Effetto Hitch – I 120 anni del demiurgo che ha fatto grande il cinema, “InTrasFormaZione – Rivista di Storia delle Idee”, vol. VIII, numero 2(16), 1 ottobre 2019
Tipologia:  Articolo
Data/e:  1 ottobre 2019
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Non c’è regista del Novecento cinematografico che abbia meritato più di Alfred Hitchcock il titolo di classico. Nessuno più popolare e influente, e per giunta in grado d’ispirare quelle che, a oggi, rimangono le due più importanti bibbie per cinefili mai scritte, uscite nel 1957 e nel 1966.
La prima è lo smilzo, brillante saggio di due giovani turchi della Nouvelle Vague all’epoca della sua rivoluzionaria ebollizione, Eric Rohmer e Claude Chabrol, intitolato semplicemente Hitchcock, dove l’analisi ontologica e metafisica dei film del cineasta eletto a modello è passata alla storia come il primo dei manifesti della politique des auteurs, oltre che come un esempio spartiacque di metodologia critica.
La seconda è l’illuminante raccolta d’interviste, che i cinéphiles hanno sempre letto come un dialogo platonico, di Hitchcock/Truffaut (tradotto nelle molte edizioni italiane con Il cinema secondo Hitchcock), dove il talentoso allievo francese François esalta la sorprendente competenza del maestro Alfred avendo cura di trasformarla nel paradigma dell’intreccio imprescindibile tra teoria e prassi, e regalandoci così il più istruttivo dei trattati sull’estetica e l’etica dell’arte della regia.
Iniziare con l’evocazione di questi due libri epocali il tributo in occasione dei 120 anni che ci separano dalla nascita del demiurgo della suspense — l’ingegnoso inglese ammesso nell’Olimpo di Hollywood quando era già un idolo in patria — è il modo migliore per marcare la prospettiva storica da cui si è sviluppata quell’idolatria hitchcockiana che ancora oggi ci appare intramontabile.
Una idolatria che si affermò parallelamente alla diffusa popolarità di cui godettero sia il suo personaggio (impostosi come icona a partire dagli anni Cinquanta, con il successo degli Hitchcock Presents, i telefilm che sparsero in mezzo mondo il marchio della sua rotonda silhouette), sia la maggior parte dei suoi lungometraggi, alcuni diventati cult movie nonostante l’iniziale insuccesso al botteghino (come è accaduto a Vertigo- La donna che visse due volte).
Forse va preso sul serio l’arguto calembour di Truffaut che, per spiegare la fortuna di Hitchcock in America al pari che in Europa, disse che gli americani lo ammiravano perché girava le scene d’amore come fossero scene d’azione, e gli europei perché girava le scene d’azione come fossero scene d’amore.
Si potrebbe aggiungere che egli ha saputo fare tutto questo con considerevole rigore e speciale acutezza, e che ogni suo film è tanto un godibile prodotto d’intrattenimento quanto una straordinaria avventura della percezione.
Ma bastano tutte queste attribuzioni a spiegare la ragione della durevolezza di un mito così popolare e così autorevole?
Di certo c’è che dobbiamo agli animatori dei prestigiosi “Cahiers du cinéma” (i critici con un destino da cult director Truffaut, Rohmer e Chabrol, svezzati dal fondatore della rivista André Bazin) lo sdoganamento del sistema Hitchcock e il suo utilizzo come fulcro per una vera e propria rivoluzione copernicana riguardante codici, metodi e ideologia della teoria cinematografica.
Lo fecero consegnando alla storia dell’arte l’Hitchcock touch e inventando la linea hitchcococko-hawksiana.
Una linea che, nel seguire la seminale teoria di Jean-Paul Sartre riguardante le implicazioni metafisiche di ogni tecnica, servì a mettere sotto osservazione, insieme ai fuoriclasse innovatori Hitchcock e Howard Hawks, una gran parte degli artigiani del cinema di genere, elevati al rango d’autori, e per i quali fu interdetta per sempre l’etichetta della “serie B”.
