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I versi di Vann’Antò che ispirarono Scaldati

I versi di Vann’Antò che ispirarono Scaldati

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  8 marzo 2015

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

A chi abbia frequentato con passione i motivi e le figure di Franco Scaldati, la sua invenzione teatrale di un moderno lessico dialettale siciliano proiettato a recuperare il fiore d’idiomi originari, non saranno sfuggite le affinità che legano il suo stile all’orizzonte del poeta di Ragusa, Giovanni Antonio Di Giacomo detto Vann’Antò (1891-1960).

In particolare, c’è un libro che il teatrante palermitano considerava una fonte d’ispirazione per i ricami dei suoi testi più ludici e lunari: Gioco e fantasia, estroso esercizio filologico che sonda la natura, insieme alle remote assonanze e derivazioni letterarie, degli indovinelli popolari (oggetto di uno dei principali suoi studi da erudito prima futurista e poi docente di tradizioni popolari all’ateneo di Messina).

Pubblicato nel settembre del 1956 dall’editore di Caltanissetta Salvatore Sciascia, questo volumetto ormai introvabile è un prezioso manuale poetico, dove si evidenziano le ragioni seminali di quella “subalternità egemone” orgogliosamente espressa per secoli dalla cultura contadina ormai perduta. Una fecondità raddensata in enigmi e scioglilingua trasfigurati dal patrimonio della sapienza biblica, dei tragici e dei lirici greci, della tradizione araba, di certe suggestioni di Esopo o di Cervantes. Immagini che generano immagini all’infinito, già collazionate nelle raccolte del Pitré e qui verificate con amorevole rigore: schegge di fiabe e di domande che raccontano della luna diventata bambina (Na picciridda ca non havi un misi, / va furriannu di notti lu paisi), o che la evocano mentre viaggia a cavallo della notte (Cappi supra cappi / e cavalli crisintini / accumpagnanu a donna Sara / quannu va ppi li camini), capaci pure di trasformare il sole in un uccellino a cui basta un piccolo foro per passare (Haiu n’acidduzzu / ch’è veru picciriddu: / lu iornu quann’affaccia / si infila nnô purtusiddu).

E poi le anamorfosi oscene (Aucieddu ri carni e ciciu r’oru!), le contaminazioni tra scritture alte e basse, i calembour enigmistici, e quei “Dubbi” attraverso i quali poeti come Veneziano e Petru Fudduni inanellavano domande teologiche o contese dialettiche. In questo prodigioso scenario della parola hanno abitato i versi di Vann’Antò, e quello che Sciascia definì l’astratto e il sublime della sua poesia, sedimentato negli “strati dell’anima e della cultura” isolane. La stessa stoffa che, con taglio e coloriture più aspre, ammanta la tessitura di Scaldati e della sua teatrale utopia.

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