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L’antimafia sullo schermo alla prova degli stereotipi

L’antimafia sullo schermo alla prova degli stereotipi

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  21 maggio 2016

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Il titolo, Era d’estate, echeggia quelli crepuscolari di Ingmar Bergman, forse in omaggio a Giovanni Falcone che, com’è noto, fu un grande estimatore del maestro svedese.

Ma nonostante le ambizioni intimiste, i richiami cinefili e un certo sforzo  antiretorico, l’ultimo film di Fiorella Infascelli coprodotto da Rai Cinema, nel raccontarci la familiare “vacanza coatta” di Falcone e Borsellino all’isola Asinara (quando i due, nell’agosto del 1985, architettavano l’impianto dell’imminente Maxiprocesso spartiacque), non sfugge a quei difetti di scipitezza e convenzionalità tipici delle fiction modello “antimafia da prima serata”.Per intenderci, quelle che da lustri imperversano sulle nostrane reti generaliste specialmente in occasione di ricorrenze cruciali.

E così, gli imminenti e assai sentiti anniversari delle stragi di Capaci e di via d’Amelio motiveranno anche quest’anno il marketing di teleacquerelli  appartenenti a ciò che resta del cinema civile che fu, la via italiana alla tv series engagé percorrendo la quale dovrebbe diffondersi, tra la pubblica opinione dei teledipendenti, “un immaginario che ha dentro di sé la legalità”, come ha vibratamente auspicato il neo-presidente della Rai Antonio Campo Dell’Orto nel commentare l’avvento dell’imminente biopic della rete ammiraglia, Boris Giuliano, un poliziotto a Palermo, dedicato a uno dei più acuti e coraggiosi investigatori dell’antimafia dura e pura, ammazzato nel 1979. La miniserie, pronta a bissare l’evento virtuoso e struggente di Felicia Impastato (che col suo recentissimo 27 per cento di share ha smentito i gufanti detrattori della fiction a misura di servizio pubblico), firmata da Ricky Tognazzi, consumato veterano dello sfruttato ma ancora fruttuosissimo filone.

Parliamo di uno che, nel 2007, le icone di Falcone e Borsellino, insieme alle macerie della strage di Capaci, arrivò persino a incastonarle tra quelle dei fratelli Abbagnale, della Montalcini e del tornatoriano Totò Cascio dirigendo lo stucchevole spot della Nuova 500 Fiat voluto da Sergio Marchionne, scritto da Massimo Gramellini e musicato da Giovanni Allevi. Di uno a cui si deve pure la regia della miniserie di mafia, sotto l’egida dell’americana HBO, che vanta uno dei cast peggio assortiti di sempre, I giudici (1999), dove Andy Luotto fa Borsellino, Falcone è incarnato da Chazz Palminteri ed entrambi vanno in overacting. Le premesse sono queste: fate voi… Chissà poi che cosa ci riserveranno le attesissime sei puntate (attualmente in lavorazione) della versione Rai Uno di La mafia uccide solo d’estate, derivate dall’omonimo, esilissimo, stemperato prototipo made in Pif.

Insomma, è con questi prodotti (sempre e comunque edificanti e linearmente commemorativi) che l’armata generalista intende contrastare, sul campo delle fiction “civili”, l’offensiva delle nuove serie marchiate Sky, come quella di Gomorra ispirata al bestseller di Saviano, la cui seconda stagione in corso non solo registra audience da record (1 milione e 300mila spettatori per la prima puntata ) e un boom di tweet tra giovani appassionati, ma si diffonde pure come un cult virale sui social network entrando, con l’hashtag #Gomorra2, nelle prime posizioni della classifica dei Trending Topic mondiali.

Tutto questo conferisce un innovativo fascino mediatico a una serie che, elaborando codici di vecchi generi per crearne di nuovi, sceglie di farsi radicalmente noir esibendo come unica prospettiva narrativa quella criminale (come del resto ha fatto il modello di tutte le Mafia Series, I Soprano, del formidabile showrunner David Chase).

Siamo dunque di fronte, dal punto di vista contenutistico e formale, a due modelli opposti di fiction: quello schematico del western d’antan o di certi feuilleton educativi dove va rappresentata con semplicità emotiva la lotta del bene contro il male, e quello problematico che esclude qualunque agiografia o manicheismo nell’offrire ritualmente allo spettatore più emancipato il suo stimolante “Benvenuti all’inferno”.

E non v’è dubbio quale dei due modelli abbia imposto da anni un rinnovato stile narrativo e visivo, metalinguistico e autocosciente. Sappiamo bene che il Quality Telefilm è ritenuto, a torto o a ragione, l’equivalente contemporaneo del cinema d’autore. E abbiamo imparato pure che l’edulcorata convenzionalità consolatoria della crime fiction istituzionale e generalista (modello Rai o Mediaset) è un difetto riscontrabile nei buoni vecchi film di mafia destinati al grande schermo oggi mitizzato.