Uno degli slogan allora utilizzati come polemica testa d’ariete fu la constatazione di Jean-Luc Godard circa la sintonia tra i “Cahiers” e “l’uomo del bar accanto” a proposito del principio che sentenzia “Hitchcock è cinema e gli altri sono cacca”.
E così, ogni volta non si può che partire dalla svolta di questi fervidi seguaci di una nuova e irreversibile idea di cinema, per ricominciare a parlare del filmmaker che ne incarnò il simbolo, colui che gli americani chiamarono Hitch e i francesi monsieur Hitchcock. Magari facendolo con la consapevolezza di aggiungere qualche pagina a perdersi tra le milioni già scritte.
Davvero non si smette di volerne sapere di più sul maestro di tutti, il cui stile ha prodotto un cospicuo numero di epigoni e imitatori, esercizi di ammirazione e derive citazioniste, e anche qualche gustosa riflessione metacritica (De Palma, Carpenter, Mel Brooks, Dario Argento, Van Sant, Kieslowski, e tanti altri).
Niente male per un auteur intellettualmente alquanto riottoso (almeno all’inizio della sua attività), e da sempre determinato ad ammaliare il suo pubblico architettando film poco pensanti ma che fanno pensare.
Parliamo dunque di un regista che la leggenda ci presenta come puntiglioso fino alla maniacalità, uno da applaudire perché in grado, più di altri, di comporre classici adamantini che, da un lato, si presentano come opere chiuse e, dall’altro, si predispongono a infinite interpretazioni, finendo così per somigliare ai sogni.
Decidendo di accendere una sommaria ricognizione sull’originalità e complessità del suo linguaggio si può pure cominciare condividendo l’entusiasmo di Bazin per la memorabile panoramica che, nel corso del processo in Il caso Paradine (uno degli esperimenti hollywoodiani che, da Rebecca in poi e per tutti gli anni Quaranta, incatenarono Hitchcock al più creativo e invadente dei tycoon, David O’Selznick), punta sul perverso sospettato Louis Jourdan attorno alla gabbia degli imputati mettendo al centro la presunta colpevole alla sbarra Alida Valli: una citazione che ci dice tanto sulla sapienza con la quale il suo autore, in quel film come in altri, sapeva manovrare il carrello su un personaggio, in avanti e all’indietro, con una geometrica, implacabile rapidità che svela — ha scritto una volta Chabrol — “quella famosa sensazione di angoscia di cui è stato definito maestro”.
E infatti è l’angoscia, più dell’orrore, il sentimento profuso dal suo cinema, la principale sostanza emotiva attraverso cui il nostro ha sempre attanagliato lo spettatore, costringendolo a identificarsi con tutti i suoi memorabili personaggi, così magnificamente (e ironicamente) imprigionati nelle proprie ossessioni.
Questo protagonismo dell’angoscia — un’angoscia riguardante non tanto la morte come minaccia primaria quanto la condizione quotidiana di un vivere morendo, prospettata come espressione della vanità della scommessa umana — accomuna Hitchcock prima di tutto a quello che egli stesso elesse a proprio “fratello in ambiguità”, Luis Buñuel.
E poi a colui il quale viene considerato il principale dei suoi ispiratori, Edgar Allan Poe.
Forse è proprio per emulare lo scrittore di Boston che egli ha scelto l’iperbole come figura retorica del suo stile, esibendola con temperata sfrontatezza, col gusto di giocare a manipolare i sensi dello spettatore nello stesso istante in cui gli fornisce gli elementi utili a renderlo consapevole di ciò a cui assiste.
Principio cardine di questo procedimento(che molti passaggi del dialogo nel libro di Truffaut spiegano in modo esaustivo) è senz’altro la teoria della suspense, ormai entrata a far parte di ogni manuale d’uso del giallo o thriller che dir si voglia.
