Da Visconti a Franco e Ciccio, così Verga è approdato al cinema, in “la Repubblica-Palermo”, 26 gennaio 2022
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica/ Palermo
Data/e:  dal 26 gennaio 2022 versione Web
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Nelle sue lettere lo chiamava beffardamente “San Cinematografo”, considerandolo un mero strumento di sostentamento per letterati in auge all’era della riproducibilità tecnica, mentre il regista era per lui nient’altro che un “riproduttore” a cui affidare, senza alcuna aspettativa artistica, la “messa in pellicola” delle proprie opere.
Che tra Giovanni Verga e il sistema cinema non vi fu mai quella corrispondenza di amorosi sensi da cui furono conquistati, tra contrasti e ripensamenti, gli altri giganti siciliani della letteratura, a cominciare da Pirandello, lo abbiamo appreso soprattutto dai documentatissimi studi di Sarah Zappulla Muscarà, secondo la quale il grande scrittore catanese, di cui in questi giorni ricorre il centenario della morte, non abbandonò mai il suo “vistoso disprezzo teorico” per l’immagine movimento, attenuandolo in parte solo quando, tra il 1909 e il 1920, si lasciò riottosamente coinvolgere nella catena produttiva delle proprie trasposizioni destinate al grande schermo.
Di contro, non c’è analisi esercitatasi sul suo cangiante e paradossale percorso di autore che non abbia rilevato l’inclinazione “cinematografica” del suo stile.
Uno stile in grado di condurre, sia prima che dopo la svolta verista, quel particolare valore di iconicità (alimentato anche dalla scoperta, indotta dall’amico Luigi Capuana, della fotografia) la cui originalità sta tutta nella disinvoltura con cui lo scrittore mescolò nelle sue opere epicità e oggettività, distillando i linguaggi per adeguarli agli strati sociali e intimi dei due mondi, il borghese e il rustico, individuati come campi d’indagine.
Era naturale che l’industria dei film riservasse un interesse costante alla folta produzione di Verga scrittore di successo. A essere vampirizzata per lo schermo fu inizialmente Cavalleria rusticana, simbolo universale di verismo e hit verghiano, che deve la sua duratura fama più al melodramma di Mascagni che all’originaria novella e all’atto unico, capolavori di essenzialità dello scrittore.
Risale al 1908 la sua prima versione in pellicola, girata in Argentina da un italiano, a cui seguirono una francese del 1910 che Verga si rifiutò di vedere paragonandosi, in una ironica lettera al sodale Marco Praga, a “un genitore che può acconsentire al matrimonio della sua creatura” ma a cui non si può chiedere “di assistere alla sua messa in letto”, e due italiane del 1916 che si fecero concorrenza tra loro. Giovanni Grasso, gran virtuoso del naturalismo recitativo, ne scrisse e interpretò un goffo sequel nel 1919 e poi una versione solo come attore nel ‘24, mentre a Palermi si deve la prima trasposizione sonora del ‘39 sceneggiata da Rosso di San Secondo.
Appartenente al popolarissimo genere dei film-opera, con una colonna sonora che mescola arie mascagnane e repertorio folklorico, è la Cavalleria rusticana datata 1953, la prima a colori, diretta dal veterano dei generi Gallone, che conferì spessore persino all’oleografico duello conclusivo dove l’Alfio di Anthony Quinn affronta come in un western, ma tra i fichi d’india, il rivale Turiddu.
Sarebbe ingiusto tralasciare la fulminante parodia del plot verghiano animata nel 1965 da Franchi e Ingrassia in un episodio di Io uccido, tu uccidi firmato da Gianni Puccini, che si conclude imprevedibilmente con Lola e Santuzza eliminate a colpi di lupara, mentre assistiamo alla fuitina liberatoria e all’outing dei due contendenti protagonisti fuggiti a Parigi.
Durante l’epoca del muto gran parte dei best seller del ciclo passionale verghiano ebbero un adattamento cinematografico. Da ricordare sono almeno Tigre reale (1916)in cui Pastrone, il Griffith italiano, dirige il geniale divo messinese Febo Mari, e Una peccatrice (1918), tratto da quel romanzo “minore”, imperniato sul cortocircuito amoroso che rovina le vite di un ambizioso studente catanese e di una volubile contessa adultera (interpretata sullo schermo dalla femme fatale Leda Gys), nel quale il grande critico Debenedetti identificò la parabola autobiografica del destino di Verga uomo e artista.
Al romanzo epistolare Storia di una capinera, straziante disamina del sacrificio claustrale di una diciannovenne, sono toccate fino a oggi soltanto versioni “scult”, dalla prima datata 1916 all’ultima del ‘94 affidata all’effettismo melassoso di Zeffirelli passando per il loffio adattamento di Righelli del ’45. Quanto a un altro capolavoro verghiano, La lupa novella e pièce, da dimenticare è l’enfatica versione di Lavia (1996), mentre è stata sottoposta di recente a un meritorio restauro la suggestiva trasposizione che Lattuada, con la sceneggiatura di Moravia, girò tra i sassi di Matera nel ’53 e quindi 10 anni prima del Vangelo pasoliniano.
Altre rimarchevoli derivazioni verghiane sono il coraggioso Mastro-don Gesualdo (1964) prodotto dalla rimpianta paleo-Rai, il Bronte: cronaca di un massacro (1972) di Vancini che piega l’assunto storicamente acritico (in sintonia col verghiano rifiuto dell’ideologia progressista) del racconto La libertà alla visione pessimistica dell’illuminismo antipatriottico di Sciascia co-sceneggiatore, L’amante di Gramigna che Lizzani elaborò nel ‘69 da quell’abbozzo di racconto d’amour fou mutato in paradigma del verismo, e il più recente (2007 e 2010) dittico di Scimeca che imprime una straniata torsione realistica e lirica alle attualizzazioni della celeberrima novella Rosso Malpelo e del romanzo spartiacque I Malavoglia.
A quest’ultimo monumento della prassi verista nel quale Verga sperimenta la propria rinnovata posizione di scrittore attraverso un metodo che Contini definì di “immedesimazione-stacco”, il cinema italiano regalò nel 1948 un capolavoro rivelatorio della grandezza e dei limiti dell’illusione neorealista, La terra trema di Visconti che, a vederlo oggi, è soprattutto un modello di autorialità profusa.
Ad accomunare libro verista e film iperrealista fu soprattutto l’ostilità con cui vennero accolte. E se a Verga non rimase che rammaricarsi amaramente per l’emorragia di lettori e per l’ostentato disinteresse critico, il regista milanese si ritrovò a fare i conti con il flop al botteghino contornato dalle bordate della maggioranza dei recensori, il cui virtuosismo ebbe come zenit gli affondi di Flaiano sulle colonne del “Mondo”.
Per lui quel film estetizzante, dove la macchina da presa “cadeva in estasi” davanti agli attori presi dal vero, sembrava “ridurre una tragedia di Sisifo a una vertenza quasi sindacale”. Bastarono pochi anni a questi due classici per scrollarsi di dosso la polvere dell’iniziale incomprensione. Anche se, qualche volta, sono proprio le ragioni di queste incomprensioni a fornirci, di certi capolavori dati per scontati, inaspettate e stimolanti chiavi di lettura.