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Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo di Leonardo Sciascia, Adelphi, 2018 – Recensione

Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo di Leonardo Sciascia, Adelphi, 2018 – Recensione

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Tipologia:  Articolo

Data/e:  Aprile 2018

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

 

Che l’indagine sia una delle forme privilegiate dello stile di Leonardo Sciascia, e che la letteratura poliziesca costituisca la sostanza basica di gran parte delle sue opere, è noto anche ai suoi lettori meno accaniti.

Poco conosciuta è invece la sua appassionata competenza di giallista, consumatore avido dei maestri di quel genere che proprio i suoi libri hanno contribuito a trasformare nel tracimante fenomeno odierno, trave portante dell’industria editoriale con i suoi autori che fanno a gara per conquistare almeno un posticino nell’olimpo dei classici.

Ed è proprio a quell’olimpo che Sciascia si riferisce nelle sue riflessioni sulle qualità del romanzo poliziesco, affidate ad articoli e prefazioni il cui corpus è stato raccolto, a cura del filologo Paolo Squillacioti, in un volume fresco di stampa della Piccola Biblioteca Adelphi, “Il metodo di Maigret”, che svela fin dal titolo la predilezione dello scrittore di Racalmuto per il personaggio evergreen di Georges Simenon.

Scopriamo così che nello stesso 1978 in cui Umberto Eco, altro cultore di mystery, utilizzava Spinoza e Leibniz nel proporre, durante alcuni seminari, Sherlock Holmes come modello d’indagine intuitiva, Sciascia dichiarava a “Le Nouvel Observateur” di preferire al detective di Conan Doyle, “troppo rigoroso e tecnico”, o all’ “algebrica cerebrale” del Poirot di Agatha Christie, quel Maigret di cui si era occupato fin dal 1961 individuando nel suo metodo uno dei paradigmi della propria ricerca di scrittore.

Sulla scia dell’entusiasmo già manifestato da Savinio (antesignano degli sdoganatori di Simenon in Italia), l’autore del Giorno della civetta affermò sempre di apprezzare nel personaggio del commissario francese non soltanto il modo “di vedere e di amare” la realtà, o la sua capacità di far reagire (quasi fosse un elemento chimico) atmosfere e “fisiche comunioni”, ma anche il suo “sbirciare sempre un po’ nel futuro”, l’istintivo, rabdomantico indagare “in attesa di un qualche indizio che può rivelarsi, magari tra sonno e veglia”.

Ma per Sciascia non è solamente la meccanica di queste inchieste, che sulla pagina assumono spesso “toccante pietà e poesia”, a farsi metodo ammirevole.

Lo è anche il fervente “impegno con la realtà” di Simenon, grazie al quale, libro dopo libro, la figura di Maigret acquista una dimensione reale che la rende straordinariamente vivida, proiettata persino a rivendicare una certa autonomia dal suo autore (“come certi personaggi di Unamuno e di Pirandello”), e capace di assimilarsi al lettore al punto da lasciarsi seguire “mentre va per il mondo come la vediamo noi, come ciascuno di noi la vede”.

Maigret diventa così “non soltanto un personaggio ma modo di scrivere, concezione dello scrivere”.

In più, non c’è intervento che riguardi “Simenon, miracle quotidien” (la definizione è di Henry Miller) in cui Sciascia non dichiari una profonda ammirazione per la tecnica narrativa di “uno degli scrittori del nostro tempo più vicino alle ragioni umane”, ribadendone il primato rispetto a tutti gli altri autori conosciuti sui circa trecento Gialli Mondadori divorati in gioventù , e di cui non mancò di misurare il valore negli anni.

E così, accanto ai capitoli simenoniani e alla “Breve storia del romanzo poliziesco”, saggio già compreso tra gli scritti di Cruciverba (1983) e qui proposto integralmente (dove il profeta Daniele viene indicato come l’archetipo biblico di tutti gli investigatori), questa preziosa raccolta Adelphi presenta capitoli dedicati al “rozzo e macchinoso” Edgar Wallace, al torbido e cinico Spillane, a Chesterton inventore di Padre Brown “detective jettatore”, a Burnett emulo di Verga e, tra gli altri, al caustico Dürrenmatt del requiem per il romanzo giallo, La scommessa, che si legge né più né meno “come ogni giallo che si rispetti”.

Tutte queste considerazioni servono a Sciascia non solo per enucleare la regola aurea del suo genere elettivo, ma anche a chiarire a se stesso e al lettore le motivazioni del proprio scetticismo nei riguardi della scientificità del metodo investigativo, poiché “nulla è meno scientifico della scienza quando la si vuole applicare al crimine”.

Di tale scetticismo, lo sappiamo, è ammantata l’intera opera di Sciascia, la cupa temperatura delle sue indagini civili tra narrativa e saggistica, il suo ostinato confronto col mistero della realtà e il suo inquietato interrogarsi sulle funzioni della letteratura.

E se per lui, autore di gialli dalla soluzione ambigua (si pensi a Il contesto), risulta inevitabile riconoscere il debito d’ispirazione nei riguardi del “più assoluto giallo che sia mai stato scritto”, il Pasticciaccio di Gadda (la cui trama irrisolta è diventata la parabola del nostro paese “dove mai i colpevoli vengono assicurati alla giustizia”), è sempre con Maigret, e col suo modo lucidamente esitante d’investigare, che egli tende a identificarsi.

Anche se poi sa bene di non poter condividere fino in fondo con il suo prediletto commissario la missione che, a ogni inchiesta, lo spinge irresistibilmente a far scaturire “dal mistero la verità”.

E questo perché agli scrittori “civili” spetta il compito contrario, una volta indicato da Alberto Moravia proprio quando parlò di Sciascia: il compito di partire dalla chiarezza per arrivare al mistero.

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