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IL PECCATO DEMOCRISTIANO NEL “TODO MODO” DI PETRI in “Segno”, anno XLV, n. 409, settembre-ottobre-novembre 2019

IL PECCATO DEMOCRISTIANO NEL “TODO MODO” DI PETRI in “Segno”, anno XLV, n. 409, settembre-ottobre-novembre 2019

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Tipologia:  Articolo

Data/e:  novembre 2019

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Prima di dedicarsi alla tortuosa impresa di Todo modo, la versione cinematografica del romanzo forse più potente e acuminato di Leonardo Sciascia, il regista Elio Petri lavorò a due progetti, rimasti incompiuti, che prepararono il campo a quello che sarebbe diventato il suo film “maledetto”, destinato a un complicato travaglio distributivo.

Il primo di questi progetti avrebbe dovuto intitolarsi Giacobbe, o l’elaborazione di un’ossessione, ed era l’abbozzo di un testo teatrale che coniugava riferimenti biblici e imagerie sadiana, ambientato in un correzionale dove vengono forgiati, attraverso una serie di esercitazioni masochistiche, dei mostruosi “corpi ideologici”, incarnazioni del rapporto servo-padrone.

Il secondo era un soggetto cinematografico ispirato al romanzo L’abate C. di Georges Bataille, concepito da Petri con la complicità dello scrittore Enzo Siciliano, fondato su un conflitto d’identità tra un prete progressista in crisi vocazionale e un finto prete truffatore che riesce a rimpiazzarlo nel cuore dei fedeli.

A questi due canovacci Petri lavorò con un certo impegno, prima di abbandonarli definitivamente, durante i mesi successivi alla programmazione del suo film più recente, La proprietà non è più un furto, proprio durante quel 1974 che vide la pubblicazione dell’ultimo, atteso romanzo di Sciascia, Todo modo, dato alle stampe per Einaudi il 9 novembre.

Fin dalla sua uscita, l’incandescente opera dello scrittore di Racalmuto si prestò a essere definita in molti modi: Sciascia stesso ne parlò come di “un giallo rovesciato sul mondo politico e cattolico italiano”, mentre la gran parte de commentatori preferì identificarlo come un altro pamphlet politico in forma di conte philosophique che si predisponeva a rinfocolare le polemiche suscitate dal suo precedente romanzo, Il contesto.

A Petri l’uscita di quel libro dovette apparire provvidenziale. Si era aperta per lui l’occasione di far convergere i motivi e le figure del suo Giacobbe e dell’Abate batailliano in un film che avrebbe potuto bissare l’esperienza felice di A ciascuno il suo, la sua prima trasposizione sciasciana del 1967.

La sostanza di cui era fatto quel j’accuse in forma di racconto poliziesco dal finale sospeso (simile in questo al Pasticciaccio di Gadda) gli apparve analoga a quella dei modelli sadiani che egli aveva corteggiato. A cominciare dall’ambientazione, il metafisico eremo-albergo di Zafer dove si consumano i tre delitti che sono oggetto dell’indagine, e che tanto somiglia al castello di Silling nelle Cent Vingt Journées de Sodome. Zafer è nel romanzo, e poi nel film, il luogo di confine di un paese immaginario che sembra ed è l’Italia, uno scenario claustrale che assume l’aspetto di una bolgia dantesca quando viene trasformato dal suo tenutario, il luciferino don Gaetano, nel teatro di quegli esercizi spirituali istituiti da Ignazio di Loyola a cui sono cooptati un gruppo di alti prelati, politici, industriali e altri rappresentanti della casta dei poteri dominanti.

A coniugare in un unico paradigma gli universi di Sade e Loyola ci aveva già pensato (prima di Sciascia e Petri) Roland Barthes nel suo Sade, Fourier, Loyola. In quella raccolta di scritti del 1971, il semiologo francese attribuisce ai tre grandi utopisti la capacità di trasformare radicalmente, attraverso la “serietà” della loro scrittura, il rapporto tra la parola e le cose. È probabile che Sciascia, quando concepì Todo modo, avvertisse il bisogno di quella “serietà” fortificante per agganciarsi alla torbida realtà del Belpaese risucchiato nel vortice dei tragici conflitti generati dalla “strategia della tensione” e che si preparava alla temperie dei suoi “anni di piombo”.

Questo suo nuovo romanzo, in cui la metafora si accende per mettersi al servizio di una ombrosa disamina sulla meccanica del potere, costituì per lui l’occasione decisiva di scendere in campo ed esibire pasolinianamente il proprio coraggio intellettuale a servizio della verità.

