La carrozza che diventò diva da film
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  26 aprile 2017
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
La prova che il cinema sia davvero la morte al lavoro, come vuole la celebre intuizione, la dà il gran numero di resurrezioni, esibite su grande schermo, di oggetti caduti nell’oblio. Al cinefilo che voglia compilarne la lista, magari ispirandosi all’esemplare saggio di Francesco Orlando su “Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura”, consigliamo una propiziatoria escursione palermitana a Palazzo dei Normanni.
Arrivato alla base del marmoreo scalone d’onore di quello che un tempo fu il Palazzo Reale, potrà così ammirare, inscatolata nel vetro protettivo, una maestosa carrozza, risalente al settecentesco Regno di Sicilia, che deve a un film il fatto di aver vissuto due volte. Parliamo del rilucente oggetto scenico su cui s’incentrano trama e titolo di un autentico capolavoro del cinema, firmato Jean Renoir e interpretato da Anna Magnani.
Fa notizia che “La carrozza d’oro”, coproduzione italo-francese del 1952, sia oggi disponibile in un Dvd della RaroVideo, restaurata nello splendore del suo originale Technicolor e accompagnata da un booklet che ne ricostruisce l’intricata vicenda produttiva, a partire dalla testimonianza del suo artefice.
C’è da dire, infatti, che come “Via col vento” sta al suo tycoon David O.Selznick, “La carrozza d’oro” sta al palermitano Francesco Alliata (1919-2015), aristocratico patron della Panaria Film, casa di produzione indipendente che seppe farsi competitiva ai tempi di Hollywood sul Tevere. Alliata compare pure nei filmati dei contenuti speciali del Dvd, curati della figlia Vittoria, scrittrice e islamista che da anni valorizza il patrimonio culturale dell’Associazione Panaria.
E così apprendiamo che gli infruttuosi risultati al botteghino della precedente impresa di “Vulcano” (con il quale il duo Dieterle/Magnani sfidò quello di Rossellini/Bergman per “Stromboli” nella celebre “guerra dei vulcani” del 1950) non frenarono la grandeur del nostro produttore che, anzi, giocò al rilancio.
Lo fece puntando tutto sulla trasposizione cinematografica di “La carrosse du Saint Sacrament”, atto unico del misticheggiante Mérimée.
Ambientata nel XVIII secolo, la pièce è imperniata sul girotondo amoroso provocato da una impetuosa attrice peruviana, Perichole, che costringe uno dei suoi amanti, viceré spagnolo di Lima, a cederle in regalo la sfarzosa carrozza di rappresentanza della corte. In seguito allo scandalo che fa vacillare le stesse istituzioni, la donna decide di donare a sua volta quel simbolo di potere al vescovo del luogo perché serva a portare l’estrema unzione ai nativi moribondi.
Ad Alliata sembrava di poter giocare sul sicuro: il ruolo protagonista si adattava all’amica diva Magnani, mentre il sodale Renzino Avanzo gli aveva assicurato come regista il marito della sorella, Luchino Visconti.
Ma l’operazione rischiò di finire prima di cominciare, e non tanto per il compenso dell’esosa Nannarella (che non fece sconti amichevoli), quanto per la provocatoria volubilità del “conte rosso”, che s’intestardì a rimaneggiare in chiave anticattolica il testo di Mérimée (di cui aveva già tentato un allestimento nel ’45), costringendo alcuni fidati collaboratori a stendere svariate stesure della sceneggiatura, col risultato di farsi negare il nulla osta censorio e di bloccare per più di un anno l’inizio delle riprese.
Alliata onorò gli impegni fino a quel momento maturati per 140 milioni (in assegni di cui beneficiarono, tra gli altri, Moravia e Zeffirelli), ma poi cortesemente mandò a quel paese Visconti, riuscendo a sostituirlo con il regista di cui questi era stato assistente, a inizio carriera, il maestro dei maestri Renoir.
