L’eleganza del mostro. In memoria di Christopher Lee
Tipologia:  Note
Data/e:  11 giugno 2015
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Prima di diventare l’attore vivente più citato sugli schermi, l’incarnazione ombrosa di un mostro aristocratico, il conte Dracula, che trovò nell’aspra temperatura dei suoi colori latini l’ideale (e più iconograficamente longeva) raffigurazione sullo schermo, a Christopher Lee venne negata, da registi e produttori, ogni occasione da protagonista: “Nessuno ha mai sentito parlare di te, non hai esperienza, sei troppo alto e hai l’aspetto di un forestiero senza patria”, così gli dicevano.
Ma furono proprio tali qualità fisiche che consegnarono questo attore dal talento affilato alla storia dell’immaginario dei nostri tempi, trasformandolo presto nel simbolo incarnato della Hammer Film Productions, come la leggendaria creatura della notte avida di sangue che, per la prima volta con lui, ostentò i retrattili canini appuntiti e l’abbraccio mortale, facendosi irrorare dal rosso vividissimo dell’Eastman Colour voluto da Terence Fisher, suo regista-mentore, in una serie memorabile di film dove fu accentuata l’impressionante visione della decomposizione vampiresca al sorgere del sole.
Ora che Christopher Frank Carandini Lee è andato incontro a quelle tenebre che tanto gli portarono fortuna, e l’ha fatto con una discrezione commovente (5 giorni prima che la famiglia desse – oggi 11 giugno 2015 – l’annuncio ufficiale della sua scomparsa), possiamo guardare con più distaccata ammirazione a una carriera, la sua, costellata di molte onorificenze ma di nessun Oscar per gli oltre 250 lungometraggi interpretati.
Diciamo innanzi tutto che era un londinese del distretto di Belgravia nato il 27 maggio del 1922 (lo stesso giorno del suo rivale di sempre, Vincent Price, classe 1911), e che dei suoi due cognomi uno svelava le radici italiane dell’affascinante madre contessa, Estelle Maria Carandini, originaria di Sarzano, località sull’Appennino emiliano dove, ormai ottuagenario, Christopher si recò, nel 2004, a rendere il dovuto omaggio alle proprie origini.
Altra parentela che lo contraddistingue è quella con Ian Fleming, l’artefice letterario di James Bond di cui fu cugino, finendo per interpretare (nel 1974, quando era già celebre) uno dei memorabili villain della saga, Francisco Scaramanga, in “007- L’uomo dalla pistola d’oro” con Roger Moore nei panni del celeberrimo agente segreto.
E agente segreto, nella vita, fu pure Lee, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale che lo videro assoldato nelle file dell’Intelligence britannica e della R.A.F., a interrompere traumaticamente un’attività attorale inizialmente appesa a un contratto con la «Rank Organisation Film» che gli garantì, dal 1946 in poi, alcune particine “alimentari” in film non tutti rimarchevoli così come nell’”Hamlet” di Laurence Olivier.
Lavorò per Siodmak, Ulmer, Huston, Zoltan Korda, Levin, Maté, Walsh, e per Powell e Pressburger nel magnifico “La battaglia di Rio della Plata” (come al solito incarnando un personaggio di origini latine).
Lee amava ricordare con soddisfazione il proprio apprendistato professionale: “Dal 1947 in poi, per dieci anni, non ho fatto altro che imparare. Dopo tutte quelle esperienze sapevo di essere pronto ad accogliere l’occasione decisiva”.
E l’occasione arrivò, grazie all’illuminata intuizione di Fisher, con il debutto da co-protagonista nella versione targata Hammer della saga tratta dal capolavoro di Mary Shelley, “La maschera di Frankenstein”, dove egli offre il suo imponente, marmoreo aplomb (era alto un metro e novantasei) alla rinomata creatura sfuggita al controllo del proprio artefice, il dottore del titolo, in quel caso incarnato da Peter Cushing, altra straordinaria maschera gotica del made in England cinematografico, di cui Lee divenne amico e sodale fino agli ultimi giorni (Cushing è morto nel 1994).
Poi, l’11 novembre del 1957 fu finalmente battuto il primo ciak del “Dracula” che rifondò la leggenda, inaugurando un ciclo protrattosi fino al 1970 e composto da sette titoli che mettono al centro, come nel prototipo, la perturbante figura del “Terrifying Lover Who Died and Yet Lived”, il vampiro aristocraticamente maschilista, affamato di sangue di vergine (come recitò, più tardi, la parodia corrosiva di Paul Morrisey) e per questo pronto a baciare le sue eteree vittime, spesso masochisticamente consenzienti (c’insegna Polanski), mordendole sensualmente sul collo fino all’ultima goccia.