Poteva un desiderio di “serietà” così eticamente e culturalmente motivato non incontrare i favori del regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, anche lui alla ricerca della materia utile a una disamina dei misteri d’Italia? E così, anche in nome della fede barthesiana nella forza propulsiva del linguaggio, Sciascia e Petri finirono per incontrarsi nuovamente lungo il sentiero teorico dello strutturalismo che individua negli Exercitia spiritualia di Loyola un esempio di articolazione tra teoria e praxis.

Uno dei registi più radicalmente engagé del nostro cinema e il più esposto e infallibile degli scrittori civili decisero d’impiantare la loro rinnovata sfida intellettuale sull’esortazione mistica del fondatore della Compagnia di Gesù, quel «Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina», la cui citazione diede il titolo al libro e al film.

Sembrava davvero fatto apposta per il caustico Petri un romanzo che, come Il contesto e certe perle di Dürrenmatt, si fa parodia di un genere, quello della letteratura poliziesca, adatto a inscenare il groviglio del mondo e lo scacco della ragione. Ma secondo il regista era possibile trasferire sullo schermo Todo modo solo a patto di trasformarlo in un’allegoria nella quale distillare le suggestioni anti-dialettiche e le temperature nichiliste della filosofia di Bataille. Allegoria e non metafora, perché è nell’allegoria e nella sua perenne deformazione che l’astrazione acquista una particolare concretezza, e l’immagine può farsi cinema collegando il visibile all’invisibile, la vita al sogno.

La scelta di Petri fu dunque di puntare sulla sostanza onirica del romanzo, esasperandone all’ennesima potenza i toni grotteschi, per tradurre in modo visionario il suo sofisticato impianto letterario, quel labirinto di citazioni e riecheggiamenti in cui il lettore è invitato a perdersi, e che animano il racconto in prima persona del protagonista, un affermato pittore agnostico, insieme al suo confronto con l’ambiguo e dottissimo don Gaetano: dal diavolo con gli occhiali a pince-nez del seicentesco dipinto di Rutilio Manetti, Le Tentazioni di sant’Antonio Abate, la cui maldestra copia campeggia su una parete dell’eremo di Zafer, all’evocazione della Zattera della Medusa di Géricault o del Mallarmé di Brise Marine o del Voltaire di Candide, fino all’enigma conclusivo della morte del demiurgico prelato decifrabile come la scelta liberatoria compiuta dall’io narrante attraverso il richiamo all’omicidio immotivato del giovane intellettuale Lafcadio nei Sotterranei del Vaticano di André Gide. Per Petri, però, tutti questi riferimenti dovevano rimanere sulla carta. A lui interessava la polpa concettuale dell’intrigo con tutta la sua potenza evocativa.

E se il libro andava letto, a suo dire, come la storia del corteggiamento tra un intellettuale “laico” e un intellettuale “mistico”, entrambi legati da una complicità “culturale” e da una “pretesa di superiorità” nei riguardi dei dirigenti democristiani sprofondati nella pratica annichilente degli esercizi spirituali, il film che ne derivava doveva puntare sulla rappresentazione ferocemente deformata di un altro dualismo, “più pericoloso per la società”, quello tra il potere della chiesa e il potere del suo braccio temporale.

Sostituendo il personaggio del pittore con quello di un pavido e subdolo uomo politico democristiano che ha le fattezze di Aldo Moro, e trasformando don Gaetano in un tracotante e invasato faccendiere alla Marcinkus, che sul finale viene assassinato perché tenutario delle segrete corruzioni di tutti gli esercitanti a Zafer poco prima che “qualcuno” attui il loro massacro, Petri propose la propria versione ferocemente apocalittica del pasoliniano processo alla Balena bianca, a quella Dc identificabile come il regime immobile e immutabile che per trent’anni si era reso “responsabile dello stato di degradazione della vita sociale e politica italiana”.

Il Todo modo cinematografico è per il suo regista “la storia dell’impossibile ritorno alla fede di un gruppo di potere che dei segni della fede fa addirittura il suo vessillo elettorale; la storia di un corso di esercizi spirituali che è destinato a tramutarsi in ecatombe, poiché le forze negative, i fantasmi oscuri che esalano dai suoi partecipanti non possono che abbattersi contro essi stessi”. Ed è pure una severa critica, sostenuta da argomentazioni psicoanalitiche, rivolta agli esercizi spirituali, che Petri considerava “la proposta perversa di sperimentare dal di dentro la nevrosi del proprio corpo, della sua scissione dall’anima, e il silenzio di Dio”.

