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Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini – Prima edizione

Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini – Prima edizione

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Autore/i:  Pier Paolo Pasolini

Tipologia:  Romanzo

Editore:  Garzanti (Collana "Romanzi moderni")

Origine:  Milano

Anno:  1962 (16 maggio)

Edizione:  Prima

Pagine:  220

Dimensioni:  cm. 20 x 13,5

Caratteristiche:  Legatura in tela rossa, sovraccoperta illustrata a colori da Fulvio Bianconi con fotografia dell'autore al secondo risvolto.

Note: 

Prima edizione del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini, scritto tra il 1949 e il 1950, con il titolo originario di I giorni del Lodo De Gasperi (altri titoli provvisori: La meglio gioventù, Una nuova gioventù, La realtà), poi tagliato e rielaborato fino alla pubblicazione col titolo Il sogno di una cosa per la collana «Romanzi moderni» di Garzanti, finito di stampare il 16 maggio 1962.

« Scritto nel 1949-50 (tranne per l’episodio riguardante Cecilia, che risale al ’52), questo romanzo può essere sostanzialmente considerato il primo tentativo in prosa di Pasolini. Se lo scrittore si è oggi deciso a presentarlo – debitamente tagliato, restaurato, verniciato e incorniciato – è perché ritiene sempre operanti le ragioni che allora lo avevano messo in piedi: quelle di una partecipazione diretta e tenace ad una realtà in cui gli istinti lirici iniziali si sono via via venuti concentrando in un incontrastato impegno morale.

I protagonisti del romanzo – il Nini, l’Eligio, il Milio – non sono ancora «ragazzi di vita»: sono piuttosto figure della vita di tutti i giorni, timide, patetiche. La loro è un’esistenza misera e dolce, seminata di asprezze, ma tuttavia aperta alla speranza: i balli della domenica, gli incontri furtivi con le ragazze, gli scherzi, i giochi rappresentano le occasioni in cui nei loro occhi splende  più luminosa l’adolescenza; più torbidi, come già dominati da una segreta forza virile, li incontriamo invece a fronteggiare gli ostacoli che si frappongono al loro inserimento nella vita sociale, le grame vicende della disoccupazione, gli scontri con la polizia, la fede comunista più subita che cercata, come qualcosa di inerente alla loro stessa esistenza biologica, squallida e derelitta.

I giorni della favolosa adolescenza friulana, le commosse battaglie della vita che inizia, già paiono in questo libro inturgidirsi di una loro raccolta moralità, già paiono proiettarsi verso l’impegno che porterà Pasolini nelle borgate di Roma, a contatto con le spettrali figure di un’umanità suburbana abbandonata nella feroce abiezione della miseria, eppure ogni volta ricondotta, nel giro della pagina, ai sensi nobili e commossi che la riscattano.  »

( Nota al risvolto di questa edizione )

Sinossi: 

« Una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra. Il primo romanzo di Pasolini nasce sotto l’impulso di questa precisa esperienza storico-sociale, nel 48-49, alla conclusione, o quasi, del movimento neorealista. E del romanzo neorealista ci sono alcuni ingredienti: l’ambiente popolare-contadino, il motivo sociale, la denuncia morale; la fiammella conclusiva della speranza; «il sogno di una cosa». E, ancora, il linguaggio: concreto, realistico, impostato molto frequentemente sul dialogo, sulle descrizioni minuziose, senza particolari «invenzioni». Ma accanto o sotto tutto questo, c’è il Friuli mitologico-popolare pure cantato nei versi di La meglio gioventù. 

Il motivo centrale del romanzo, il suo nucleo lirico, non è «il lodo De Gasperi», un provvedimento inteso a risolvere il problema della disoccupazione bracciantile, ma la casa dei Faedis, la famiglia patriarcale che coagula intorno a sé tutte, o quasi, le azioni del romanzo. I Faedis sono contadini proprietari, cattolici osservanti: le loro ragazze vanno dalle monache ad aiutarle a tenere l’asilo; le donne vanno ogni sera alla “funzione”; il capo famiglia pensa che «i comunisti sono tutti delinquenti, gente che non ha voglia di lavorare!»; ma ugualmente ospita i giovani col fazzoletto rosso al collo, dopo le dimostrazioni. (…) Nella sede del Partito, alla parete, è appeso il crocifisso accanto al ritratto di Stalin; e Nini, uno dei giovani comunisti, troverà lavoro con la raccomandazione del pievano. (…)

