Il sarto e la farfalla – Conversazione con Franco Scaldati
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  17 ottobre 2013
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
“Fingi che Palermo sia una farfalla. Prova a guardare una farfalla da vicino, sempre più da vicino…”
Anche se è avvenuta sedici anni fa, questa specie d’intervista va declinata al presente. Un presente proiettato nel futuro se è vero, come scrive Paul Valéry, che ognuno di noi è il futuro di tutti i propri ricordi, il futuro di un passato.
E’ il 1997 al Teatro Biondo e Franco Scaldati sta in bilico su uno sgabello di fronte a me, inquadrato da una piccola telecamera che ci registra, mentre la sua compagnia, guidata dal regista Roberto Guicciardini, prova La locanda invisibile, un testo del Sarto su una Palermo che scompare conservando solo il mito della propria identità.
Quello che segue è il contenuto, mai prima pubblicato, di un video che ho rivisto pochi giorni dopo la morte di Franco. Il video di una conversazione che è ancora attuale perché Franco, come al solito, evita ogni riferimento contingente. Sarà la suggestione, ma mi sembra che possa funzionare come un involontario testamento poetico, ed è per questo che la trascrivo. Quando io e Franco c’incontravamo parlavamo spesso di filosofia. Lo facciamo anche questa volta, svagatamente. Come spunto per iniziare, tiro in ballo Wittgenstein. “Se il mondo è veramente “tutto ciò che accade” – gli chiedo – che cosa può dirci in più sul mondo il teatro?
“Io non sono né un filosofo né un sociologo. Posso solo dirti perché io faccio teatro. Lo faccio per recuperare dalla memoria la natura umana con i suoi gesti: quelli possibili e quelli impossibili.”
“Un recupero a partire dal dialetto, dalla nostra lingua siciliana?” “Attraverso questa lingua – mi dice – si può ricostruire la storia dell’umanità. Mi sono ritrovato dentro il malessere di Palermo attraverso la sua lingua e continuo a navigare sopra e sotto un universo di parole. Con le parole puoi uccidere o anche salvare, puoi comunicare o evocare formule magiche, a patto che le parole poi svaniscano, che tornino a essere suono.”
“Secondo te, bisogna partire comunque dalla realtà, da “tutto ciò che accade?”
“Sì, certo. A patto però di trasfigurarlo. La parola che ha un potere immenso è la parola poetica. Con la parola che si fa corpo, in teatro, puoi costruire la vita di gente che non esiste. Ecco perché il riferimento centrale della mia ricerca è lo sciamanesimo, una disciplina dove le parole sono un mezzo per superare la realtà e la sua condizione, per attivare un dialogo con altre dimensioni. Lo sciamanesimo mi ha insegnato che la parola dev’essere lavorata. Ed è un lavoro difficile.”
Provo a chiedergli del suo rapporto con il gesto dello scrivere. Non mi risponde subito. Finiamo per parlare di Giorgio Colli, che lui ama molto, e la conversazione s’incarta sulla scrittura come espressione di decadenza.
Come al solito, Franco riprende il filo del discorso. E mi risponde.
“La parola scritta è un’ammissione d’impotenza. Ma questa impotenza esiste ed io la pratico come un artigiano disciplinato. Raccolgo parole, spesso mi limito a registrarle, e dalle parole vengono fuori dei frammenti di storie e di poesia. Se riuscissi a fare muovere queste parole con il pensiero, allora smetterei di scrivere”.
“Però tu scrivi per il teatro.” – osservo.
“Appunto. Mi sento talmente poco scrittore che ho la necessità di trasferire le parole a un attore. E’ nel confronto tra la mia sensibilità e quella di ogni interprete sulla scena che la mia scrittura teatrale si compone, riascoltandosi. La scrittura fine a se stessa non m’interessa”.
“Il tuo è un teatro che procede per enigmi? E per questo è un teatro di poesia?”
“Gli enigmi sono la vita stessa. Quando vengono fuori, io cerco di scioglierli. Ma più li sciolgo e più altri enigmi si accumulano. L’esistenza è un mistero. Quando riesci a vivere dentro la dimensione di questo mistero fai un passo avanti, ma quando cerchi di superarla con la ragione ne fai uno indietro.”.
