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L’addio a Francesco Rosi – Il romanzo della Sicilia nei film-denuncia del cacciatore di utopie

L’addio a Francesco Rosi – Il romanzo della Sicilia nei film-denuncia del cacciatore di utopie

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  11 gennaio 2015

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Ora che se n’è andato, con la discrezione che era una delle caratteristiche della sua particolare intransigenza, non ci resta che continuare a sondare la materia ancora incandescente dei suoi film.

Come sappiamo, Francesco Rosi è stato un cineasta di razza, oltre che un grande elaboratore di realtà.

Della realtà di una cronaca che col tempo si è fatta storia, il suo cinema è stato un distillatoio efficacissimo, che ne ha fatto emergere gli aspetti più spinosi.

Il suo primo confronto con paesaggi e figure di questa storia intrecciata col vissuto, Rosi l’ha avuto proprio in Sicilia. Cominciò a nutrirsi della contrastante bellezza  di quel territorio percorrendo, da giovanissimo, la strada che da Catania, a bordo di una 1500, lo conduceva giornalmente ad Aci Trezza, sul disagiato set viscontiano di quella Terra trema che lo vide, a fianco di Zeffirelli, regista assistente.

Era il 1948 e i cineasti inseguivano ognuno a proprio modo l’utopia della realtà, essenza del dogma neorealista, facendo a meno di tutto: in quel film non c’erano dolly, né gru, né elettricisti, né sceneggiatura per dare forma nuova alla verghiana storia dei vinti.

Per Rosi fu un’iniziazione illuminante che segnò indelebilmente la sua poetica futura, forgiando la sostanza del suo cinema problematico, votato a quel particolare tipo di realismo che per lui significava svelare la causalità complessa dei rapporti sociali nel denunciare  idee  e ideologie della classe dominante, rifiutando qualunque tentazione d’astrazione.

Rosi comprese che, per raccontare il mistero della realtà italiana non bastava imbastire una pur sacrosanta polemica politica agitando la necessità della controinformazione: bisognava trasfigurarli epicamente, quei fatti, per farne un’esperienza estetica utile a scuotere la coscienza, a suscitare un cinema capace di attivare il giudizio dello spettatore rivelando la sostanza di cui la realtà è fatta.

E così, un capolavoro come Salvatore Giuliano (1962), girato nei luoghi (Montelepre, Castelvetrano) dove si consumò la parabola di quel bandito e delle sue ambigue imprese, al di là di quello che non poté svelare sul primo affaire di Stato del nostrano dopoguerra a Portella della Ginestra, rimane un insuperato affresco antropologico, capace di dare rilievo (anche poetico) a quel teatro di perversi e occultati nessi tra mafia e politica che ha segnato la vicenda della Sicilia e dell’intero nostro paese.

Dopo il potente e paradigmatico je accuse di Mani sulla città (1963), affondo critico alla propria Napoli depredata dal sacco democristiano, e dopo tutti gli incisivi tentativi di dare nuova “espansione caleidoscopica” (la definizione è del critico Michel Ciment,) al suo cinema politico e umanista (memorabile è il dolente affondo antimilitarista di Uomini contro dal romanzo sulla Grande Guerra di Lussu), Rosi tornò in Sicilia per Il caso Mattei.

Quella sua indagine cinematografica, mossa da una civile indignazione, contribuì a squarciare il velo di omertà e di depistaggi sull’omicidio mascherato da incidente dell’imprenditore, su uno dei tanti misteri italiani che hanno visto la ragione di stato coniugarsi alla ragione criminale, in quel caso macinando, tra le vittime sacrificali, il giornalista palermitano Mauro De Mauro, che il regista interpellò prima che questi fosse rapito dalla mafia.

In quel film furono Gela, la visita di Mattei a Gagliano Castelferrato, e poi l’aereoporto di Catania, gli scenari siciliani individuati come l’ ultima fatale tappa del cul de sac in cui si cacciò presidente dell’Eni. Come furono location emblematiche, per la vicenda criminale di Lucky Luciano (al quale Rosi dedicò nel 1973 un suo vibrante cine-saggio), il cimitero di Lercara Friddi e l’Hotel delle Palme di Palermo.

E c’è poi la lunga, indimenticabile sequenza ambientata nelle palermitane Catacombe dei Cappuccini, diventate labirinto di meditazione e presagio di morte per il vecchio giudice interpretato da Charles Vanel nell’incipit di Cadaveri eccellenti (1976), unico film che sancì l’affinità elettiva tra Rosi e Leonardo Sciascia, suo naturale intellettuale di riferimento.  Il contesto, il romanzo  più controverso dello scrittore di Racalmuto, trovò sullo schermo un’adeguata trasposizione in un film che ha fatto scuola per la sua caratura allegorica e le sue calibrate astrazioni, una fonte letteraria ideale per un  “cineasta costruttore”, deciso “a mettere in movimento le cose e attratto dalla morte e dalla scomparsa” (ancora Ciment).

Con la stessa indignazione di sempre, ma con una consapevolezza malinconicamente maturata negli anni, Rosi tornò in Sicilia per Dimenticare Palermo (1990), un disincantato teorema in forma di thriller, “una storia di uomini e di pietre, di rovine inimmaginabili nel vecchio centro storico della città”. Quelle macerie lo turbarono e non lo nascose: “Quando torno a Palermo, mi sento intristito dal suo degrado”.  Insomma, sembra davvero che Rosi abbia condiviso con  lo sceneggiatore Ugo Pirro, l’assioma che “tutto ciò che accade in Sicilia possiede una sorta di universalità che lo caratterizza”.

E di fronte alla realtà di un mondo sempre più torbido e indecifrabile, mentre assisteva all’involuzione culturale, politica, etica del proprio Paese, la cui classe politica si dimostrava incapace di sciogliere i nodi su cui egli aveva contribuito a puntare i riflettori “col pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”, Rosi cominciò a farsi privo di sguardo.

Con gli occhi “spalancatamente chiusi” si rivolse al passato, ripercorrendo la storia e soprattutto la geografia dei suoi film, nel frattempo trasformatisi in fonte d’ispirazione stilistica, e non solo in Italia.  Tirando le somme sulla sua carriera esemplare, sarebbe però ingiusto limitarsi a ricordarlo come il pioniere di quello che oggi si chiama mockumentary (Il caso Mattei), o il coraggioso paladino di quel cinema civile che ha combattuto la sua buona battaglia contro la paludata informazione della paleo-Tv di Stato. E questo perché il suo cinema fu innanzi tutto un importante veicolo di utopia. Di un’utopia lucida e  illuminata che aspirava a rendere meno opaca la realtà.

I suoi film, anche quelli meno riusciti, contribuirono a impedire che il buco nero della storia  risucchiasse la verità sospesa di certi affaire con cui l’Italia tutta non è mai riuscita a fare i conti fino in fondo . Quegli affaire, Rosi è riuscito a farceli leggere come metafore esemplari della nostra società piegata ma non spezzata da quei poteri forti che si possono combattere politicamente – come lui ci ha insegnato – anche impugnando una macchina da presa.

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