Altrettanto fortunata fu la soluzione per la carrozza. Alliata ne scovò lo scheletro sfasciato nell’ingombrato magazzino al piano terra del palermitano Palazzo Butera di proprietà dei parenti del socio Pietro Moncada.
Le ruote sgangherate, il massiccio telaio metallico invaso dalle ragnatele, la cassa in legno intagliato corrosa dall’umidità: così apparivano i malandati frammenti dell’eletta berlina di gala, modello 1776, appartenuta al Principe di Butera, un Branciforte, che l’aveva usata per guidare il solenne corteo palermitano con cui s’inaugurò la prima sessione di uno dei più antichi parlamenti del pianeta.
Un’intera squadra d’intagliatori, indoratori e tappezzieri si mise al lavoro. Furono restituiti allo splendore originario gli sbalzi e le volute barocche della robusta struttura decorata a tempera da scene allegoriche, con le superfici ricoperte da sottili fogliette d’oro, l’interno foderato in velluto e broccato, e la scultura di una pigna (simbolo di fertilità) applicata sul tetto.
Una volta fatta la carrozza, però, bisognava fare il film. Renoir aveva ritagliato una nuova sceneggiatura addosso alla Magnani, trasformando il personaggio di Perichole in Camilla, interprete della maschera di Colombina in una compagnia girovaga ai tempi della Commedia dell’Arte.
Il regista francese avrebbe pure voluto immergere nella luce e nei volumi del barocco siciliano la colonia sudamericana dove si svolge la trama, ma dopo avere individuato, come location, una ventina di dimore storiche tra Scicli e Modica, si arrese all’evidenza dei cavi telefonici e delle insegne pubblicitarie che, insieme a certe moderne costruzioni, deturpavano l’integrità di paesaggi e architetture.
Così la carrozza del Principe di Butera fu trasferita a Cinecittà, dove il film venne girato (nel mitico Teatro 5) dal 2 febbraio all’agosto del ’52.
Poi arrivò a sfilare, tirata da quattro destrieri che accompagnavano la Magnani, per un’occasione promozionale al Lido di Venezia durante il Festival di quell’anno.
Riguardo al film, sappiamo che fu apprezzato solo a distanza di qualche lustro dall’uscita, come perla da cineclub.
Per il creatore della Nouvelle Vague François Truffaut, che lo prediligeva al punto da intitolare la propria casa di produzione “Les Films du Carrosse”, si tratta di una magnifica summa della poetica di Renoir.
E in verità riesce ancora a sorprendere questo gioco di scatole cinesi, dove assumono incantato spessore cinematografico i motivi più complessi e segreti dell’intreccio tra vita e teatro, tra desiderio e potere.
Alla carrozza, poi, spettò lo stesso destino del film: rimase a prendere polvere a Villa Trabia finché, nel 1967, fu acquistata per tre milioni di lire dall’antiquario di Palermo Giovanni Boscia che avrebbe voluto rivenderla per quindici a un collezionista fiorentino. Il trasferimento di quel particolare “oggetto desueto” fu bloccato in extremis alla Stazione Lolli, si dice, da un funzionario della Soprintendenza alle Belle Arti.
Il merito dell’acquisto istituzionale, per quattro milioni, va invece ascritto a Rosario Lanza, discendente dei Trabia, quando, nel 1968, era presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana.
A conti fatti, l’operazione “Carrozza d’oro”, costata oltre 600 milioni, rischiò di trasformarsi in un “titanic finanziario” per la Panaria Film. Ma anche in quella occasione l’intraprendente Alliata rilanciò invece di mollare: per recuperare l’investimento girò altri due film (cappa e spada ordinari e allora popolarissimi), utilizzando come nuovi sia i costumi che le scenografie dell’oneroso capolavoro di Renoir.
E questo mentre lavorava al nuovo progetto di “un docufilm di fantascienza alla rovescia” da girare alle sue amate Eolie.
Di questa stoffa erano fatti i tycoon sognatori dell’età aurea del cinema, anche in Sicilia.
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