E poi c’è la realtà qui e ora. La realtà della nostra Palermo. Ne parlo e Franco si accende:
“Quando scrivo un testo non riesco a immaginarlo fuori dai ruderi della mia città. Un poeta rimane sempre nel luogo in cui è nato. Eppure, il momento in cui il valore di Palermo mi è affiorato dentro è stato durante un mio viaggio nel Nord Africa, da giovane. Nei gesti e negli sguardi, brutali e dolcissimi, del popolo arabo ho trovato l’utile corrispondenza con l’esperienza quotidiana nel mio quartiere ”.
“Bisogna quindi allontanarsi da una realtà per raccontarla meglio?”
“Forse. Il mio non è un semplice recupero di esperienza, è il tentativo di ricostruire la magia che nasce dall’autenticità di certe espressioni umane. Metti che Palermo sia come una farfalla. Se provi a guardare una farfalla da vicino, sempre più da vicino, quante variazioni di colori e forme scopri, fino a quando queste finiscono con l’apparire astratte, aprendosi all’infinito! E lo stupore che ne deriva è teatro”.
“Allora non te ne frega niente se la Palermo che tu metti in scena non esiste più?”
“Non ho nostalgie. A Palermo viviamo quotidianamente una suggestione di Apocalisse. La mia generazione ha vissuto tutte le contraddizioni di una città devastata dall’inciviltà assoluta e, contemporaneamente, capace di gesti di solidarietà altrettanto assoluti. Sono stato testimone con sgomento dello smantellamento progressivo della mia realtà. Il quartiere dove abitavo da bambino è scomparso, ma io continuo ad abitare il suo cambiamento”.
“Beckett ci insegna che tutto non finisce con l’Apocalisse. Non è così?”
“Appunto. Palermo scompare e riappare continuamente. In questi cambiamenti che viviamo non c’è l’ idea di futuro: c’è l’idea dell’eternità, l’ idea di un ritorno al punto di partenza”.
“C’è pure il teatro in questa idea?”
“C’è il lavoro rigorosissimo del teatro come possibilità di rigenerazione continua. Una rigenerazione fatta di simboli. E’ attraverso i simboli che si costruisce un ordine delle cose, che si afferma la religione dell’esistenza umana. Il simbolo presuppone il rito e nel rito trova espressione un sistema di valori alto che l’umanità non ha ancora trovato”.
“Significa qualcosa la ricerca per te? Il ricercare può essere un metodo?”
“L’arte è sempre ricerca. Ed è per questo che l’arte precede sempre la politica. Tanto più l’arte si distacca dalla politica, tanto più diventa politica. L’idea dell’artista solitario è storicamente tramontata. Oggi più che mai l’arte è un fatto collettivo dove fondamentale è lo scambio tra identità diverse. Si è ormai annullato il concetto stesso di spettatore: tra chi crea l’arte e chi la consuma c’è una identificazione. Artisti e spettatori, ormai, sono la stessa cosa. Oggi l’artista deve prendere atto di questa condizione, che ancora il sistema produttivo del teatro e delle arti stenta ad accettare. Il mio teatro l’accetta e intende muoversi sulla rotta di questo principio di identificazione tra artista e pubblico.”
“E tu, Franco, verso dove viaggi, tu?”
“Verso la prova di oggi.”
Il suo sguardo ironico si fa subito tagliente: “Per fortuna non so qual’ è il mio tragitto. Chi lo sa qual’ è il tragitto di una farfalla mentre vola?”.
La registrazione è finita. Sullo schermo c’è l’immagine di un vitalissimo Scaldati di sedici anni fa che lavora sul presente predisponendosi al futuro. A me, questa immagine, evoca il passato presente di tante altre nostre conversazioni e collaborazioni diventate oggi un ricordo.
Forte è la commozione per la sua perdita, come se la mia barca avesse perso un remo. Per me e per tutti, resta però intatto il patrimonio della sua esperienza, il respiro teatrale che egli ci ha regalato. Per molti, quella di Scaldati è un’ombra che si fa luce. E così, noi che non siamo farfalle, abbiamo comunque imparato a riconoscere la nostra rotta. Come in quel dipinto, Mystère et mélancolie d’une rue, andando incontro all’ombra del Sarto teatrante. Come la giocosa bambina di de Chirico.
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