“Cadaveri eccellenti” – Rosi e Sciascia: quell’indagine sul potere iniziata in Sicilia
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  3 aprile 2015
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Un’imprevista sovrapposizione di calendari ha costretto Maresco, e l’associazione Lumpen che ne condivide il progetto, a sostituire la proiezione de Il caso Mattei con quella di Cadaveri eccellenti, come terza tappa dell’omaggio al cinema di Francesco Rosi (stasera al Cinema De Seta, ore 21, ingresso 4 euro). Che i due film si equivalgano per importanza non è scontato affermarlo, poiché quello tratto dal romanzo, fascinosamente arrovellato e barocco, di Leonardo Sciascia subì critiche assai più appuntite rispetto alla cine-inchiesta sul complotto insabbiato dalla ragion di Stato che liquidò il presidente dell’Eni. Già Il contesto (1971), di cui Cadaveri eccellenti (1975) è la versione aderente ma non pedissequa, subì gli strali della nomenklatura politico-culturale del Pci di quegli anni, la cui arcigna ortodossia mirava a neutralizzare ogni dissidenza di chierici o di “compagni di strada” che si esercitasse a denunciare la strategia del compromesso tra il partito d’opposizione e la Dc al governo. Per la sua cupa allegoria in forma di giallo privo di soluzione che affondava il coltello in quella piaga, lo scrittore di Racalmuto subì un processo sulle colonne dell’Unità, difeso dal conterraneo, suo amico ma non sempre sodale, Renato Guttuso che, in una lettera del 1° febbraio del ’72 nello stesso quotidiano, rilevò tra l’altro la radice siciliana del romanzo: ancora una volta, la Sicilia come “punto di partenza”, come “punto di vista oggettivo dell’indiscriminata e amara critica al potere” che Il contesto agitava in medias res. E anche Rosi, nel condividere con Sciascia l’indignazione per la desertificazione ideologica e ideale allora solo agli inizi in Italia, decise di partire dalla Sicilia. Così l’incipit di Cadaveri eccellenti inquadra gli orrorifici meandri delle palermitane Catacombe dei Cappuccini, dove il procuratore Varga (figura ispirata a quella di Pietro Scaglione assassinato da Cosa Nostra) colloquia con la morte prima di trovarla come bersaglio numero uno della mattanza politico-mafiosa al centro dell’intrigo, mentre l’avvio dell’indagine è immerso nello straziato paesaggio della Valle dei Templi ad Agrigento, orizzonte simbolico dello scempio reale perpetrato dal degrado edilizio assecondato dai governanti corrotti. Nel dare forma al suo apocalittico teorema sul potere criminale, l’autore di Le mani sulla città provò dunque a decifrare realisticamente l’astratto dettato del romanzo, cercando conforto in Sciascia che, con olimpica discrezione, non volle leggere la sceneggiatura e approvò laconicamente il risultato, limitandosi a rispondere alla domanda se il suo Paese metaforico fosse l’Italia con un «sì, uno può anche pensarci, come pensa alla Sicilia quando vede un’arancia dipinta da Guttuso». Ed è proprio nel segno del pittore di Bagheria, davanti a quella rappresa fantasmagoria sull’utopia lacerata rappresentata nel suo I funerali di Palmiro Togliatti, che si compie, sul finale del film, l’assassinio del leader d’opposizione e dell’investigatore protagonista (Lino Ventura), lo zenit del piano annunciante la svolta autoritaria, con l’ambiguo sigillo di una trattativa fra maggioranza e minoranza, fra reazionari e riformisti: il “necessario” patto col diavolo che, nel ribadire la rinuncia della sinistra a essere tale, proietta “la verità non è sempre rivoluzionaria” come apodittico slogan (assente nel romanzo), parodiato dall’assioma che Gramsci coniò privo del “non”. Fu il beffardo pessimismo di quella frase conclusiva a mettere in croce Rosi, più dell’identificazione del “contesto” italiano come teatro dell’”illuminismo catastrofico” di Sciascia, e più del fatto che il film racconti l’espansione del metodo mafioso fino al cuore dello stato, quando l’asse della sanguinosa congiura si sposta da Sud (con location pure a Napoli e a Lecce) alla capitale del Palazzo. Dalle assolate latitudini del meridione catacombale (dove “solo i morti possono svelare i segreti dei vivi”) ai labirinti, altrettanto funerei, di una Roma visualizzata in esterni metafisici e nel barocchismo dei claustrofobici centri di comando della sovversione restauratrice, il cui bestiario è composto da figure emblematiche del patto che realmente unì, nel Belpaese post-sessantottino, magistratura luciferina, politica rapace, massoneria golpista, servizi segreti deviati e criminalità organizzata. Furono in molti, tra i critici engagés, che non perdonarono a Rosi, oltre che l’avere amplificato l’intransigente critica di Sciascia al compromesso storico di Moro e Berlinguer, anche l’abbandono della sperimentata formula del film-inchiesta per un caustico thriller fantapolitico, nel quale all’impressione di realtà si sovrappone una spietata espressione d’irrealtà. E così, a far vibrare profeticamente Cadaveri eccellenti, è la constatazione di poter ancora condividere lo smarrimento provato dal suo autore, rispecchiandolo nell’attualità di persistenti aberrazioni dello status quo politico e civile oggi in Italia. Durante lo scintillante dialogo con Giuseppe Tornatore, materia di un recente libro, è Rosi stesso a rievocare soddisfazioni e crucci procuratigli da quel film, che a Palermo si proiettò in prima al cinema Astoria, dove il regista aveva visionato a suo tempo i giornalieri di Salvatore Giuliano: da un lato, l’ingiusta messa all’indice subita con l’accusa di aver “tradito la sinistra” e, dall’altro lato, il David di Donatello e il successo di culto in Francia, non sufficienti tuttavia ad arginare quella censura bianca che rese l’opera invisibile per anni. A tirare le somme, su tutto prevale l’appassionata confessione che il maestro rivolge al più giovane collega: “Che gran bel mestiere è il nostro, quando ci dà l’opportunità di dire delle cose non ovvie che appartengono alla vita!”.
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