In cerca di un sì. Racconti di Vitaliano Brancati – Prima edizione
Autore/i:  Vitaliano Brancati
Tipologia:  Racconti
Editore:  Studio Editoriale Moderno
Origine:  Catania
Anno:  1939
Edizione:  Prima
Pagine:  (2) 176
Dimensioni:  cm. 19,4 x 12,7
Caratteristiche:  Brossura con ritratto femminile disegnato a 2 colori
Note: 
Prima edizione di In cerca di un sì, prima raccolta di racconti di Vitaliano Brancati, pubblicata dallo Studio Editoriale Moderno di Catania nel 1939.
Degli otto racconti pubblicati a partire dal 1934 ( Stagione calma, Il nonno, In cerca di un sì, Il posto, Il sogno di Lucia, Un matrimonio disapprovato, L’ispezione, La nave del sonno), cinque sono apparsi nel quotidiano «La Stampa» e nei periodici «Omnibus», «Quadrivio», «L’Orto», mentre gli altri tre sono inediti.
«(…) È la presa di possesso di un mondo provinciale, di abitudini quotidiane, della routine giornaliera: ma certe forze oscure e inspiegabili scaturiscono anche dalla rassegna degli oggetti, dalla pochezza degli oggetti stessi, dalla loro collocazione tanto scontata e precisa da sembrare magica.
Si fa luce, insieme, un’antologia di sensazioni minute, quelle che il protagonista, il narratore va scoprendo nel suo farsi maturo: «Io maturavo rapidamente, senza i pericoli e le esilità pietose del bambino precoce. Maturavo, perché ero felice e perché sapevo apprezzare quella felicità: nel mio cervello e nei miei occhi sentivo agitarsi, col beato rimescolio di chi ha fatto un buono e lungo sonno e ora il sole gli batte sulla faccia, l’uomo di domani. Nei periodi in cui vivevo con mio nonno, ero tranquillo, non avevo mai paura la notte, e davo alle prospettive delle cose più grandi di me quell’ordine che un incantatore di serpenti in erba può dare a un gruppo di lucertole» (Il nonno) .
La memoria seleziona i ricordi e li innalza a emblemi di età favolose in cui prende vita l’esaltazione della fanciullezza, zona fiorita d’incanti, alla quale occorre tornare per ritrovare verità e purezza di cuore: «In realtà, la mia vita era ancora sotto il dominio della fanciullezza; lo splendore di quell’età mi seguiva, come, al principio di un corridoio oscuro, la luce di un salone dal quale si è appena usciti; a lei, alla fanciullezza, io avrei dovuto sempre voltarmi se avessi voluto esser spontaneo e veritiero».
Nel racconto In cerca di un sì sono messi a nudo, sotto i veli della favola, i guasti dell’animo, l’ipocrisia, la falsità. La «nostalgia della vita» blandisce Riccardo, che in un incubo crede di essere morto; per tornare tra i vivi deve però ottenere, su un «rotolo celeste» datogli dal Gran Segretario, il consenso da uno dei tanti amici lasciati sulla terra. È questa invenzione il pretesto perché si svolga un campionario di volti disegnati quanto basta a formulare uno scettico giudizio sulla generosità umana: Luigi «la cui vita animosa e solerte aveva sempre dovuto lottare con uno strano sonno che all’improvviso le si buttava addosso»; Leopoldo, «un uomo, come si suol dire, d’azione, che tracannava la sua giornata d’un fiato»; Leone, la cui natura «era portata, più che a soffrire o a esser lieta, a domandarsi “Perché? Cos’è? Donde? Verso dove? Come mai?”»; il professor Resegoni, «uomo amabilissimo, lieto sempre che qualcuno, sia pure l’ombra di un amico morto, gli venisse accanto e gli desse modo di conversare»; Giovanni, immerso nel suo «beato ottimismo»; Guglielmo, che aveva riconquistato la serenità nella quale «si andava perdendo la mania delle domande»; ebbene, nessuno di costoro crede «valer la pena di scrivere due lettere, un sì!». In uno stile ora asciutto, ora sfilacciato in un controcanto dolente (la partitura del protagonista nella duplice visione del sogno e del risveglio a una realtà altrettanto ingrata), lo scrittore ritaglia lo stato dell’escluso: egli non mira a incendiare il normale per trovarvi il