi dell’errabondo cavaliere e del suo scudiero tornano, per bocca della donna, a parlare, ad ammonire: Sciascia, attraverso il teatro, ha dato letteralmente vita alla letteratura. Al termine del dialogo Assunta ha ormai capito quel che le resta da fare: una società che premia gli ingiusti è una società dove la giustizia non abita, e dove non può vivere chi, ereticamente, ancora alla giustizia crede. Aveva sbagliato tutto: l’elemento da allontanare, da relegare in carcere non è il marito, ma lei stessa: e per la sicurezza della società sarà lei a rinchiudersi volontariamente in quel dorato carcere che è una casa di cura. La donna accetta la rimozione, l’allontanamento, ma non “le ragioni degli altri”; non è affatto pentita della sua pazzia, non tornerà indietro, nel suo proposito di impazzire ancora di più, e dunque sa bene che non tornerà più nemmeno a casa. Tra la menzogna e la verità ella ha scelto la verità: e la verità non ha posto nel mondo, ma solo nella letteratura.

Ed ecco che si prepara un finale tanto spiazzante quanto inatteso. (…) In questo “colpo d’ala sornione, gelidamente divertito” è riscontrabile un vero e proprio aprosdòketon, un ironico ribaltamento che nega e inficia il significato di tutta la pièce: un finale “amaro e sarcastico in cui, ancora una volta, il moralismo e il pessimismo di Sciascia hanno il sopravvento”.  Ma non è solo una chiusa inaspettata e scherzosa: l’autore si diverte a mettere in gioco, combinandoli, più artifici teatrali: la tecnica drammaturgia, che solo genericamente possiamo definire pirandelliana, del “teatro nel teatro”, ma anche lo straniamento brechtiano dell’attore, coniugati ad una parodia dell’epilogo di tradizione classica, in cui l’autore, per bocca di uno dei suoi personaggi, prende congedo dal pubblico e chiede scusa agli spettatori per averli annoiati. (…)

Si alza lo schermo. La scena è attraversata da un grande nastro tricolore di là dal quale l’onorevole, rivolto verso le quinte, alle sue spalle Assunta, Mimì, Francesca, Fofò, don Giovannino, sta concludendo un discorso. Il copione prevede il ricorso a mezzi audiovisivi e la terminologia si adegua al linguaggio cinematografico-televisivo: “in campo medio”, “in primo piano”, “operatore”, “in ripresa diretta”. L’attore che impersonava Barbarino diventa ad un dato momento anche regista in scena. Gli manca solo una bacchetta per indicare i personaggi e dare indicazioni ai tecnici: una sorta di direttore d’orchestra, insomma, che sta il metteur de jeu riesumato dal teatro tardomedievale e il personaggio del Regista in Our Town di Thornton Wilder. Non senza coraggio Sciascia si cimenta con le possibilità del mezzo teatrale e spettacolare, realizzando, come scrive Michele Coco (in Una proposta di lettura de «L’onorevole» di Sciascia in Otto-Novecento, n.3/4, maggio-agosto 1980) “un progressivo sfaldamento delle strutture naturalistiche, fino ad approdare a una sorta di recupero del teatro dell’arte, o teatro totale, dove intervengono, non si sa per puro gioco dell’intelligenza , o per il consapevole tentativo di sperimentare nuove forme drammaturgiche, il cinema e la televisione, a stravolgere completamente gli schemi e i canoni del teatro tradizionale”. C’è anche la proposta di un doppio finale, che in qualche modo mette in contrapposizione le due forme espressive del teatro e del cinema: in teatro assistiamo al primo finale, sullo schermo al secondo. Il cinema è proiezione di immagini su una superficie a due dimensioni: il teatro possiede in più la profondità della terza dimensione. Il binomio verità-illusorietà potrebbe anche trasferirsi alla sfera morale: il vecchio teatro naturalistico sarebbe così investito della responsabilità di custodire i valori tradizionali mentre il cinema e la televisione, nel loro tentativo di sostituirsi al teatro, sarebbero i rappresentanti di un mondo nuovo e spregiudicato. Con perfetta circolarità il testo termina con la stessa citazione da Orazio che Frangipane trovava bellissima quand’era professore: «Cras ingens iterabimus aequor», «domani risolcheremo l’infinito mare», che ora, però, è solo un retorico orpello svuotato di ogni significato. «Scoppia un applauso tra le quinte, un evviva. L’attore che ha tenuto il ruolo di Barberino gli porge, su un vassoio, le forbici: l’onorevole le prende, taglia il nastro, a passo di carica, seguito dal gruppo familiare, don Giovannino incluso, viene al proscenio. Si inchinano al pubblico mentre cala il sipario». In questo “teatro” delle finzioni e delle imposture anche la finzione teatrale viene smascherata: i personaggi sono attori che interpretano una parte, e non occorre nemmeno che si chiuda il sipario, prima che essi vengano avanti per essere salutati dal pubblico. Il momento, tradizionalmente extrascenico, degli applausi è entrato per beffa estrema a far parte integrante della vicenda. »

( Erika Monforte, da L’onorevolecapitolo di I teatri di Leonardo Sciascia, Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 2001)

 

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