Com’è noto, il film subì gli ostracismi della distribuzione fin dalla sua uscita, il 30 aprile del 1976. La commissione di censura ne autorizzò la diffusione con il divieto ai minori di 14 anni, e Todo modo restò in circuito solo per qualche settimana, prestando il fianco a critiche ferocissime, perlopiù di carattere ideologico, provenienti dai compatti schieramenti di un sistema politico dominante e allora impegnato, con la complicità della sua intellighenzia, a difendere i tatticismi dell’annunciato Compromesso storico tra Dc e Pci di cui Aldo Moro, la maschera protagonista di Petri e il futuro oggetto del lancinante “affaire” di Sciascia, era uno dei principali artefici.

Ed è proprio all’evento spartiacque del sequestro e dell’omicidio di Moro, compiuto dalle Brigate Rosse nel 1978, che si deve la condanna all’invisibilità del film, interdetto dalle sale come dai palinsesti e pubblicato in home video solamente nel 2015, a 33 anni dalla prematura scomparsa del regista avvenuta nel 1982.

A rivederlo oggi, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, l’opera di Petri conserva la sua originalissima efficacia estetica oltre che il suo valore perturbante. Diventati più opachi i diretti riferimenti a figure e motivi della realtà di allora, emerge con evidenza la dimensione teatrale del film (ingegnosamente risolta prima di tutto dalle scenografie di Dante Ferretti che citano Kafka e il segno claustrofobico di certe pièce sartriane).

E questo grazie anche alla straordinaria resa dei suoi interpreti, 40 anni fa sottoposti al fuoco di fila di gran parte dei recensori scandalizzati soprattutto dalla magistrale performance espressionistica (ingiustamente tacciata di macchiettismo) di Gian Maria Volonté, che fa del suo Moro la melliflua incarnazione dell’impotenza avvelenata a cui si riduce il perverso esercizio del potere.

Modernamente pregevoli continuano ad apparirci le prove di Marcello Mastroianni che regala un asciutto furore sadiano alla disinibita ed efficiente immoralità del suo don Gaetano, di Mariangela Melato che incarna le tortuose tentazioni sessuali della materna moglie di M., del memorabile Ciccio Ingrassia che indossa un cilicio per farsi il tragicomico rappresentante dei deliri sadomasochistici in quel bestiario democristiano, e dell’untuoso presidente “andreottiano” di Michel Piccoli che ne fa un implacabile puparo destinato a morire a chiappe scoperte.

Ma ad acquistare particolare rilevanza, dopo tanti anni, sono proprio le consonanze tra libro e film. Consonanze riguardanti sia le istanze etiche e politiche di due autori che credevano profondamente nel valore civile (oltre che estetico) delle proprie opere, sia la rigorosa, lucidissima qualità della loro visione sul destino morale e politico dell’Italia. E infatti, pur ostentando radicalmente le sue differenze di stile dal modello letterario, il Todo modo di Petri condivide con quello di Sciascia soprattutto l’addolorata, spietata constatazione dell’abisso di corruzione e degradazione in cui l’Italia è precipitata, segno bruciante e inconfutabile di una crisi di civiltà.

Quella crisi di civiltà individuata da un critico finissimo come Philippe Renard nella pagina del romanzo dove squilla l’absurdum della recita del rosario, la faticosa cerimonia (durante la quale si scatena la successione dei delitti) imposta da don Gaetano ai suoi ospiti.

A quella scena che è “metafora di vacuità” alla maniera di Bataille , Petri regala nel film una impressionante, indimenticabile iterazione estenuata di marca grotowskiana. Bastano questa pagina e questa sequenza a svelarci quanto Sciascia e Petri si siano scoperti, attraverso Todo modo, a condividere lo stesso sgomento, così metafisico e così concreto, dell’ultimo Pasolini.

Quel Pasolini che Sciascia considerava “fraterno e lontano”, il corsaro della “scomparsa delle lucciole” destinato al martirio, che avvertì nel romanzo la stessa rigorosa intransigenza con la quale egli aveva provocatoriamente invocato un processo politico al Palazzo democristiano. E questo prima di portare a termine, a ridosso del suo assassinio, Salò o le 120 giornate di Sodoma , un film che abbiamo tutti ormai imparato a considerare un allucinato e ammonitorio mistero profano sulla catastrofe del nostro tempo, fatto della stessa stoffa sadiana con la quale Petri avrebbe poi realizzato il suo Todo modo.

 

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