Una teoria che serve soprattutto per dimostrare quanto sia irresistibile in Hitchcock il desiderio di mettere al corrente lo spettatore di tutti gli elementi in gioco (informandolo della ormai proverbiale bomba sotto il tavolo). Un gioco che si esercita ad espandere fino allo spasimo l’attesa, alimentando il dubbio (scoppierà o non scoppierà questa maledetta bomba?) e respingendo, come fa l’aglio per il vampiro, ciò che Hitchcock abborrisce più di ogni altra cosa, il coup de théâtre e il whodunit, la consumata retorica dei mystery alla Agatha Christie.
Quanto ai temi di fondo di questo cinema che riflette implicitamente sui dispositivi della visione, gli stessi che adopera per stregare e persuadere i suoi spettatori, si può dire che lo spettacolo estetico e concettuale allestito da questo crudele demiurgo delle ombre non è che la messinscena (artificiosa eppure flagrante) dell’allarmante, tragicomica condizione di una irredimibile pericolosità dell’essere rovesciata nella proiezione di un onirico mondo parallelo, che però sa restituirci l’effetto di una plausibile rappresentazione della nostra realtà e del suo ordine continuamente minacciato.
E per tale rappresentazione, secondo Hitchcock, non c’è niente di più efficace del crimine da utilizzare come strumento di smascheramento e istigazione al disordine, come la scacchiera ideale per la prova estrema a cui sottoporre i personaggi delle sue trame, facendo in modo che gli spettatori possano specchiarsi in loro, per poi spingerli a provare l’elettrizzante emozione di una “vertigine senza fine” che è appunto lo spettacolo di quella ontologica pericolosità.
Ma a rendere prezioso, originale e irresistibile il risultato spettacolare di questo complesso progetto hitchcockiano è certamente il suo metodo, la sua téchne.
A stuzzicare la tentazione di sondare superfici e profondità di questo metodo c’è innanzi tutto il vezzo hitchcockiano di negare l’interesse a fare filosofia dentroi suoi film.
Gli stessi film che però attizzano la voglia d’interpretarli proprio da un punto di vista filosofico, oltre che dal lato psicologico ed estetico.
A sciogliere almeno questa contraddizione provvede Chabrol quando ci spinge a rinvenire senza alcun indugio un certo numero di concezioni morali presenti nei film del maestro, indicandoci in che modo esse siano sempre connesse a una metafisica, e come acquistino per questo un peso filosofico.
Chabrol è stato fra i primi a rilevare che le scelte dei variegati soggetti non siano state mai casuali in Hitchcock, e quanto l’insieme di queste scelte sveli anzi “una mirabile continuità, tale che nessuna opera è indipendente dalle altre, ma ne costituisce un approfondimento e un arricchimento costante”.
Sarà per la suggestione che tesi come queste procurano, ma persino i titoli dei suoi film, una volta messi in fila, acquistano un sorprendente significato rivelatorio, dando forma alle coordinate di un frastagliato arcipelago cinematografico: “wrong man”, “man who knew too much”, “stranger on a train”, “young and innocent”, non sono solamente splendidi titoli, e questo perché da tempo hanno assunto ben altre rilevanze, trasformandosi in emblemi di categorie umane. Come del resto, evocano icone psicologiche titoli quali “psycho” o “vertigo”; e categorie di sensazioni “suspicion”, “shadow of the doubt”, “stage fright”.
E più si tenta di assecondare tali assonanze e affinità, e più si scopre, come intuì Truffaut e dopo di lui un critico acutissimo come Enzo Ungari, che questo arcipelago hitchcockiano ha le fattezze e le proporzioni del suo autore.
Tornando al vezzo di ostentare come unica vocazione quella dell’artigianalità a scapito di ogni allure d’artista, non è difficile supporre che con essa Hitchcock abbia elaborato quella comprensibile frustrazione relativa all’assenza di riconoscimenti in vita (niente oscar e nemmeno premi europei, come è accaduto a Kubrick).
