La luna e i falò (del linguaggio) – I “congedi” di Bertolucci e Ceronetti – Sicilia Queer Filmfest 2019
Tipologia:  Saggio
Data/e:  maggio / giugno 2019
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
LA LUNA E I FALO’ (DEL LINGUAGGIO)
I “congedi” di Bertolucci e Ceronetti
di Umberto Cantone
” Lune, quel esprit sombre
Promène au bout d’un fil,
Dans l’ombre,
Ta face et ton profil?
Es-tu l’œil du ciel borgne?
Quel chérubin cafard
Nous lorgne
sous ton masque blafard? ”
(Alfred de Musset, Ballade à la lune)
Per noi è Le plaisir du text, uno dei più influenti libri di Roland Barthes, a suscitare l’inconsueto accostamento tra due autori considerati sideralmente distanti tra loro — il cineasta Bernardo Bertolucci e lo scrittore Guido Ceronetti, entrambi scomparsi l’anno scorso e ricordati, con due delle loro opere meno note, all’affacciarsi dell’anniversario dell’impresa lunare datata 1969.
Come è noto, in questo importante saggio propulsore del post-strutturalismo, il semiologo francese ha modellato la sua teoria sullo scambio simbolico tra autore e lettore. L’assunto è che vada considerato morto l’autore inteso “come istituzione”. Da ciò si arriva alla definizione del piacere provocato dal testo che sceglie il lettore, spingendolo a desiderare quello che nel testo scompare, perlappunto l’autore, spossessato — come Barthes tiene a sottolineare — della sua “paterna” autorità.
Di tale scambio — che si fa conduttore di scissioni e attrazioni mettendo in discussione, per riformarli, gli statuti riguardanti gli “immaginari del linguaggio” — sembrano dirci qualcosa i due testi che, per l’occasione, abbiamo incorniciato insieme in queste giornate del Sicilia Queer Filmfest: il pamphlet di Ceronetti del 1971, La difesa della luna, e il film La luna (1979) di Bertolucci.
Non è certamente un caso che il regista parmense abbia riconosciuto in Le plaisir du text la primaria fonte d’ispirazione di quello che può essere considerato la più sofferta e azzardata delle sue opere.
Chissà se a suggestionarlo (oltre al liberatorio invito a un’estetica fondata sul piacere del consumatore) sia stato l’elogio dell’ombra agitato da Barthes in quelle pagine:
«Certuni vogliono un testo senz’ombra, tagliato dall’ “ideologia dominante”; ma è volere un testo senza fecondità, senza produttività, un testo sterile. Il testo ha bisogno della sua ombra: quest’ombra è un po’ d’ideologia, un po’ di rappresentazione, un po’ di soggetto: fantasmi, sacche, scie, nuvole necessarie: la sovversione deve produrre il suo chiaroscuro».
Non sappiamo quanto si possano definire sovversive le due opere in questione (almeno nel significato comune che diamo a questo termine), ma è certo che la loro qualità chiaroscurale — così come la loro godibilità che ci ha scelto come lettori — riguarda incisive riflessioni sul valore del testo rispetto alla crisi dell’autore, sulla funzione del linguaggio a confronto con la realtà e le sue rappresentazioni, sull’importanza della memoria e dei conflitti che essa genera.
E dunque entrambi gli autori — Bertolucci nel suo film intriso di autobiografismo e Ceronetti nel suo ironico atto di resa intellettuale fondato su una invettiva che si rivolge alla missione degli astronauti statunitensi — individuano la luna come primario oggetto tematico. In primo luogo la propongono come simbolo (soprattutto materno) da cui congedarsi, e poi ci invitano a contemplarla, la luna, non senza qualche rimpianto, mentre la indicano con il dito. La luna e il dito: il discorso e lo stile. Così un cineasta e uno scrittore fanno i conti con i propri fantasmi e desideri in due opere che contengono, come in un catalogo, tutti i motivi e tutte le figure delle loro poetiche.
