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Una Lolita in Sicilia

Una Lolita in Sicilia

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  13 febbraio 2014

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

A vederla in quel film, quattordicenne all’esordio, sembra che Francesca Rivelli, in arte Ornella Muti, sia finita davanti alla macchina da presa a «fissare una volta e per tutte il periglioso sortilegio delle ninfette », per dirla con l’Humbert Humbert di Lolita.

Ma non è solo la sua impressionante, precoce avvenenza a rendere accettabile la visione di questo dimenticato film del 1970, oggi  finalmente disponibile in Dvd, restaurato per la collana Cinekult della CG Video. Ingiustamente liquidato come un feuilletton a sfondo mafioso,  La moglie più bella  può ancora sembrarci un  j’accuse “dalla parte delle donne” in forma di solido, tradizionale racconto popolare. Così lo aveva pensato  Damiano Damiani, regista  engagé ma troppo poco intellettuale per essere apprezzato pienamente  dal conformismo critico di quegli anni.
Tutti conoscono il fattaccio da cui quel soggetto trasse spunto: il calvario della 17enne Franca Viola che diede scandalo nella sua Alcamo rifiutando il matrimonio “riparatore” col proprio violentatore, tale Filippo Melodia, giovane nipote del capomafia di zona “don” Vincenzo Rimi. Una storia di turpe primitivismo siciliano simile a quelle di cui già allora si rideva a denti stretti grazie agli affondi di Pietro Germi, ma che alla povera protagonista di questa cronaca costò una serie di soprusi, umiliazioni e minacce.
La coraggiosa ribellione  protofemminista di Franca culminò, nel 1966, in un processo che la vide vittoriosa, liberata dal persecutore finito in galera assieme ai complici. Una sentenza controcorrente  che si deve all’agguerrito avvocato di parte civile, Ludovico Corrao (che Dio l’abbia in gloria), senatore illuminato e demiurgo generoso di quella Gibellina trasformata dopo il terremoto in città d’arte.
È stata dunque una ispirazione civilissima a partorire questo avvincente melò d’impianto realista, sorretto dalle sonorità da western mediterraneo dovute a Morricone e dalla pastosa fotografia autunnale dell’operatore Franco Di Giacomo. Per il friulano Damiani quella fu un’ occasione succulenta per proseguire l’indagine in terra di Sicilia già avviata con il polemico Giorno della civetta tratto da Sciascia.
Che La moglie più bella ebbe una lavorazione travagliata lo confermano i ricordi della troupe. Tutto ruotò attorno alla magnetica presenza dell’adolescente Francesca detta Ornella, scelta al posto della sorella maggiore Claudia Rivelli, nota interprete di fotoromanzi, dall’aiuto regista Mino Giarda che sostiene di averle attribuito il celebre soprannome per aggirare, con uno stratagemma, le complicazioni burocratiche dei permessi di lavoro ai minori: Muti proverrebbe dal cognome del famoso direttore d’orchestra Riccardo e Ornella dal nome dell’arcinota cantante Vanoni.
Damiani dovette fronteggiare le perplessità dei produttori rispetto al delicato ruolo di Franca affidato a una debuttante minorenne. Di conseguenza, la fatidica scena dello stupro dopo il rapimento dribbla ogni censura concentrandosi sul prima e dopo l’atto, con un catartico primo piano della ragazza in preda alla vergogna.
La Muti si calò con spontaneità nel personaggio  della sua sacrificata, guidata dal burbero regista che non mancò di spronarla sul set con rimproveri, strattoni e persino frustandole a sangue le gambe per ottenere il pianto disperato utile a un finale che, va detto, è tutt’altro che consolatorio (dopo quell’esperienza sadica, regista e attrice non si frequentarono più).
Ma i veri guai provennero dall’altro interprete del film, il bello e dannato Alessio Orano, allora venticinquenne in auge e oggi meteora da “Stracult”, impegnato a corteggiare la partner ninfetta (che cinque anni dopo diventò sua moglie) difendendola dalla concupiscenza dei giovani comprimari.
E così i responsabili della produzione, insieme ai ritardi dovuti al clima avverso durante le riprese (pioveva sempre sulle location di Santa Ninfa, Gibellina, Partinico e Cinisi) e alle solite ingerenze minacciose dei mafiosetti locali per il controllo delle comparse, dovettero affrontare il caratterino del protagonista Orano che, anche fuori scena, si conformò a quello del suo personaggio, lo spocchioso caporione Vito Juvara ispirato al Melodia.
A incarnare i compari coinvolti nella fatidica “fuitina” furono scelti, tra gli altri, Salvatore Vaccaro (detto Salvino), in seguito diventato gestore dello Speak Easy, discoteca che per qualche tempo divenne il crocevia di una certa Palermo mondana, e Sandro Arlotta, un James Dean somigliante a Gabriel Garko, originario della provincia messinese ma residente a Palermo, generico d’occasione che si faceva chiamare Sartana quando indossava, con l’esuberanza di un libertino, pelliccia e cappello a tese larghe mentre portava al guinzaglio due alani. Un bel ragazzo destinato a morire trentacinquenne in un incidente stradale anni dopo le sue rade esperienze cinematografiche con Damiani (è presente pure in Perché si uccide un magistrato).
Anche se Orano, in un’intervista contenuta negli extra del Dvd, afferma di non ricordare, testimoni attendibili giurano che fu proprio Arlotta, durante i giorni delle riprese, ad assestargli un pugno in faccia nel corso di una rissa (naturalmente scaturita dalla rivalità dei due che si contendevano la bella Ornella) lungo la scalinata di un locale palermitano.
Non bastò una bistecca cruda applicata sulla vasta ecchimosi a sgonfiare i connotati dell’attore, il cui infortunio provocò l’ira di Damiani. Per due settimane il calendario di lavorazione subì stravolgimenti, e quando Orano tornò sul set finalmente senza tumefazioni, il regista, animato da volontà punitiva, lo costrinse a ripetere per 17 volte una scena particolarmente tosta.
Tanta durezza fu premiata: assai efficace risulta la resa della coppia protagonista così come quella di Tano Cimarosa, nel ruolo del padre macerato, e dell’ex urlatore Joe Sentieri che fa un killer ammalato coinvolto da Juvara in un omicidio per vendetta.
Fu grazie al polso fermo di Damiani, insomma, che la difficile impresa andò in porto.
Il risultato è un film che invecchia bene, tagliente e senza fronzoli, ancorato a una concezione tradizionale di racconto che è la caratteristica del popolarissimo filone dei mafia movie intimisti di cui il regista è caposcuola, da Confessione di un commissario di Polizia a Un uomo in ginocchio, da La piovra  a Pizza connection.
Damiani, scomparso un anno fa, andava fiero del suo La moglie più bella. Fiero di aver spezzato una lancia a favore della causa femminile valorizzando sia la figura di Franca Viola («Troppo poco ricordata dalla cultura siciliana», dichiarò una volta a Sebastiano Gesù) sia l’appeal di Ornella Muti, lolita di talento trasformatasi in duraturo sex-symbol. Del resto, riuscire a mescolare l’impegno civile al glamour, l’entertainment alla sociologia, il sacro al profano è uno di quei «perigliosi sortilegi» che solo un cinema-cinema come quello di Damiani sapeva mettere a frutto.

 

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