Ma lo si può pure interpretare, questo mix di tagliente superbia e grande umiltà, come un felice atteggiamento culturale, lo stesso che produsse l’assoluta mancanza di pregiudizi nei riguardi della Trivialliteratur e quel respingere fermamente l’esistenza di un messaggio che accomunò Hitchcock a John Ford e affini, però provocando i risentimenti della parte più retriva della critica a lui contemporanea (in Italia quella legata al contenutismo di equivoca ascendenza marxista) che non lesinò distinzioni di lana caprina tra l’autore e il mestierante, tra il teoreta e l’intrattenitore, come se ognuna di queste qualità escludesse l’altra.
Non vale, non può valere per Hitchcock un discorso sui propri film che assuma questi come pretesto. Un discorso sull’estetica cinematografica deve necessariamente avere per oggetto il film inteso come materia, entità, dispositivo.
E fare film significa, per questo regista innamorato del cinema e anche della pellicola, abbandonarsi al puro piacere di farli, costruendoli come se fossero un po’ giocattoli e un po’ organismi che vivono solo per espletare la loro funzione, che è quella di raccontare delle storie .
Infatti, se c’è una caratteristica evidente in Hitchcock è quella della sua insaziabile brama affabulatoria.
Hitchcock tessitore di bizzarre trame parallele, di calembour e di detour narrativi che squassavano l’ordinario equilibrio delle trame dei suoi soggetti, derivati da romanzi e novelle quasi mai all’altezza del film al quale erano destinati; Hitchcock gran virtuoso, privatamente e pubblicamente, di quel “lavoro arguto” individuato da Freud qualche volta come propensione al motto di spirito e spesso come malattia nevrotica.
Si sono divertiti gli autori di biografie non autorizzate e recenti irrispettosi biopic a mescolare, del maestro tirannico che non risparmiò asprezze dentro e fuori il set, la voracità logorroica a quella alimentare, il gusto della causticità a presunte inclinazioni sadiche (e pruriti sessuali frustrati, feticismi, transfert), il tutto riguardante il morboso rapporto con le sue levigate ma laviche bionde protagonista (e specialmente la desiderata Tippi Hedren).
Ma tornando al senso del suo fare, va detto che Hitchcock appartiene a quella tipologia di registi per i quali una storia, quando arriva sullo schermo, deve essere costituita essenzialmente d’immagini.
E che le immagini in un film diventano secondo lui efficaci solo quando provocano un effetto emotivo nei loro spettatori, al contempo consentendo alla storia di farsi (oppure di sfaldarsi) mentre procede verso la sua conclusione.
Un esempio di questo teorema? A chi poteva venire in mente se non a Hitchcock, in un film della metà degli anni Cinquanta che tratta di un errore giudiziario — Il ladro con Henry Fonda — di drammatizzare sul finale la scoperta del vero colpevole attraverso la progressiva sovrapposizione del volto di questi con quello dell’innocente accusato.
Si tratta di un espediente elegante ed efficace, che fa molto cinema puro alla Ejzenstejn ma senza proporre alcun valore simbolico o metaforico. Si tratta di scelta che ci appare equilibrata solo perché ne riconosciamo l’efficacia diegetica, perché c’informa sinteticamente del lieto fine della vicenda.
E così Hitchcock svelò allo spettatore del 1956 (anno di uscita del film) la propria natura di cineasta formatosi ai tempi del muto. Uno che, come Griffith e von Stroheim, si era votato all’elemento visivo perché credeva profondamente che in un film debba essere l’immagine a fondare il racconto liberandone ambiguamente l’espressione.
Ambiguamente, appunto, poiché lo stile hitchcockiano lavora per creare una magica, ingannevole ipnosi in grado di catturare, mantenendola viva, l’attenzione dello spettatore.
Ambiguamente perché ogni film di Hitchcock è anche un elegante e pericoloso allestimento di illusioni.
Se ne vogliamo spiegare in qualche modo il funzionamento, allora possiamo pure ricorrere a un accostamento per opposizione. Si può affermare che in lui la pratica del montaggio sia utilizzata con un procedimento opposto a quello che Bertolt Brecht elevò a metodo per far lievitare le situazioni del suo teatro epico.