Per dimostrare, usando un’apocalittica ironia, quanto la luna non avesse bisogno di essere ulteriormente demitizzata (attraverso quella che un altro letterato antagonista, Giorgio Manganelli, definì “la macchinazione militare e pubblicitaria” dell’impresa di Armstrong e compagni), Ceronetti ricorre a tutto l’arsenale retorico dei propri classici di riferimento: dai sapienziali versetti del Pentateuco ai lucidi struggimenti di Leopardi in lotta con l’aridità del vero e con l’illusione macabra del tempo. E così nella sua appassionata e poetica “difesa”, prima di concludere, con euforica malinconia, che “il vuoto lasciato dagli Dei è quello della luna precipitata” e che “è probabile che una luna assolutamente intatta non ci sia mai stata, da quando Luna esiste nelle ombre fatate della conoscenza umana”, lo scrittore torinese compie un viaggio “terminale” alla ricerca dei propri padri elettivi da immolare simbolicamente, mettendo alla berlina il loro destino di inascoltati. Lo fa in modo struggente, ondivago, contraddittorio, ma evidenziando limpidamente l’intenzione di liberare il proprio salvifico desiderio di scrittura. Di una scrittura che sappia “renderci liberi”, proiettandoci in “un regresso senza fine” per superare la volgarità dei tempi presenti che, secondo lui, ha irreparabilmente impoverito ogni linguaggio.
All’ombra del testo ceronettiano intravediamo, dunque, l’espressione di un desiderio di scrittura intesa come rappresentazione catartica. Un liberatorio piacere del testo che si affida al gesto dello scrivere, un gesto il cui mistero è da preservare nell’unico modo possibile: mantenendo sospeso (in chiaroscuro, direbbe Barthes) il rapporto tra realtà e apparenza.
Lo stesso movimento, la stessa intenzionalità che Ceronetti consuma nel suo libro lunare — che, come lui stesso afferma, non costruisce alcuna tesi e anzi “si smonta come un cantiere” — lo ritroviamo nel film di Bertolucci.
Un film che si apre con la scena di un paesaggio naturale dove la luna si confonde al volto della madre protagonista e si chiude con l’immagine di un lunare spazio teatrale en plein air dove la storia familiare narrata dal film non trova il suo finale.
La prima scena, però, nel condurre una serie di riferimenti letterari e figurativi che appartengono alla retorica autobiografica dell’autore ci appare più “irreale” dell’ultima, che sospende il senso della storia fino a quel punto raccontata e sovrappone le dimensioni della sua rappresentazione per arrivare a domandarsi che cosa veramente sia il reale. O che cosa veramente sia il reale quando si fa cinema.
Attraverso il ricorso a torsioni espressive e malizie retoriche, Bertolucci trasfigura in un’ambigua dimensione, dove la realtà più che alternarsi si sovrappone all’irrealtà, la sua storia impudicamente esplicita. Il racconto di un incesto tra madre e figlio viene esasperato (con l’intento di sfuggire agli schemi freudiani) attraverso la “poetica” di un manifesto gioco di dualità che mette in rilievo, attribuendolo ai personaggi in questione, il tema del desiderio come fuga: desiderio di eroina, in quanto droga, di cui il figlio Joe si fa oggetto per affermare la propria soggettività, e desiderio di teatro che è la vocazione che invade la madre Caterina, affermata soprano, fino a condizionarne sentimenti e pulsioni (la scena dell’incesto è per lei l’occasione di abbandonarsi a una overdose di teatralità). Sembra che la motivazione principale per la quale il teatro attrae questo personaggio (portandola a fare del teatro letteralmente il proprio habitat: si vedano architettura e arredamento della sua casa-palcoscenico invasa da sipari) sia la stessa che ha sedotto Bertolucci. Per entrambi, infatti, il teatro è soprattutto la dimensione del sogno, approdo di tutti i desideri inappagati. Una dimensione (notturna, lunare) nella quale, dice Freud, giace “lo spazio materno mal collocato”, là dove si consuma la prospettiva del legame incestuoso, la sua “impossibile” soddisfazione. A Bertolucci, al contrario che a Ingmar Bergman, del teatro interessa la cinematografica matericità: più che sogno, macchina del sogno.
Ed è infatti la macchinicità teatrale, insieme a una certa “teatralità” della macchina cinema, che La luna tiene a svelare. Lo fa, in primo luogo, attraverso la decostruzione più che la costruzione (si potrebbe dire mostrandoci la rappresentazione e il suo backstage) delle relazioni in cui si condensano pulsioni e desideri dei personaggi.
Ed ecco che la definizione di mielodramma ostentata in tante interviste dal regista — nel riferirsi al transfert della protagonista e, primariamente, al dramma dell’eroina come alimento succedaneo di quel miele che Joe consumava nei primi anni di vita dalle mani della madre — tende a svelare con ironia lampante il barthesiano piacere di entrare in collisione con la propria memoria al fine di liberarsene.
