50 anni fa la “fantamafia” di Damiani che incrociò il delitto Scaglione, in la Repubblica/Cultura
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica/ Cultura - la Repubblica/Palermo (Web)
Data/e:  4 maggio 2021
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
A sembrare allusiva fu l’ultima scena, quando il personaggio del giudice Malta in odore di mafia, finito nel mirino dell’integerrimo procuratore della Repubblica interpretato da Franco Nero, se ne esce con un ironico, agghiacciante “C’è qualcosa che non va?”.
Era il 1971, e dopo il fatale 5 maggio del primo cadavere eccellente di Cosa nostra, il 5 maggio di Pietro Scaglione ammazzato, in molti credettero che questa volta a precedere la realtà anziché inseguirla non era stato il romanzo giallo di un letterato engagé, ma un mafia-movie con un titolo che richiamava quello dei poliziotteschi in voga, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica.
Il regista Damiano Damiani, un friulano già da allora innamorato della Sicilia come metafora, se da un lato provò a smentire l’identificazione Malta-Scaglione, dall’altro finì con l’ammettere che quel suo finale “fantapolitico” veniva direttamente “dall’aria che si respirava in quei giorni”.
La dice lunga il fatto che il film, uscito nelle sale il 26 marzo, decollò al botteghino solo a partire dalla settimana successiva al clamoroso omicidio di via dei Cipressi, diventando col tempo uno dei titoli italiani più venduti all’estero.
In verità, Damiani fu il primo a sorprendersi del successo ottenuto dal suo “thriller sociale” girato tra Palermo e Vicari, il cui soggetto si basava, a detta degli autori, sulle indiscrezioni riportate dalla stampa relative agli atti della prima Commissione antimafia, a quel tempo ancora in fieri.
A trasformare Confessione in un j’accuse provvide soprattutto il diffondersi di alcuni sospetti (politicamente strumentalizzati) su Scaglione colluso con Cosa nostra e, in particolare, sulla sua responsabilità nella fuga e nella latitanza della “primula rossa di Corleone” Luciano Liggio, e questo sebbene il CSM e l’autorità giudiziaria avessero già smentito tali insinuazioni.
Apparve come una larvata allusione a quei sospetti il fatto che il film raccontasse di un commissario di polizia che fa evadere dal manicomio un killer di mafia spingendolo a vendicarsi di un boss diventato imprendibile grazie alle sue protezioni eccellenti. Comunque era quella l’aria che tirava allora in Sicilia, e il regista di Il giorno della civetta la respirava a pieni polmoni.
Chiunque voglia rendersi conto del contesto che accolse il film, non ha che da ripercorrere l’impressionante diario di quei mefitici giorni pubblicato nel 1972 in “De Mauro-Una cronaca palermitana” da una illuminata giornalista in trincea come Giuliana Saladino, dove si leggono sintesi come queste: “Maggio: il procuratore capo Scaglione è ucciso col suo autista, e un venditore ambulante epilettico e analfabeta devia le indagini per 60 giorni tra perizie, analisi e guanto di paraffina, finché non viene scarcerato. All’opinione pubblica sbigottita il ministero degli interni offre spettacolari trasferimenti nelle isole minori di boss in catene: tv e giornali hanno di che colmare il silenzio sugli inafferrabili assassini di Scaglione”. Dunque, mentre si consumavano le prime conseguenze dell’intrigo politico-mafioso che aveva Palermo come capitale, alla fantapolitica spettava il compito di attizzare interrogativi e prospettare scenari.
A saperlo fare assumendosi oneri e onori, lungo il versante pop del cinema civile, erano solidi autori “di genere” come Damiani, talmente bravi da risultare convincenti persino quando sbagliavano il bersaglio. Fu grazie a Confessione, un low budget incalzante e meditato come un noir della nuova Hollywood, che il regista del Giorno della civetta si guadagnò l’etichetta di cineasta politico (in Francia, qualche critico lo paragonò a Costa-Gavras).
E si prese pure la rivincita su coloro che gli avevano detto di “no” criticando progetto e sceneggiatura, come Anthony Quinn e Ben Gazzara, contattati per il ruolo del commissario poi affidato a Martin Balsam, che come loro è stato un fuoriclasse dell’Actors Studio.
Davvero fu difficile convincere i produttori a investire sulla storia di un commissario giustiziere che ammazza un boss imprendibile finendo a sua volta accoltellato per vendetta in carcere, dove a malincuore lo ha condannato un procuratore della Repubblica intenzionato a perseguire un giudice burattinaio in combutta con Cosa nostra. Per questo suo film così sofferto, a seguire la scena clou di Marilù Tolo testimone scomoda che finisce sepolta in un pilastro della nuova Palermo cementificata dal “sacco”, Damiani girò due finali, facendo vincere in uno la mafia e nell’altro il magistrato.
A suggerirgli una terza conclusione, dove a perdere sembra essere la giustizia perché s’insinua che il colpevole eccellente potrebbe farla franca, fu il montatore Antonio Siciliano. Forse è anche per merito di queste soluzioni da “parodia” sciasciana che il film regge a 50 anni di distanza.
Nel frattempo, Scaglione è entrato legittimamente nella galleria dei martiri dell’antimafia, mentre sul mistero della sua barbara esecuzione assieme al brigadiere Lo Russo ancora oggi si sondano piste politico-mafiose, e qualche storico macina ipotesi da strategia della tensione.
Dal canto suo, Damiani non mollò la presa, e nel 1975 girò Perché si uccide un magistrato, un altro giallo palermitano su un regista che scopre di aver fatto un buco nell’acqua col suo film-denuncia sulle relazioni mafiose di un procuratore finito ammazzato non da Cosa nostra ma dall’amante della moglie. All’uscita venne letto, non senza polemiche, come un beffardo mea culpa imbastito da uno dei campioni del mafia-movie “civile”.
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