meraviglioso (e in ciò già attenua e modifica la lezione pirandelliana), bensì lo tratta con dosaggi più attenti, badando a sfruttare solo i motivi che servono alla mitizzazione (è la selezione, non l’urto a operare) e, continuando, al giudizio che, larvatamente o no, le si accompagna, che non scorpora la mistificazione, ma la integra e la ridispone tra le cose credibili e accette. È l’arresto alla fuga nel sogno non controllabile: «Riccardo dovette svegliarsi, e svegliarsi davvero, e svegliarsi fino in fondo: tanto che non si trovò più nell’anticamera celeste, ma in quella terrena del commendatore, sotto quadri secenteschi; e l’usciere, che lo scuoteva per la spalla, non aveva di angelico che l’espressione del viso: né da maschio né da femmina». E, di converso,è pure l’inquinamento della maschera che non ha più purezza incontaminata, compattezza glaciale; è l’abbassamento – scoperto in tante opere di Brancati – delle spinte diversive al loro contaminarsi con le ragioni storiche (o semplicemente di costume o di folklore) di un ambiente, con quelle psicologiche (o anche patologiche) di una folla certificata.
La satira del «sistema collettivo» irrompe con Il sogno di Lucia, dove si racconta del giovane Leone che non riesce a coronare il suo amore con una fanciulla perché costretto da un ispettore a marciare senza fine, mancando le istruzioni per il contrordine. La scrittura un po’ discontinua affossa negli anfratti delle parti interrogative e meditative la naturale disposizione al racconto umoresca, miscela indiscriminatamente favola e ingenua denunzia del regime totalitario, per cui l’estensione degli intenti soverchia il saldo dei timbri, mentre riaffiora l’insanabile duplicità tra il vero che male si orienta e il gioco dell’artista che troppo si diletta.
Con mano più ferma e con sciolta propensione alle forti tinte Brancati affronta lo studio di costume in Un matrimonio disapprovato: ne derivano volute contraffazioni del reale, l’alternarsi di fatti curiosi che polarizzano l’attenzione e lasciano poca aria all’approfondimento psicologico sostituendolo con luoghi comuni posti però in bella evidenza. Impera su tutto la condanna dell’ipocrisia; non giunge invece a maturazione l’analisi dei contrasti tra popolo e classe borghese. La vicenda del professor Rapisardi e del suo «disapprovato» matrimonio con «una donna di strada» corre secondo ritmi piuttosto evanescenti e si inquadra in scorci di vita di quartiere riversati da una vena bozzettistica inadatta a recepire quelle «noie del vivere» sulle quali Brancati tornerà con penna più incisiva. La chiusa gratuita, infine, ripete, iterando stancamente un motivo, il convincimento di un accomodante moralismo che condanna tutti.
Insinuanti venature gnomico-narrative con La nave del sonno («Era il tempo in cui il rapido convoglio della vita si ferma di quando in quando per far salire un piccolo sconosciuto, del quale si pensa che farà con noi quasi tutto il viaggio»): sottilmente il registro biografico della impostazione (si parla do un’amicizia tra due adolescenti) le cuce su risultanze veicolate dalla tradizione letteraria. Un’intenzione vagamente surreale dà soffio al personaggio di Raffaele, sempre gravato dal «coperchio di ferro» di un invincibile sonno. Poi, d’improvviso, «colpito da un non so quale raggio misterioso», l’uomo comincia a «ripetere che la vita è bella», viene esaltato dalla «febbre del lavoro» e risulta avvinto da «una ruota veloce di avvenimenti». Intorno si scoprono macchiette di «uomini liberi», «attivi», «non impacciati da scrupoli». Raffaele continua la sua esistenza vibrante; alla donna che sposa per procura appare «un uomo che passava dall’America all’Inghilterra alla Germania, come, sui tetti, il raggio riflesso da un secchio d’acqua». Ma, senza spiegazione, il misterioso ordito si rompe ed egli ripiomba nell’«opaco sonno».
