La “Terra trema”: i settant’anni di un capolavoro
Tipologia:  Articolo
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica/Palermo
Data/e:  31 agosto 2018
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
In quel 2 settembre di 70 anni fa agli spettatori del Festival di Venezia, convenuti nella Sala grande per l’attesa anteprima al Lido, le tre ore della versione integrale di La terra trema apparvero interminabili. Per loro era come assistere a un fascinoso ma estenuante film in lingua straniera, dato che gli attori non professionisti, abitanti del borgo marinaro di Aci Trezza, dialogavano dall’inizio alla fine nel dialetto siciliano dei loro avi, semisconosciuto perfino nella limitrofa Catania. Non fu utile alla comprensione nemmeno la voce off che, in assenza di sottotitoli, forniva una didascalica decifrazione in italiano. E così la serata festivaliera si risolse come aveva previsto il conte rosso Visconti, regista dell’impresa, in fischi e proteste e abbandoni di sala che, coprendo qualche applauso, agitarono fino alla tempesta il mare di smoking e pellicce ostile a quella pellicola cruciale.
Il tutto fra la costernazione degli interpreti di Aci Trezza, trasferiti a Venezia per l’occasione.
Prima di diventare una delle opere più importanti del 1948 (che fu pure l’anno di Ladri di biciclette) e simbolo di neorealismo, La terra trema subì critiche dure, e non solo dal fronte avverso a quello del Partito Comunista che aveva commissionato il film, e che ancora si leccava le ferite per la batosta epocale alle elezioni d’aprile vinte dalla Democrazia Cristiana.
Pure da sinistra fioccarono svariate accuse di estetismo (“Visconti rischia l’accademia della rivoluzione”, scrisse qualcuno), e persino di dannunzianesimo, il che allora suonava come una scomunica per ogni engagé.
Col tempo arrivarono le perplessità di Leonardo Sciascia, pervicace antiviscontiano, che non nascose la sua antipatia per quella irrigidita “riscrittura vernacolare”, e quindi “poco verghiana”, dei Malavoglia, a suo dire sintomo di un “ritardatario romanticismo”.
Ma proprio quei dialoghi in dialetto stretto, scelta identitaria perpetrata dal regista, ebbero come autorevole sostenitore Vitaliano Brancati, secondo il quale “sono i più bei dialoghi del mondo che nessuno scrittore saprebbe eguagliare”.
Visconti snobbò tanto i denigratori quanto il fuoco amico, sicuro di aver fatto centro con un’opera militante, schierata dalla parte dei siciliani offesi dalla miseria, dall’ingiustizia, dalla mafia.
Lo inorgogliva il fatto di essere divisivo e a quel tempo, assieme al consenso della stampa estera che salutò il film come un capolavoro, gli bastava la difesa dell’intellighenzia PCI.
È noto che La terra trema doveva far parte di un trittico realista da esibire come manifesto di estetica togliattiana e che per tale motivo il partito aveva finanziato l’operazione.
Ma con quelle esigue risorse iniziali si sarebbe potuto girare appena un documentario di propaganda, mentre il progetto viscontiano si faceva di giorno in giorno più ambizioso e la disagiata permanenza della troupe ad Aci Trezza era destinata a protrarsi per ben sei mesi a fronte delle poche settimane previste.
Così l’atmosfera sul set si fece incandescente. Visconti diventò intrattabile, specialmente nei riguardi dei suoi due assistenti, Rosi e Zeffirelli, che costringeva a lavorare 16 ore al giorno tra minacce e rimproveri, senza mai un incoraggiamento e negando loro persino di preparargli il caffè, servizio ritenuto un privilegio da eletti per quell’entourage in balia degli umori del conte. Il quale, plebeamente, non esitò a togliersi la giacca minacciando di prendere a pugni chiunque si fosse fatto avanti tra i trecento figuranti intenzionati a scioperare nel giorno in cui si girava la scena del mercato del pesce.
Ovviamente nessuno batté ciglio e, per quella volta, le rimostranze si placarono. Con qualche perfidia, Zeffirelli ricordò in seguito i numerosi ammutinamenti di quei giorni, sottolineando come “il regista che voleva predicare il trionfo del proletariato fu osteggiato da quegli operai che avrebbero dovuto riconoscere nella Terra trema il monumento della loro causa”.
La verità è che, come accadde da allora in poi a parecchie produzioni in Sicilia, la gestione dei figuranti si trasformò in business paramafioso che i solidali nuclei familiari protagonisti di Aci Trezza (dagli Arcidiacono ai Valastro, ai Giammona) stentarono a contenere.
E poi c’era la mancanza di fondi a scuotere le fondamenta dell’impresa.
La produzione tirò avanti grazie alla svendita di quadri e oggetti di famiglia che il regista attivò, insieme alle collette che obbligavano ogni benestante del proprio cerchio magico, finché il film rischiò veramente di affondare come la “Provvidenza” dei Malavoglia.
A condurlo in porto contribuì l’audace catanese Salvo D’Angelo, un produttore cattolico inizialmente sostenuto e poi abbandonato dalla nomenklatura vaticana e democristiana, pronto a mettere sul piatto, con la sua Universalia Film, i 37 milioni utili a completare le riprese.
Si dice che, in quel caso, Togliatti stesso consigliò al compagno Visconti di accettare i soldi del “nemico” cattolico. E ciò autorizza a considerare questo film travagliatissimo come una specie di antefatto culturale di quel “compromesso storico” ventilato e mai realizzato, la cui ipotesi era allora di là da venire.
Aneddotica a parte, è facile rilevare quanto La terra trema resista al tempo, metamorfico come lo sono tutti i capolavori. A 70 anni di distanza lo ritroviamo nella sua integralità restaurata — dopo averlo visto per anni in versione ridotta e doppiata — più iperreale che realistico, al pari di un Murnau o di un John Ford, sontuoso esemplare di un cinema purissimo che inseguendo il reale riesce poi a superarlo per consegnarsi al mito.
- GALLERY -