Per due volte, nel suo film, acquista evidenza l’immagine di un gomitolo che si srotola. Ed è curioso che fra le definizioni più celebri del lavorio stilistico della fase matura di Attilio Bertolucci, il padre poeta di Bernardo, ci sia quella del lavoro a maglia, del gomitolo di lana che cade e si disfa. Uno sgomitolamento del verso che coincide con l’abbandono della punteggiatura, in modo che un aggettivo possa attaccarsi alla parola prima o a quella dopo, perché il lettore possa godere della libertà di questa ricercata mobilità.
È noto che padre e figlio, che il poeta e il regista, subissero ognuno l’influenza dell’altro.
La luna è l’incrocio espressivo di questo gioco d’influenze che riguarda affezioni culturali e familiari. Il film mette in scena “il ricordo del ricordo” del suo autore, il suo guardarsi mentre guarda i suoi personaggi che ritornano nei luoghi del suo cinema precedente, rendendo irregolare e arbtrario il ritmo narrativo con continue digressioni che incrociano porzioni del passato da attraversare. Così Bernardo si diverte come Attilio a fare a meno della punteggiatura, mescolando i piani di questi detour .
Innanzi tutto assistiamo a una serie di ritorni ai suoi film precedenti. Ritorno attraverso un oggetto-feticcio, la cicca di gomma da masticare appiccicata sulla ringhiera del balcone che fa di Joe un emulo di Paul-Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi. O ritorno affidato al recupero, altrettanto feticistico, di propri attori – simbolo come Alida Valli (materna Draifa di Strategia del ragno); come Pippo Campanini retore del culatello proiettato da Strategia e da Novecento nell’osteria dove si consuma l’incesto; come Roberto Benigni interprete di riferimento del fratello Giuseppe e qui impegnato in un cameo da slapstick; o come Franco Citti a cui è affidato un ruolo da marchettaro di borgata predatore dell’adolescente borghese Joe, situazione che evoca le origini del rapporto dello stesso Bertolucci con l’alveo pasoliniano nel quale si consumò il suo battesimo di cineasta (fu assistente in Accattone).
C’è poi il ritorno alla matrice cinefila, al citazionismo marcato Nouvelle Vague: accanto all’incipit della “scena primaria” (la trasmissione del miele da madre a figlio, l’ombra del padre-rivale, etc.) — che si rifa evidentemente alle prime sequenze dell’Edipo Re di Pasolini — c’è quella dei panorami sovrapposti provocata dall’irruzione (rosselliniana/godardiana) del cielo stellato sopra le teste degli spettatori con l’apertura del tetto nella sala cinematografica dove si proietta Niagara di Hathaway con Marilyn.
Ma i principali ritorni che La luna evidenzia sono quelli ai set originari, ai luoghi che appartengono alla poesia di Attilio e alla giovinezza di Bernardo poi diventati location dell’epica autobiografica di quest’ultimo: la Parma contadina, crogiuolo di cultura e natura, attraversata nell’escursione identitaria di madre e figlio, Villa Verdi e la Corte delle Piacentine di Novecento.
Come accade nel libro di Ceronetti, anche in La luna si compie la messa in scena, venata d’intenti liquidatori, dell’influenza dei padri naturali ed elettivi: i sipari del film chiudono e aprono gli scenari di un immaginario, quello dell’autore, alla ricerca di una agognata, sovversiva liberazione.
Ma dietro il sipario del granteatro che mette in scena la realtà dell’incesto godibilmente mescolata al suo mito, c’è l’altra storia parallela della Luna. La storia che racconta di un figlio, Joe, alla ricerca del padre-rivale che lo ha abbandonato trasformandosi in un fantasma. Una presenza/assenza concreta e perturbante (al punto da provocare la caduta del ragazzo nella morsa dell’eroina) che si scatena in occasione della morte del padre putativo, stroncato da un infarto all’inizio del film.
Siamo convinti che a rendere affascinante La luna siano proprio quei difetti sottolineati persino con cattiveria da certi critici alla sua uscita: l’andamento incoerente del racconto, l’inattendibilità di certe torsioni psicologiche dei personaggi, qualche apparente incongruenza drammaturgica. C’è poi, ostentato, il capriccio di indugiare sul contrappunto ironico a ogni scena madre. A volerlo analizzare con attenzione, però, tutto ciò appare voluto. E in più godibile, a patto di abbandonare alcune pregiudizievoli misure “critiche”.
A noi sorprende soprattutto con quanta intensità Bertolucci si riconosca nell’inquietudine euforica di Joe, nel bisogno che il suo giovane personaggio dichiara di dare corpo ai fantasmi. Attraverso tale intensità avvertiamo quanto sia il richiamo della realtà — la realtà sociale politica culturale degli anni Settanta al capolinea che furono terreno di scontro anche generazionale — a ossessionare il regista, a impedirgli di liberarsi completamente dal peso delle proprie origini, dall’autobiografismo compulsivo, dalla zavorra psicologica e culturale dei propri padri.
