Film di mafia : quei cliché al capolinea
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica/ Palermo
Data/e:  27 agosto 2020
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Se è vero che la mafia “non è più quella di una volta” (e così l’antimafia), come insinuano beffardamente i paradossi dell’ultimo, contrastato film del “guastatore” Maresco, anche per i cosiddetti mafia movie sembra arrivata l’ora di adeguarsi alle proprietà politicamente corrette del comune sentire, affrancandosi una volta e per tutte dal proprio mito.
Un mito non certo privo di appeal, ma effettivamente consumato da troppe ambiguità ideologiche, diventate ormai bersaglio di una diffusa riprovazione.
Prendete quel formidabile prototipo che rimane Il padrino di Coppola tratto cinquant’anni fa dal bestseller di Puzo. Al di là della sua costruzione mitica distorta fino alla compiacenza, oggi non può che risultare improponibile quel suo making of pubblicitario, che la Paramount allora affidò alle dichiarazioni, tendenziosamente prive d’ironia,di due chiaccherati mob actor come Richard Castellano (Clemenza), che vediamo mentre definisce con disinvoltura Cosa Nostra “una organizzazione di cui non si può fare a meno perché ce n’è bisogno”, e James Caan (Sonny Corleone), secondo il quale a leggere il libro “ti viene proprio voglia di affiliarti a quella organizzazione”, come se Cosa Nostra fosse il Club di Topolino. E comunque, più che simili lampanti esempi di connivenza morale e culturale, sono stati l’incapacità di evitare stereotipi e generalizzazioni a costituire la fatale lacuna dei mafia movie, fino a renderli inattendibili per ogni lettura del fenomeno mafioso.
Inattendibili e perdipiù innocui (visto che nessuno di loro ha mai scosso il mondo di Cosa Nostra), sebbene siano stati in grado di produrre un immaginario significativamente eloquente.
Un paradosso, questo, su cui indaga la nuova e brillante monografia di Emiliano Morreale, esaustiva sia per scrupolo documentale, sia per intelligenza critica. “La mafia immaginaria”, Donzelli editore, nel suo proporsi come studio culturale, sceglie di fare del cinema di mafia un sintomo più che uno specchio, sviscerandone forme e discorsi per poi connetterli alla loro stratificata ricezione nel contesto socio-politico-culturale italiano, che va dal dopoguerra del secolo scorso, al tempo in cui la Sicilia divenne sciascianamente “la chiave di tutto”, fino al laboratorio del Mafiaworld nostro contemporaneo, del quale la Sicilia è il brand e la scena primaria.
Sappiamo che gli storici della mafia hanno sempre considerato rilevanti per le proprie ricerche soprattutto classici doc come il western postneorealistico di Germi, In nome della legge, insieme a Salvatore Giuliano capolavoro d’engagement e a perle come l’ingegnosa commedia nera di Lattuada con Sordi, Il mafioso, che mise in relazione mafia e società dei consumi al tramonto del Miracolo economico.
Ma lo studio di Morreale ci dimostra che, al di là di poche eccezioni, nel filone dei mafia movie (che deve molto al western spaghetti come al poliziottesco) i prodotti del cinema di genere si distinguono difficilmente da quelli d’autore. E questo perché in Italia il cinema civile si è sempre mosso “in un territorio liminare tra l’impegno politico sociale e il compiacimento commerciale”.
Insomma, se nella nostrana “mafia immaginaria” la leggenda ha finito per soppiantare il reale, allora è sul corpus di questa leggenda che bisogna concentrarsi analizzandone il meccanismo dall’interno e per intero, bagattelle comprese, al fine di constatare quanto quei film e quelle fiction abbiano contribuito a costruire negli anni sia l’immagine pubblica della mafia, sia “l’immagine di sé che i mafiosi hanno elaborato”.
Su questa linea, la monografia tratta con la stessa intensità il cinema popolare e inquieto di Damiani e quello rozzamente populista di Squitieri, i sofisticati (ma qualche volta inerti) derivati della letteratura di Sciascia e i didascalici pamphlet di Giuseppe Ferrara, lambendo il territorio dell’incisivo made in Usa di Scorsese e dei Sopranos.
Non manca un’analisi di gender che identifica nei mafia movie, e nella loro logica machista, il “gioco di rimozione e sfruttamento dell’immagine femminile” attraverso il cliché, derivante dai mélo erotici modello anni settanta, della donna in pericolo.
Si trattò di vedove o amichette, e quasi sempre di testimoni scomode, come Marilù Tolo sepolta nuda in un pilone di cemento armato della Palermo del sacco edilizio in Confessione di un commissario di polizia di Damiani,o più tardi Selen scrupolosamente seviziata da sbirri e “masculi” d’onore nell’hard-core Concetta Licata di Salieri: una filiera che fu interrotta dalla svolta di cui si fece pioniera, alle soglie del 2000, Roberta Torre con le sue “femmine folli” della Vucciria. Viene pure scandagliato l’elemento dell’autorappresentazione mafiosa attraverso l’esemplare parabola palermitana di Giuseppe Greco, figlio del “Papa” della Cupola Michele, e regista nel 1997 di I Grimaldi.
Un film che per lui fu uno psicodramma, ispirato com’è alla figura del padre traslato nel personaggio del boss patriarca “di antico stampo” che si oppone ai turpi “stiddari” trafficanti d’eroina (“Il progresso lo accetto, la merda no!”), e che può essere letto come deriva trash del paradigma “padrinesco” e del suo sistema di valori (c’era una volta la “mafia buona”), anche grazie all’assonanza garantita dal doppiatore di Marlon Brando/don Corleone, Peppino Rinaldi, che qui offre il suo timbro all’attore protagonista.
Un capitolo è poi dedicato al feuilleton civile della Piovra, che dal 1984 al 2001 rinnovò sul piccolo schermo i connotati del mafia movie in parallelo con la cronaca atroce delle mutazioni stragiste e globaliste di Cosa Nostra, messo a confronto con i più recenti teleprodotti (spesso così maldestri da sembrare vintage) dell’enfasi epico-intimistico-civile-pedagogica da prime time, i martirologi apologetici e gli action americaneggianti delle squadre antimafia, a cui hanno fatto da contraltare le biografie idealizzate dei capi dei capi.
Nel rilevare che negli ultimi vent’anni nessun film italiano su Cosa Nostra è ambientato al presente, Morreale si fa tranchant rivolgendosi a mestieranti e autori neo-engagé del postmoderno e del postcinema: “La denuncia non basta più”, raccontare seriamente le mafie significa oggi “spiazzare gli spettatori rispetto a narrazioni evasive o rassicuranti”. E poi individua nel coté comico dei mafia movie (da Franchi e Ingrassia fino a Benigni) la loro componente più perturbante. Senza dimenticare che sono state pure le parodie sguaiate e le grossolane farsacce sexy della serie B da stracult ad aver spianato la strada alla caustica vertigine del deflagrante Cinico mondo di Ciprì e Maresco, oggi trasformatosi nella spettrale Waste Land di Maresco rimasto solo a svelare, coi suoi affondi politicamente scorretti (già a partire da Bellusconi), gli stereotipi e le scorciatoie dell’antimafia più ipocrita e inamidata.
E così, nella sua parte finale, il libro di Morreale c’indica questo come un esempio di cinema luminosamente “contro”. Un cinema in grado di rappresentare, dopo averlo smascherato nella realtà, quell’ultracorpo mafioso che attualmente è la minaccia più pericolosa fuori e dentro ognuno di noi.
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