I racconti offrono agio a Brancati di sperimentare un linguaggio corposo, catturato dalla plastica idea delle cose, estremamente corretto pure nelle puntate divaganti, nelle flessioni insidiose verso il rimbalzo, il rincalzo concettuale, verso le più smorte vibrazioni del sorriso. (…) Lo stile, che pure si fonda su tecniche di rimandi, di trasmissioni inesauste di emozioni, di sovratoni impressi sugli elementi descrittivi, non ha durata, lento avanzamento avvolgente, bensì si intride di guizzi, di secchezza ambigua, di chiusura. Le conclusioni vengono dalla somma delle monadi, dall’accostamento delle tante unità: e sono unità nelle quali si specchia il mondo circoscritto, senza grandi orizzonti, carico di incertezze e di slanci repressi, di pallidi impulsi e disattese speranze, della vita italiana tra il ’30 e il ’40. Le strutture della realtà non sono però scomposte in tutte le molecole: Brancati preferisce avere a disposizione un regno di cose enigmatiche e incurva la scrittura fino a rischiare l’esperimento del barocco nella scelta del colore, nell’osservanza stretta di capricciosi sensi di novità espressive, nella veloce composizione e ricomposizione delle immagini alternativamente magnetizzate ora dall’interesse fantastico, ora da quello logico (per non dire dell’espediente dell’interrogazione con il quale viene tenuta desta l’attenzione del lettore). (…) Il lessico è adeguato all’apparente tranquillità del tono: non attinge vette profetiche, non è assoluta allegoria, è invece asse di riferimento di una volontà di dire cose più esatte; se sceglie il territorio del commento, non lo travalica (…) ma si imbatte, invece, in inedite possibilità di prolungare le implicazioni dei fatti. (…)
Troppo esile in alcuni spunti narrativi, In cerca di un sì non cela distonie tra puntigliosa raffigurazione locale degli eventi e un’immaginazione sovrastante, ricca di coperture eccentriche operanti l’adombramento del vero che, se è il fascino di molte parti, è pure il fraintendimento della generosa poetica dell’impegno sul reale: e il reale, infatti, trasparendo più volte sembra il frutto delle sollecitazioni, degli umori della provincia, del suo paesaggio e della sua etica, insomma, di tutto l’armamentario di «citazioni» fungenti da pendant rispetto alla linea riflessiva e a quella fantastica nei passi in cui mostrano di essere prive di visuale.
E un altro stimolo interviene a rendere più intricato il già difficile nodo della scrittura brancatiana: il forte legame psicologico tra l’autore e le sue creature offre un dire frantumato, la visione di un mondo privo di distinguibile centralità. Il narrato è più di situazioni che di movimento e quindi si sveste della logica delle deduzioni, dei meccanismi lunghi proiettati coerentemente verso risultati. E ancora cade nell’equivoco: indulge cioè alla sottolineatura di comportamenti, vale a dire della storia speculare di un costume, e illumina zone molto ristrette di una psicologia, quasi staccate da un sistema di relazioni ed esaltate nella libera esecuzione del proprio personalissimo problema. Si attua la sovrapposizione del mondo di Brancati a un mondo di essere databili. L’urto, è evidente, ne scatta tanto tra personaggi, non ha un suo piano orizzontale, ma è verticale, rientra in un altro tipo di confronto, dimidiandosi là dove il rispecchiamento dell’autore è carente, arricchendosi di forza drammatica là dove Brancati riesce a conferire agli attori cifre autonome. L’inconsolata solitudine dei personaggi scaturisce allora spesso da ragioni esterne, talora – ma in questa prima stagione in misura minore – dall’interno dello stesso universo anatomizzato nelle sue lacerazioni. È dunque Brancati a imporre sulla pagina inquietanti tracce di amara filosofia, a segnare sentenziosamente una storia prima di delinearne compiutamente i personaggi (…). »
( Giuseppe Amoroso, da Vitaliano Brancati, Il Castoro, La Nuova Italia, Firenze 1978)
- GALLERY -