È Walter Benjamin, in un suo discorso del 1934, a fornirci l’esempio: in Brecht il pezzo montato interrompe sempre l’azione assieme al contesto in cui è montato, e questo perché tende programmaticamente a impedire l’illusione da parte dello spettatore. Secondo Hitchcock, invece, interrompere l’azione è un sacrilegio perché è nell’azione che l’illusione acquista corpo. E l’illusione per lui è tutto.
Così certamente non sbagliamo attribuendogli quella qualifica di illusionista che, tra le altre cose, asseconda il paragone nobile con un altro gigante, Orson Welles, più sregolato e dissipatore di lui, ma non meno crudele.
Se sullo schermo una storia è soprattutto l’illusione di una storia, immagine il cui contenuto acquista valore solo in funzione dell’effetto emotivo che produce, allora un vero regista deve davvero trasformarsi in un illusionista, puntando in primo luogo a valorizzare quell’effetto che lo lega al suo pubblico, disponendosi senza esitazioni a contravvenire a ogni regola di plausibilità e veridicità.
Hitchcock non ha fatto altro che questo, fin dagli inizi della sua carriera, durante l’aureo apprendistato “periodo inglese” che non ci si stanca mai di riscoprire.
Fu poi il sistema hollywoodiano degli Studios ad assecondare la sua vocazione di geniale manipolatore a servizio del pubblico, fermamente intenzionato a rimanere fedele alle proprie intuizioni figurative trasferite nei suoi leggendari storyboard (in media, 1200 disegni preparatori per ogni film).
Immagini pronte a entrare in partitura. Sequenze che trovano nel montaggio la loro plausibilità espressiva, anche quando si tratta di scene che sfidano qualunque logica.
Qualunque logica, appunto. Si prenda ad esempio la sequenza del bacio sul treno tra Cary Grant e Eva Marie Saint in Intrigo internazionale: niente dovette apparire sul set più goffo e innaturale del loro abbraccio mentre rotolavano avvinghiati lungo la parete della cabina, diversamente da quanto armoniosamente credibile appare quella scena una volta trasposta sullo schermo, acquistando come trasparente valore aggiunto quello evocante un approccio sessuale.
Hitchcock ha sempre vinto, film dopo film, la sua scommessa di rendere plausibile l’inverosimile, realistico l’improbabile, logico l’incongruo. E questo perché ingannevole è la natura del suo cinema che si affida più al découpage e alla mise en scène che al soggetto o ai dialoghi.
Ma la partita di questo illusionista visionario non si gioca unicamente in relazione allo spazio. Le sue opere, proprio perché espressione di cinema puro, puntano soprattutto a beffare il tempo, sfidando le facoltà di percezione dello spettatore.
Esempio genialmente sfacciato di questa pratica è l’inganno delle 78 inquadrature e dei 52 stacchi di montaggio della scena più citata, emulata e clonata della storia del cinema, quella dell’accoltellamento nella doccia di Janet Leigh in Psycho.
Solo 45 secondi in cui il tempo sembra dilatarsi parossisticamente grazie all’illusorietà di un montaggio di scomposizioni nel quale la successione delle inquadrature gioca ad instaurare un effetto di sincope nel ritmo che raddensa l’azione in funzione dello shock visivo (una scena dove l’immagine sembra possedere e, insieme, essere posseduta dalla paura).
Per ciò che concerne altre hitchcockiane manipolazioni del tempo, vengono in mente le dilatazioni estreme nella scena dell’appuntamento nel crocevia di una pianura deserta e assolata che si trasforma da scenario naturale nel set artificiale di un pericoloso agguato aereo per Cary Grant, personaggio in perenne fuga dal suo doppio, in Intrigo internazionale; oppure la sequenza del concerto alla Royal Albert Hall (la più famosa di quelle, numerosissime, ambientate da Hitch in una sala teatrale), sul finale di L’uomo che sapeva troppo, che Truffaut ha descritto in un’intervista del 1964:
“Ci sono delle inquadrature sempre più ravvicinate dei musicisti, ci sono i coristi vestiti di bianco e i musicisti in nero, c’è il pubblico, ci sono i coristi che all’improvviso girano la pagina dello spartito tutti insieme, c’è una serie di invenzioni e di effetti plastici che permettono a Hitchcock di far durare dieci minuti una scena senza dialogo, con la musica e con un unico sentimento, l’attesa di un colpo di pistola che alla fine esploderà”.
