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Il cinema di regime che battezzò Flaccovio

Il cinema di regime che battezzò Flaccovio

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Tipologia:  Articolo

Testata:  la Repubblica / Palermo

Data/e:  domenica 29 ottobre 2017

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Di Lorenzo Marinese, giornalista e scrittore di Cefalù (classe 1906), in pochi ormai ricordano le giovanili opere di narrativa o gli studi su Giovanni Meli, mentre non di rado si cita il suo asciutto e impressionante instant book sulla Palermo bombardata dell’ultima guerra, Macerie, pubblicato nel 1944 da Flaccovio.

E si deve proprio alla rinomata casa editrice palermitana il fatto che un altro titolo di Marinese sia ancora oggi ben quotato nel mercato del modernariato librario.

Parliamo del saggio Andiamo a cinema, al quale spettò d’inaugurare l’importante attività editoriale del libraio illuminato Fausto Flaccovio, finito di stampare nello stabilimento dei Fratelli De Magistris il 31 luglio del 1941.

Il volumetto, illustrato da tavole fotografiche che riproducono volti di dive e scene di film, è un efficace pamphlet sullo stato di salute della settima arte durante gli anni del ciclone bellico, ed è la testimonianza di quella che diventò la passione primaria di Marinese, da quando fu chiamato per primo a firmare una rubrica cinematografica sulle colonne del Giornale di Sicilia.

Andiamo a cinema si fa portatore in primo luogo dei diktat di Pavolini, mussoliniano ministro della cultura popolare, a proposito del cinema come “arma di irradiazione fascista e di prestigio italiano”.

E il suo autore si trasforma in critico di regime sia quando esalta senza riserve la produzione italica al tempo dei Telefoni bianchi o la solidità dell’autarchica industria dei film marchiata Goebbels nel Terzo Reich alleato — ammirando in entrambe le cinematografie la capacità di coniugare intenti propagandistici ed efficacia estetica —, sia quando denigra i prototipi del realismo poetico francese (i Carné, i Duvivier, i Renoir) che “rivelano una potenza espressiva eccezionale e che per ciò stesso sono non meno deleteri ai fini politici, morali e sociali”.

Solo di fronte a certi capolavori di Capra e Wyler — i fuoriclasse di un made in USA che però “non ha avuto mai uno stile, né un indirizzo, né un programma” (sic!) — la brama militante di Marinese si fa meno tranchant, rivelando finalmente una competenza critica. Accade pure nel capitolo dedicato al documentario, dove egli si attarda ad esaltare il valore cinematografico del magnifico “Uomini sul fondo” di De Robertis, mettendosi così in linea con le posizioni (meno ortodosse delle sue) dei redattori della rivista Cinema che, fin dai tempi della direzione di Vittorio figlio del duce, si trasformò in una delle fucine dell’intellighenzia antifascista, covando autori e teorici del neorealismo di là da venire.

 

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