In un utile saggio del 2003, “La mafia nel cinema siciliano”, il compianto critico palermitano Vittorio Albano analizzò le differenze tra le pellicole degli anni Sessanta e Settanta che, belle o brutte che fossero, prendevano posizione e fornivano una illuminante controinformazione sulla nebulosa mafiosa in fieri, e quelle dagli anni Novanta in poi, concentrate invece a conferire tassi elevati (e spesso ridicoli) di artificiosità arrancando appresso alla cronaca della guerra mafiosa (dei suoi eroi come dei suoi villain): la cronaca dolorosamente ambigua da “È Stato la mafia” che, nella neotelevisione, sapeva ormai  raccontarsi assai efficacemente attraverso format diversi dalla fiction.

Escludendo giustamente le note eccellenze autorali, Albano rilevò in entrambe le epoche cinematografiche lo stesso “ricorso a personaggi stereotipati e a luoghi comuni (soprattutto nei prodotti televisivi), con l’aggravante dell’impiego reiterato e insistito degli stessi attori: col risultato che le stesse facce, in ruoli sempre meno attendibili, finiscono con l’apparire solo le maschere di un teatrino che rischia di ripetersi chissà per quanto ancora”.

Utile a confermare l’assunto di questa profezia critica è sufficiente compiere un rapido excursus sulle fiction a   rimorchio degli avvenimenti e dei personaggi di quella guerra voluta da Cosa Nostra & Co. che ebbe come spartiacque i  fatidici attentati del 1992. Una volta esauritosi il modello  Piovra (pregevole telesaga che, recuperando lo stile e gli stilemi di certo glorioso cinema di genere all’italiana, seppe trasformare in thriller i più incandescenti materiali della dietrologia da pamphlet ), nello stesso 2001 in cui fu programmata la sua decima e ultima edizione, venne inaugurata la filiera dei biopic che celebravano allo stesso modo eroi positivi e belve sanguinarie. In quell’anno  Brancaccio, diretto dallo stesso Gianfranco Albano di Felicia Impastato e con lo stesso Beppe Fiorello di Era d’estate, trasformava in epica elementare e scontata la parabola di Padre Puglisi e del suo martirio, mentre L’Attentatuni cercava di rinnovare i fasti del poliziottesco anni Settanta ricostruendo l’intrigo delle fatidiche stragi e presentando per la prima volta nella Tv pubblica la figura del nuovo eroe dell’antimafia d’appendice, quel Capitano Ultimo cacciatore di boss realmente operante, interpretato dal divo Raoul Bova, sul quale Mediaset ha imperniato, dal 1998 al 2013, ben quattro miniserie che ogni volta hanno provocato strepitosi picchi d’auditel. Seguì l’interminabile galleria, destinata al mercato generalista, di convenzionali e rigidissime biografie teleromanzate, con sceneggiature degne di un fotoromanzo Lancio, tutte ciclicamente dedicate a Falcone, Borsellino e a qualche giornalista coraggioso o parroco di frontiera (oltre il beato Puglisi, anche Don Diana ucciso dalla camorra nel 1994). Quella che, utilizzando tutti i cliché possibili, ripercorre sommariamente la vicenda del Generale Dalla Chiesa (programmata nel 2007 su Canale 5) ha fatto rimpiangere persino la didascalica ricostruzione (da museo delle cere) di Cento giorni a Palermo di Ferrara.

In questo grigio panorama di medietà profusa, mentre negli Usa si concepivano e realizzavano Tv Series memorabili come Boardwalk Empire The Wire (un antenato di Gomorra ambientato nei conflittuali gironi di Baltimora metropoli di frontiera), si distinse Il capo dei capi, una fiction Mediaset del 2007 che venne violentemente attaccata da destra e da sinistra per il solo fatto di aver osato conferire protagonismo e spessore psicologico a Totò Riina. Colui che l’aveva scritta (quel Claudio Fava il cui impegno  antimafia è assodato) provò a difendersi così: “Fingere che il Male non abbia capacità seduttive, vuol dire fingere di non capire come abbia funzionato la storia dell’uomo”. Una tesi convincente che vale per la narrazione e l’analisi di tutti i fenomeni e i conflitti criminali. Perché non dovrebbe valere per le fiction su Cosa Nostra? Al di là di ogni duello tra palinsesti e di ogni rivoluzione (in atto e in divenire) dell’immaginario mediatico,  resta comunque un dubbio per le nostre coscienze di spettatori esausti: ma il mafia movie su grande o piccolo schermo serve ancora a liberare la testa?

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