Fame, risate e litigi. La vita da romanzo di Franco e Ciccio, in la Repubblica/Palermo, 30 ottobre 2022
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica/ Palermo
Data/e:  30 ottobre 2022
Autore:  Umberto Cantone (L'articolo non recava la firma dell'autore come gesto di solidarietà allo sciopero dei giornalisti di la Repubblica)
Articolo: 
Ad accomunarli fin dal prologo delle loro vite, destinate a fondersi non solo per mestiere, fu quel tipo di eccentricità da tosti o da fermi (secondo l’impareggiabile glossario di Salvo Licata) che nella Palermo postbellica delle macerie e della fame era l’unico modo dei poveri cristi per affermare il proprio sogno di emancipazione.
E così tra i tanti aneddoti riguardanti il loro non voler calare la testa, c’è quello del giovanissimo Ciccio con le pezze al sedere che lanciando un “vaffa” rinunciò all’assunzione in una fabbrichetta di calzature perché un padroncino si era permesso, davanti agli altri operai, di dargli l’ordine di alzare la saracinesca, trattandolo da ragazzino.
E c’è la precocissima, bizzarra provocazione di Franco “coccio di tacca”, che rispose presentandosi con un pupo siciliano alla richiesta della maestra di venire accompagnato dai genitori dopo una zuffa in classe, una insubordinazione che segnò il suo definitivo addio a ogni impegno scolastico.
Episodi come questi rendono vivace l’incipit di questa corposa biografia da dieci e lode della più tellurica e verace delle coppie comiche di sempre, “Franco e Ciccio – Storia di due antieroi”, scritta da Alberto Pallotta con Andrea Pergolari, e pubblicata da Sagoma Editore.
Con i devoti contributi dei figli del duo, Giampiero e Massimo, il libro ricostruisce gli esordi paralleli tutti in salita, che per Ciccio (classe 1922) significò la vita da cani delle scalcagnate compagnie d’avanspettacolo in giro tra le macerie da sud a nord (caviglie dipinte di nero per simulare i calzini, bambole non c’è una lira, il sodalizio con il concittadino complice di sempre Enzo Andronico, l’esibirsi in parodie smandrappate imitando Totò o lo slang da broccolino per compiacere le truppe Usa, etc.); mentre per Franco Benenato (classe 1928) fu lo sfibrante esordio nel teatro di strada, in cima a una sedia che si portava appresso, delle straordinarie performance da contorsionista sul retro del Biondo e del Finocchiaro, a quel tempo teatri aurei, prima da “strisciante” e poi da “posteggiatore” col soprannome di Ciccio Ferraù, mutuato più tardi in Franchi.
La scintilla del loro sodalizio felice e sofferto scattò al Caffè degli artisti, dietro la Chiesa di Sant’Agostino al Capo, quando Ingrassia, invogliato da una possibile scrittura in una compagnia napoletana, corteggiò Franchi, il quale rimase a bocca aperta di fronte alla richiesta del futuro partner di “fare insieme uno sketch”: “Ma come parla questo?”. Seguì il periodo delle tournée da scavalcamontagne che per la coppia significò dormire nello stesso letto e mangiare quando si poteva, proponendo da Castelvetrano fino ai teatri del Nord il virtuosismo scatenato di marionettismi come quello di Core ‘ngrato, scenetta irresistibile dove Franchi esibiva faccia di gomma e addominali d’acciaio nel suo farsi uomo-bilancia.
Un successo che moltiplicò ingaggi e repliche al punto da impedire all’attore di partecipare ai funerali del padre, cavandosela con un vaglia di ventimila lire spedito alla famiglia per coprire le spese. Fu chiaro fin da allora che quella del duo sarebbe stata una bulimica carriera “a rotta di collo”, un invasamento professionale di cui poi furono prova i 116 film non tutti necessari girati perlopiù da protagonisti.