La casa dei Faedis, e molto spesso la stalla, è il luogo in cui si radunano e si esprimono le qualità di quella gente: le chiacchere delle donne, i silenzi brontolosi degli uomini, i rossori improvvisi delle ragazze, le innocenti protervi e dei fanciulli; e poi il vino, le canzoni gridate nell’ubriacatura, le amicizie dei giovani, il lavoro dei campi, le tirchierie, il vestito nuovo una volta all’anno. In disparte, quasi schiacciata sotto il peso di questa vitalità esuberante, Cecilia, la ragazza che dimostra meno anni di quelli che ha, col viso di agnellino, sempre silenziosa, vergognosa, che sente, sbigottita, nascere dentro di sé l’amore per Ninni, e piange, quando le cugine e le amiche, più sfrontate, alludono al suo “moroso”. La femminilità di Cecilia non è sesso: è la dolcezza del volto, il languore puro degli occhi; sono le paure misteriose, i fremiti angosciosi dei tanti “giovanetti” delle poesie friulane e della prima poesia in lingua di Pasolini. La disperazione di non poter essere donna (Nini si è sposato con un’altra) si risolverà silenziosamente, innocentemente, in un convento. È il mito della fanciullezza «vittima incolpevole»; come in Eligio, il “compagno” di Nini che vive la sua breve vita spegnendosi a poco a poco.

La giovinezza si consuma con la sua allegria. l’allegria delle feste paesane, delle bevute, delle canzoni; l’allegria violenta del loro impegno politico, del loro comunismo: «E correndo si lanciavano grida quasi allegre, perché il riuscire a sfuggire era un successo sui poliziotti»; «Allora i ragazzi, per non voler darsi vinti, cominciarono a cantare anche loro, a tutta forza, con le voci che si perdevano nel silenzio dei campi freddi e verdini: «Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa…»; l’allegria della vita stessa, per povera che sia, l’allegria “naturale” di Eligio, figlio del popolo, si consuma nella fame patita in Jugoslavia, dov’era andato per trovare lavoro e da dove era tornato deluso e malato; nello spietato lavoro nella cava, patito con sorridente semplicità, per spegnersi nella morte in ospedale. Una morte che assume il significato d’un martirio, la testimonianza di una «cosa» che la gioventù, e il popolo, hanno dentro ma non sanno esprimere:

«Stette a guardarlo per qualche tempo, fissamente: pareva che qualcosa come un sorriso nascesse in fondo ai suoi occhi spenti. Puntò ad un tratto un dito verso il Nini, ma il braccio gli ricadde subito, mentre nuovamente diceva, gemendo, delle parole senza senso. «Una cosa», pareva dicesse, «una cosa!». E accennava, come ammiccando, a qualcosa che sapevano bene lui e il Nini e Milio. Ma non parlava, non riusciva a dire che cosa fosse. Ce l’aveva negli occhi. Non sarebbe riuscito a dirlo nemmeno quand’era forte e pieno di vita, figurarsi se riusciva a dirlo adesso che stava morendo».

Come a una «mitologia popolare», ma di tipo diverso, populistico, si devono ricondurre i due capitoli in cui è descritta la lotta per il «lodo De Gasperi». La lotta è quasi una festa. I ragazzi ne sono protagonisti, naturalmente, perché i ragazzi sono la figurazione del popolo, giovane, appunto, per natura.E insieme ai ragazzi, la bandiera: «(…) La bandiera si spiegò del tutto e quasi ricoperse le teste di quelli che erano accanto. «Evviva la nostra bella bandiera», gridò Eligio, cominciando ad agitarla allegramente». (…)

Il giorno successivo alla «bella vittoria» la polizia e l’esercito riescono a disperdere i dimostranti: è la sconfitta. Ma c’è la casa dei Faedis ad accogliere i giovani coi fazzoletti rossi al collo; e in quella casa, col vino, le chiacchere, le ragazze, la «festa» dei giovani continua. E tornando a casa, allegri, sentono d’aver vinto ugualmente, perché sono sfuggiti alla polizia, e perché possono ancora cantare Bandiera rossa. (…)  »

(da Pasolini di Tommaso Anzoino, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro», 1975)

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