Per costruire scene come queste, tramandate come l’intrigante esemplificazione del potere perturbante del cinema, non basta mettere in forma il proprio progetto architettato a tavolino.
È noto, del resto, come quella di Intrigo internazionale sia l’unica sceneggiatura perfetta che il maestro abbia mai girato, quella con meno buchi, salti logici, ellissi e incongruenze. Perfetta più di quelle dei suoi due capolavori, i film nei quali ogni ammiratore di Hitchcock ha intercettato qualche elemento della sua idea di cinema e della sua più intima visione della meccanica delle cose come della natura degli esseri umani: La finestra sul cortile e Vertigo- La donna che visse due volte. Il primo è, tra le tante cose, l’intricata ma cristallina rappresentazione del rapporto perverso che s’instaura tra soggetto e oggetto durante l’atto del guardare, e quindi delle ambivalenti relazioni (e pulsioni) che la dinamica del fenomeno cinema instaura, con al centro il personaggio esemplare (interpretato da James Stewart) del voyeur immobilizzato in una sedia a rotelle di cui il pubblico è chiamato a condividere il morboso desiderio di scoprire la colpevolezza del vicino che ha ridotto a pezzi la moglie.
Il secondo è una summa dei temi hitchcockiani (il doppio, il sospetto, il senso di colpa, la paura soprattutto morale di “cadere”, il conflitto tra potenza e impotenza, il fascino del male), che usa in modo straordinariamente persuasivo la forza seduttiva delle immagini per renderci partecipi della malinconica parabola nella quale precipita e si brucia l’ossessione erotica (necrofila) del suo protagonista (un evidente alter ego dell’autore, ancora una volta Stewart).
Sappiamo dunque che anche per questi film così teorici e così personali, Hitchcock ha lavorato esteticamente a smontare ogni simmetria, simbolismo, trasparenza, già in sede di sceneggiatura.
Si tratta di due opere che esaltano il piacere di fare cinema e di guardarlo, che sanno dirci tanto e che contemporaneamente dichiarano con orgoglio, come se fosse ricercata, la loro debolezza d’impianto (quante incongruenze narrative, quante ellissi ostenta Vertigo, l’unico film della storia che sa fare diventare misteriosa la scena di un uomo che bacia per la prima volta la donna desiderata tenendo in testa il cappello!).
Questo maestro del controllo, questo artista votato al perfezionismo, come all’ironia e all’anamorfosi, lasciò più volte intendere di avere un unico ideale, quello di realizzare e perfezionare la “qualità dell’imperfezione”. Lo disse a Bazin, nel corso di una conversazione che egli riportò nel 1954: “I try to achieve the quality of imperfection”.
È in questo suo puntare all’imperfezione che Hitchcock si è impegnato con estrema generosità, entrando in conflitto con lo spirito del suo tempo ma senza smettere di corteggiarlo, ad assecondare i suoi adulatori, epigoni e allievi (quelli made in France prima di altri).
Lo ha fatto costruendo i suoi film su un punto di equilibrio dove stanno in bilico, confrontandosi, la perfezione solida e poliedrica del prodotto imposta sia dal sistema hollywoodiano sia dalla logica del cinema di genere, e il margine d’imponderabile e sregolato di cui ha sempre goduto il cinema d’autore in Europa e nel resto del mondo.
Un margine di libertà nel quale Hitchcock ha cercato di rintracciato lo spazio a lui necessario per riuscire a vivere con la giusta intensità il suo misterioso, intimo rapporto con il meccanismo della visione, l’unico procedimento che probabilmente fu in grado di scacciare le sue paure più segrete.
Un rapporto privilegiato, che gli consentì il privilegio quel viaggio a cui allude Merleau-Ponty quando scrive che “colui che vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto”.
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