A dare il “la” a questo crescendo fu, come è noto, l’incontro con Mimmo Modugno, mentore lungimirante che li lanciò come suoi partner nel fortunatissimo Rinaldo in campo al Sistina per poi legarli a un contratto capestro per i primi film sottraendoli all’interesse dell’eclettico Mattoli, regista del loro esordio in Appuntamento a Ischia (1960), e arrivando ad accusarli rabbiosamente di tradimento in occasione del loro abbandono (provocato da Ciccio con le sue inflessibili rivendicazioni) di Tommaso d’Amalfi, commedia musicale scritta da Eduardo e prodotta dal Mimmo nazionale che nel ’64 si trasformò in un bruciante insuccesso al botteghino.
Questa biografia “a macchia di leopardo” rende conto in modo finalmente non superficiale della sterminata attività del duo, a partire dai film dozzinali girati in 15 giorni e senza assicurazione tra i quali però va riconosciuta qualche perla firmata Steno e soprattutto Fulci, o Giovanni Grimaldi, fino alle partecipazioni Rai dove letteralmente spopolarono e a quelle Fininvest che per loro funzionarono da viale del tramonto.
Un accenno d’obbligo al rapporto della coppia con Buster Keaton, o quello che ne rimaneva, per lo straziante Due marines e un generale, sul set del quale pare che il genio ormai grinzoso e spiritato si divertisse un mondo nel lanciare a Franchi delle noccioline per attizzare le sue pose scimmiesche.
Non manca, ovviamente, il racconto delle tante separazioni culminate in quella più grave all’alba degli anni Settanta, anche sulla scorta delle testimonianze presenti nell’impagabile Come inguaiammo il cinema italiano di Ciprì e Maresco, dove Monicelli ricorda come i due si fossero presentati affiancati dai rispettivi avvocati quando lui li convocò per coinvolgerli in L’armata Brancaleone, che fu uno dei tanti progetti andati a monte.
“Rancori, invidie, gelosie e ambizioni, o forse più semplicemente stanchezza fisiologica”: il catalogo delle ragioni di quella rottura propone solo incertezze.
Ciccio si godette molto il proprio meritatissimo sdoganamento autorale (Fellini, Petri, Vancini), e assai meno le conseguenze economiche delle proprie ambizioni da regista e produttore di film stroncatissimi che solo il tempo ha trasformato in cult (e il libro ci regala una sua intervista inedita ai tempi di L’esorciccio).
Franchi sfogò tutte le proprie velleità di cantante e proseguì da attore sulla strada della parodia il cui detour più applaudito fu quell’Ultimo tango a Zagarol di Cicero che Bertolucci non volle mai vedere temendo che gli piacesse più del suo prototipo parigino.
Non mancarono, dopo il memorabile Pinocchio di Comencini e il pasoliniano Che cosa sono le nuvole?, le occasioni di rentrée in coppia: il Cortile degli aragonesi in scena al Teatro Biondo nel ’73, La giara riuscitissima dei Taviani nel 1984, e purtroppo anche la scivolata nella sciagurata impresa di Crema, cioccolata e… paprika scritto dal figlio del “papa” di Cosa Nostra Michele Greco che lo finanziò, imbarazzante scult che costò a Franchi un inutile e dolorosissimo ludibrio mediatico, assai immotivato visto che l’indagine sulla sua presunta affiliazione mafiosa fu troncata sul nascere da Giovanni Falcone che l’aveva condotta.
La biografia dedica al fattaccio un capitolo che dice tutto fin dal titolo, “Lasciamo cadere la cosa… nostra”. Fatto sta che, com’è noto, Franchi da quell’infangamento non si riprese più, allentando almeno psicologicamente la resistenza alla cirrosi epatica ereditaria che se lo portò via a 64 anni, nel dicembre del maledetto ’92.
A Ciccio non restò che declinare le infinite variazioni di un rimpianto verso la propria metà, una riappacificazione definitiva fondata sulla convinzione che quella coppia che era stata (parola di Fofi) “il miracolo vivente di un passato che poteva ancora agire nel presente” aveva davanti a sé l’eterno futuro di una meritata mitizzazione.
Prima del silenzio, coltivato con sardonica astiosità, si concesse qualche bella soddisfazione teatrale come quella di Don Turi e Gano di Magonza che, nel 1994, lo riportò al Biondo a fianco di Cuticchio e Civiletti. Poi si lasciò andare fino alla dipartita, avvenuta nell’aprile 2003, a quasi dieci anni di distanza da quella della sua impareggiabile metà.