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La voce di Tomasi di Lampedusa

La voce di Tomasi di Lampedusa

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  7 marzo 2014

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

L’occasione nacque da un regalo per i 23 anni di Gioacchino Lanza Tomasi, compiuti in quel febbraio del 1957. Il magnetofono portatile di marca Grundig era forse un TK 830 a due velocità, prodotto a Bayreuth e proprio in quell’anno assai venduto, nonostante il non modico costo equivalente a centocinquantamila lire dell’epoca.

Il gioiello tecnologico, in mano all’allievo prediletto e da poco adottato, provocò la fulminea attrazione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, allora immerso nel periodo più prolifico della sua attività di scrittore, tra la nuova stesura del “Gattopardo”, ricopiato su un quadernone e al quale aveva aggiunto un paio di capitoli, il concepimento di due racconti e l’inizio del secondo romanzo, “I gattini ciechi”, troncato dall’improvvisa degenerazione del male che non gli permise di vedere l’anno nuovo.

Fu così che maestro e discepolo, alla fine di quel mese, si rintanarono a Palermo in una stanza del secondo piano di palazzo Mazzarino per una domestica esibizione consegnatasi al tempo come un documento prezioso.

L’incisione su nastro di Tomasi di Lampedusa mentre legge il manoscritto di cui in quei giorni andava fiero, Lighea o La sirena, è diventato il fulcro di un curato cofanetto edito da Feltrinelli, il cd della lettura supportato dal libriccino in brossura con il celebre racconto.

«L’iniziativa della pubblicazione del documento – racconta lo stesso Lanza Tomasi, autore dell’affettuosa e colta introduzione – è la terza che ne precede altre meno felici, la più recente diffusa come supporto a una lettura di Giuseppe Tornatore. Che la registrazione sia mancante in testa di un terzo del racconto, e privata dell’avverbio finale, è un fatto dovuto al microfono inizialmente troppo distante e alla brevità del nastro. E comunque non ne inficia il valore».

Si rimane sorpresi dall’autorevolezza di quel lettore speciale, dalla sciolta nitidezza con la quale scandisce passaggi e accenti della sua affascinante creazione, utilizzando consapevolmente l’accesa espressività che è propria dei grandi registi di teatro quando, durante le prove a tavolino, indicano ai loro attori le intenzioni più segrete del testo.

Lampedusa non appare per niente intimidito dal nuovo strumento, anzi sembra considerarlo una semplice protesi meccanica nella quale far rispecchiare, per fissarlo criticamente, quell’esercizio declamatorio il cui piacere, durante certi pomeriggi e serate, era solito condividere con il cugino poeta, Lucio Piccolo, leggendo frammenti di composizioni proprie o altrui.

«I poeti amano ascoltarsi e ognuno di loro diventa il pubblico di se stesso» – chiosa Lanza Tomasi. Poi aggiunge che, durante i 70 minuti della registrazione (di cui ne sono rimasti 49 d’intellegibili), lo scrittore tabagista non fumò mai né tantomeno interruppe la lettura, filata  senza inciampi.

Essendo l’emissione affidata alla sola oralità, quella di Tomasi ci perviene come una voce “bianca”, vagamente nasale e sfumata ma non priva di significative variazioni timbriche.

Si nota la ricerca dell’“effetto decisivo” (da lui stesso rilevato una volta, durante una telefonata, nel timbro dell’amata moglie Licy) quando egli prova ad accentuare, con cadenza da controllato visionario, cromatismi e allitterazioni della sua “favola nuova” sul professore che incontra la sirena, facendone affiorare echi autobiografici e sensuali flagranze.

La fluidità ritmica della sua lettura di Lighea è decisa almeno quanto quella dei mattatori di un tempo (più Ruggeri che Benassi), concentrati più a restituire assonanze che patina espressiva, e soprattutto refrattari a ogni decorativa spezzatura (che in Italia è stato il marchio attorale di tanto stonato brechtismo).

Insomma, Tomasi lettore di se stesso è un affabulatore “ben temperato” e di certo risulta meno monocorde di certi suoi colleghi abituati alla ribalta.

In quegli straordinari decenni italiani, prima dell’avvento dei sommari “reading” di massa, non furono pochi quelli che ci provarono: l’istrionico Ungaretti, il vibrante Montale, il tremulo Saba, fino al roco Penna e a Pasolini, quest’ultimo abilissimo a far brillare retoricamente la propria scrittura.

Con la phoné si misurò pure il nostro Quasimodo che, di fronte alle telecamere Rai nel giorno del proprio Nobel, tirò le orecchie a quegli interpreti colpevoli di “trattare i versi come entità astratte” per poi attardarsi a salmodiare tiepidamente la sua “Lettera alla madre”.

Tornando a Tomasi, nell’occasionale esibizione, finalmente diffusa a dovere, appare efficace persino l’incerta sua dizione, con le “o” ed “e” troppo aperte, ma priva d’inflessioni opacizzanti.

«Giuseppe leggeva con l’accento italiano di un gentiluomo siciliano nato nel 1896» – precisa il complice di quell’impresa. «E la registrazione è anche la testimonianza della pronuncia italiana nella Sicilia di cento anni fa».

Chi dunque sia riuscito a farsi conquistare da questa straziata rêverie, dalla sapiente e ironica  torsione fin dentro le cavità di quel mito e del suo “erotismo cosmico”, chi insomma abbia amato il racconto della sirena Lighea, troverà nella lettura del suo autore l’enfasi di quegli intimi respiri e la messa in rilievo di quel frastagliato paesaggio di memorie marine e terrestri (“della Sicilia eterna, di quella delle cose di natura”).

Per mezzo di una conciliante chiusa esegetica – «L’onda d’urto del racconto anela all’epifania. Un’epifania fatta di ritorni, recuperi e acque lustrali. In una parola, di speranza» – Lanza Tomasi prepara il suo conclusivo avvertimento:

«Ascoltando Lighea potreste esser colti da raffronti spiacevoli» – e cita i tristi scenari dell’attuale Midcult televisivo (sul modello de “L’isola dei famosi”) che connotano l’abissale condizione dei nostri tempi. Una condizione che cozza maledettamente con le qualità “d’altri tempi” e non solo con l’utopia tranchant del professor La Ciura, protagonista del racconto.

Lasciando così spazio all’inquietata constatazione che di certe “avvincenti modulazioni”, siano esse di sirene o di grandi scrittori, avremmo tutti, oggi più che mai, un disperato bisogno.

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