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Mafia in tv : un cliché vincente

Mafia in tv : un cliché vincente

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  8 ottobre 2016

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Che la fiction, nei film come nelle serie Tv, si nutra di stereotipi è cosa nota. Il problema è che, oggi più che mai, tocca allo spettatore il compito di riconoscerli e, quando è il caso, di neutralizzarli. Perché se è vero che ormai siamo immersi, dentro e fuori gli schermi della nostra vita, nella foltissima giungla della narrazione (di tutto e del suo contrario), è pur vero che non possiamo più rifiutarci d’interagire con il moloch mediatico e la sua lingua.

Se parliamo, ad esempio, di come i generi televisivi, e in particolare la fiction, hanno affrontato la narrazione della realtà e del mito della mafia, il dedalo si fa evidente.

C’è un recentissimo libro, e non è il primo, che prova a venirci in soccorso, mettendo in prospettiva l’argomento: “La mafia e i suoi stereotipi televisivi”, studio del giornalista e narratore catanese Cirino Cristaldi, pubblicato dalle edizioni Bonfirrato di Enna. Esposta sulla copertina del saggio si nota la sacrosanta esortazione di Paolo Borsellino, “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”, che attualmente sembra sia seguita soprattutto dai fin troppo prolifici autori di fiction televisive, quel genere che in Italia funziona comela variante, spesso smandrappata, delle Tv series made in USA.

La questione su cui Cristaldi indaga è la stessa proposta da altri titoli sul tema (uno per tutti: “Mediamafia” di Andrea Meccia, edita dalla trapanese Di Girolamo), ovvero quella che riguarda il giusto metodo per separare il grano dal loglio, imparando a difendersi dall’effetto corrosivo degli stereotipi che il “mafia Tv- movie” propone, in quanto prodotto sostanzialmente consolatorio e, di recente, votato al “vintage”, capace di mescolare rozzamente il fotoromanzo al cinema civile (o a quel che ne resta). E non si tratta, nel caso specifico, di una questione esclusivamente estetica: riuscire ad affinare la nostra percezione di spettatori riguardo alla qualità di questa “mafia da prime time” (dalla Piovra fino all’odierna Catturandi) significa pure mettere sotto controllo le conseguenze di quel contagio emozionale che è l’elemento per il quale, spesso e volentieri, la Tv come il buon vecchio cinema “di mafia” vengono messi alla gogna.

Non v’è dubbio, infatti, che sia il Tony Soprano dei Sopranos sia il Tonio Fortebracci di L’onore e il rispetto sono entrambi eroi negativi e modelli ambigui che si prestano ad attivare processi d’isomorfismo emotivo nei più sprovveduti tra i telespettatori. Ma è altrettanto palese che, mentre nel caso della fiction italiana con l’ineffabile Gabriel Garko è lo stereotipo a farsi un veicolo di kitsch profuso e di una concezione fatalista quanto pacificatoria della cultura mafiosa, in quello della serie con il compianto Gandolfini è invece la sofisticata tessitura della sceneggiatura a metterci criticamente in guardia dal rischio di una identificazione tra noi e il sanguinario ma domestico boss mafioso in terapia psicoanalitica.

Del resto, la faccenda della sympathy for the devil, ovvero del pericolo della sovrapposizione psicologica riguardante lo spettatore e il personaggio negativo, risale agli albori del cinema, così come quella del più o meno virtuoso utilizzo degli stereotipi in ogni messa in forma delle poetiche e delle politiche della Violenza (da Griffith fino a Quentin Tarantino). Ma non appena proviamo a entrare nel crogiolo della mafia e delle sue rappresentazioni, ecco che si moltiplicano i nodi etico-estetici da sciogliere, anche per via di quel disagio civile che Sciascia motivò, in occasione dell’uscita del Siciliano di Cimino, con la sentenza: “Non si può attingere al sogno quando c’è ancora memoria di una realtà che si è voluta mistificare”.

Ed è su questa mistificazione che si esercita il libro di Cristaldi, cominciando a sciorinare, nel suo primo capitolo, la norma di tutti quei luoghi comuni che, nella realtà come nella finzione, hanno dato ossigeno all’ormai declinante mito della Sicilia metafora di mafia.

Arretratezza versus Modernità, influenze retoriche (e non solo) della “famigghia”, nostalgia per i vecchi codici d’onore sfregiati da quelli nuovi, l’arcaico “farsi i fatti propri” a braccetto dell’andante “a quale banda appartieni”, sono tutti temi che, in queste pagine, alimentano riflessioni e sondaggi per una mitografia il cui oggetto sono pure i gadget di un merchandising turistico duro a morire: il magnete mafioso, la T-shirt “non vedo, non parlo, non sento”, i videogiochi sul Padrino & Co.

Di questo remunerativo brand si è fatta specchio (nemmeno tanto deformato) quel che oggi, in Italia,  si chiama fiction e che un tempo si chiamava sceneggiato.

Al principio del “fenomeno mafia in Tv” troviamo dunque “La mano sugli occhi” del 1979, un Camilleri diretto da Pino Passalacqua che, per la verità, fu preceduto dalla mini-serie di Enzo Muzii “Alle origini della mafia”, datata 1976, e che il pur documentato saggio di Cristaldi dimentica di citare. Poi venne il tempo della “Piovra”, la decennale saga nazional-popolare (1984-2001) che, mescolando la retorica del pamphlet con quella del feuilleton, seppe dare conto delle metamorfosi di Cosa nostra mentre si andava consolidando, su un mefitico terreno comune, il  patto con quella parte dello Stato che volle farsi politicamente ed economicamente complice. Le problematiche avventure del commissario Cattani divisero allora il pubblico dalla critica, che non esitò a definirlo un “polpettone”, ma l’impresa finì per imporsi come spartiacque del genere grazie all’apporto di fuoriclasse del calibro di Damiani e Vancini, insieme a De Concini, Badalucco, Rulli e Petraglia.

Su quella linea, mentre era in corso la rivalutazione della serie B degli anni Settanta, arrivò il ciclo simil-poliziottesco di Ultimo (1998-2013), buono a generare innumerevoli avatar e a farsi portatore di un manicheismo di marca civile che è stato anch’esso produttore di cliché, però nel frattempo superato, per forma e contenuto, dalle chiaroscurate storie delle serie americane poliziesche di argomento sociale (come la pietra miliare The Wire).

Nell’affrontare il tema dei mafia-biopic, sugli eroi dello stato mandati al macello così come sui capi dei capi dall’infanzia difficile, Cristaldi non esita a rilevare gli ambigui effetti etici ed estetici che l’assunto e lo stile di queste fiction hanno determinato.

Ma la verità è che ormai tali prodotti ad alta tenuta di auditel, come le ordinarie e apprezzatissime Squadra antimafia o Baciamo le mani, Palermo –New York, non riescono più a incidere né sull’immaginario né tantomeno sul giudizio critico di chi le guarda.

Parliamo di modelli d’intrattenimento moscio, dove ogni stereotipo non fa che riprodurne altri, puntando esclusivamente a un coinvolgimento emozionale epidermico quando non superficiale, alla lunga generatore di routine e di noia. Perché se c’è una conseguenza negativa provocata dall’uso consolatorio e filisteo dello stereotipo, questa è soprattutto la neutralizzazione del potere seduttivo del racconto. Di quel “piacere del testo” attraverso il quale, secondo Barthes, ogni spettatore si diverte da sempre a giocare con l’autore. E viceversa.

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