Per quel ciclo seriale, Lee fu un pallidissimo e brizzolato angelo del male che seppe alimentare, agitando come ali il proprio corvino mantello di scena, l’impressionabile pruderie di quegli anni segnati dalle forche censorie, non mancando di provocare reazioni oscurantiste come quella di Nina Hibbin che, alla sua uscita, definì il film, sulle colonne del «Daily Worker», “disgustoso per la mente e repellente per i sensi”. Oggi quei prodotti Hammer, esteticamente suggestivi per via dei loro iperrealistici impasti cromatici, possono apparire ridicoli per eccesso di elusione, anche perché più che mostrare essi lasciano spazio all’immaginazione, deludendo anche per questo gli smagati spettatori odierni visivamente congestionati e cresciuti a furia di massicce dosi di splatter.
Eppure quei Dracula in pellicola hanno elevato all’ennesima potenza un mito duro a soccombere in quella forma, a dispetto dei recuperi filologici dello stratificato e ingegnoso romanzo di Bram Stoker, delle critiche derive esistenzialiste alla Romero e delle attualizzazioni ad alto livello di testosterone dell’attuale e più amena Vampyr Academy per teenager.
A quei magnifici film così lontani e così vicini si deve la fortuna di Lee, i cui tratti austeri e spigolosi edificarono il brand draculesco immediatamente diffusosi a livello planetario, capaci di trasformare quell’interprete modesto e schivo in un attore di culto e, se volete, pure di straculto.
Negli ultimi decenni, perseguendo con nonchalance una irresistibile sfida al tempo, Lee seppe gestire con abilità la propria carriera: altri Hammer movie non solo horror (è stato Henry Baskerville in uno Sherlock Holmes con protagonista Cushing), qualche Dracula apocrifo e parecchie partecipazioni lautamente remunerate (tra le quali ci limitiamo a ricordare quelle nel Billy Wilder di “Vita privata di Sherlock Holmes” e nel Richard Lester della serie dei “Tre moschettieri”).
Contribuì pure a smitizzare ironicamente il proprio stesso monumento partecipando allo show televisivo Saturday Night Live, accettando ruoli spettrali nei “martial arts movies” e in qualche western, recitando Fu Manchu e alcune derive sadiane per Jesùs Franco, e divertendosi in “1941” di Spielberg come in “Gremils 2” di Joe Dante.
In trasferta italiana, dopo la partecipazione, nel 1952, a un curioso film del mestierante Mario Zampi, diventò uno degli attori feticcio del geniale Mario Bava e si disimpegnò con spirito a fianco di Alberto Sordi in “L’avaro” (1990) di Tonino Valeri.
Ma se qualcuno provava a chiedergli quale fosse, secondo lui, il suo film migliore, Lee rispondeva prontamente “The Wicker Man”, titolo del 1973 noto solamente ai cinefili incalliti, e considerato da alcuni “il Quarto potere degli horror movie”, dove egli interpreta il folle e untuoso Lord Summerisle, demiurgo di una funesta setta rifugiatasi in un isola maledetta e dedita a un paganesimo celtico che non disdegna repellenti riti sacrificali.
Da glorioso vegliardo, adeguandosi ai tempi nel proporsi come preziosa icona vintage, Lee prestò con dedizione la propria prosciugata allure al conte Dooku nel ciclo dei prequel di “Star Wars” e a Saruman il Bianco nella premiata trilogia fantasy del “Signore degli anelli” e di “Lo Hobbit”, trasposizioni della saga di Tolkien, il quale, per inciso, rimase uno dei suoi scrittori prediletti.
Anche grazie a queste sue ultime e apprezzate prestazioni, tutt’altro che occasionali, la notizia della scomparsa del caro vecchio Dracula d’antan non lascerà indifferenti nemmeno i più giovani spettatori che magari, come i padri, proveranno a rimpiangere tutto di lui, anche la voce.
Una voce solenne e tagliente, solida e ammaliante, simile al timbro che Lee stesso era abituato ad accogliere, per telefono, quasi ogni sera: il timbro del suo fraterno amico Cushing che un brutto giorno venne a mancare provocando in lui una lacerante sensazione di vuoto. Qualcosa di simile a quello che oggi provoca a noi la sua mancanza.
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