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Quando Borgese criticò il cinema sonoro

Quando Borgese criticò il cinema sonoro

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  17 maggio 2015

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

«Il cinematografo ha un passato, ha un avvenire, ma non ha un presente». Così esordisce, sul Corriere della Sera, una delle tante corrispondenze d’oltreoceano di un inviato d’eccezione: Giuseppe Antonio Borgese, poliedrico scrittore di Polizzi Generosa, a 54 anni esiliato volontario all’università californiana di Berkeley per non aderire al fascismo. Lo scritto del 1932, intitolato Cinematografo parlante, non si trova nell’antologia di Atlante americano, ed è raramente citato quando si affronta il tema dei rapporti tra i letterati italiani e la settima arte. È una delle perle critiche dell’ormai introvabile raccolta, La città assoluta, pubblicata da Mondadori nel 1962 (a dieci anni dalla morte dell’autore).

Instancabile esploratore di connessioni culturali, Borgese ci ha abituato a certi suoi voli pindarici, come quello che annodava il Fedone platonico e le insegne pubblicitarie, a simboleggiare la forza della lingua nuova («magra, sollecita, pinnacolare» che egli decise di fare propria, la lingua inglese che da quella americana fu ricondotta al proprio “spirito radicale”. Ma fu proprio in quella lingua, una volta fattasi materia sonora sul grande schermo, che l’autore di Rubé individuò la rischiosa deriva in cui il cinema sembrava rinunciare ai propri “ideali”, riducendosi a eterno adolescente “parlante” dopo la felice infanzia del muto, condannato a un futuro di “fotografico doppio” del teatro. Non furono pochi gli scrittori italiani che, da Borgese in poi, si esercitarono in amare considerazioni riguardo all’involuzione espressiva provocata dall’invenzione del sonoro: Pirandello nel suo celebre intervento del novembre 1939 sulla rivista “Cinema” e, prima di lui, Luigi Bartolini con lo sprezzante affondo “Contro il cinema” ( ospitato nel ’35 da II selvaggio di Maccari), fino alle recenti torsioni di Sciascia ( quando rimpiange l’impareggiabile vis erotica delle vamp del muto), di Ceronetti o di Moravia («il cinema è un linguaggio d’immagini, punto e basta»). In quel suo articolo americano, però, Borgese si sforzò di non essere così tranchant e, dopo aver dedicato alcune annotazioni (tra le più acute mai scritte) alla maschera cinica di Chaplin, che nel muto trovò la dimensione ideale per dare corpo alla sua magica lotta» tra il minimo e l’immenso, tra l’istinto e il destino», egli non poté far altro che augurare al talkie cinematografico di farsi «moltiplicatore di scrittura», auspicando (ironicamente?) per Hollywood un destino da «metropoli letteraria».

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