Prima di consumare l’incursione nell’oriente remoto dell’Ultimo imperatore, film nel quale Bertolucci ha potuto orientare il proprio cinema verso un orizzonte mitologico (la psicoanalisi e la storia come elementi mitopoietici), c’è il ritorno coatto all’ “inverno dei nostri tempi” e ai suoi familiari paesaggi (ancora la Bassa padana) per quell’ironica, amarissima incursione negli anni di piombo, nel terrorismo nostrano, che è La tragedia di un uomo ridicolo.
Nel finale di La luna, però, è il cinema che afferma tutta la propria influenza trasformandosi in macchina produttrice di piacere, scrittura desiderante che libera l’ambiguità del segno e, come abbiamo già detto, la sospensione del senso.
Per tutto il suo film, Bertolucci ha mescolato generi (il dramma e il comico, il kammerspiel e il road-movie), si è divertito a sviscerare le relazioni tra i suoi personaggi mutuando queste nelle proprie intime relazioni (c’è chi ha riconosciuto la moglie Claire People in certi aspetti del personaggio di Marina, l’amica omosessuale di Caterina, testimone angosciosamente inquieta e inespressa), ha giocato con le gradazioni della sua contorta storia ammiccando al mélo di Sirk quanto al melodramma di Verdi (dal Trovatore al Rigoletto, dalla Traviata al Ballo in maschera), fino a concedersi un’incursione nel musical con i Bee Gees di Saturday’s Night Fever.
C’è in Bertolucci una voglia (quasi situazionista) di ibridare, per sabotarle, le regole del racconto; e c’è la voglia di superare gli autori di riferimento ostentando la propria volontà di superarsi. Per questo La luna può apparire come un film fragilissimo, di cui è facile equivocare la presunta inconsistenza. Ed è invece un’opera che invita spudoratamente i suoi spettatori a spossessare l’autore di ogni suo residuo potere. “Un film libero e felice di non essere che ciò che è”, chiarisce il regista.
In La luna, Bertolucci non cerca di promuovere come stile e come metodo la teatralizzazione del reale, ma esemplifica le qualità di un cinema che si fa scrittura in grado di generare i propri chiaroscuri (un po’ d’ideologia, un po’ di rappresentazione, un po’ di soggetto, come vuole Le plaisir du text ): un cinema, insomma, che sa mettere al centro il teatro come altro reale.
Per questo la storia di Joe e della sua ricerca sceglie, al suo culmine, lo spazio di un teatro all’aperto durante una “prova generale” per rappresentare con la dovuta ironia il suo finale impossibile. Uno spazio ideale a favorire una dialettica tra palcoscenico e platea con la quale Bertolucci gioca a rovesciare abilmente la prospettiva delle relazioni che riguardano il trio protagonista (madre in palcoscenico, padre e figlio in platea) che si ricongiunge mantenendo le distanze. E quando, come contraltare alla morte scenica del conte Riccardo nel Ballo in maschera, in platea si consuma la scena dello schiaffo che Giuseppe, il padre ritrovato, dà a Joe come affermazione, ridicolmente tardiva, di autorità, è come se risuonasse lo sparo del finale dei Sei personaggi di Pirandello, un finale generatore di caos tra finzione e realtà.
Ma dopotutto qui siamo a cinema, sembra dirci il regista, dove può rimanere sospeso il rapporto che le forme dell’apparenza intrattengono con il sogno.
Qui siamo a cinema, dove è possibile far funzionare la regola poetica della scrittura che rende plausibile ogni contraddizione perché allude al mistero/mestiere dello scrivere e al mistero/mestiere di girare un film.
Così lo scrittore e il cineasta, Ceronetti e Bertolucci, in due testi “così lontani, così vicini” possono congedarsi criticamente dall’oggetto del loro discorso, dalla luna, evocando la necessità della sua rappresentazione.
Una necessità musicale più che teatrale, di ascolto più che di visione, come sui titoli di coda dichiara il film di Bertolucci.
Spetta a noi spettatori il gesto di mettere in campo il desiderio che ci libera, quello di ritrovare quel che il testo, una volta riappropriatosi delle proprie ombre, ora nasconde.
Per poi accorgerci che colui che manca è ancora una volta l’autore, al quale è stata affidata la funzione fatale — ha scritto una volta Proust — d’indicare (la luna?) e poi sparire.
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