Virna la Dolce – Ricordo di Virna Lisi
Tipologia:  Note
Data/e:  18 dicembre 2014
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Per una certa generazione, Virna Lisi (8 novembre 1936 – 18 dicembre 2014) è stata innanzi tutto un’abbagliante, levigata icona di femminilità italiana emersa dalla nebbia del piccolo schermo a bassissima definizione. Negli anni Sessanta, è stata la donna del dentifricio, una che “con una bocca così può dire tutto quello che vuole”, un conturbante tormentone da “Carosello”. Poi è venuta la diva per tutte le stagioni, chiamata anno dopo anno come protagonista o comprimaria da cineasti importanti e su set di produzioni straniere. Più tardi, quando l’età avanzata le aveva regalato alcune esistenziali ombrosità (senza però mai spegnerne l’avvenenza), è arrivata l’attrice, e qualche volta la grande attrice. Inizialmente, le tonalità nordiche della sua bellezza furono accomunate a quelle di Grace Kelly. Che fosse intagliata nel ghiaccio lo sostenevano gli stessi che poi si scioglievano in lacrime roventi davanti ai suoi primi piani nel paleo-sceneggiato Rai “Una tragedia americana”, riduzione del celebre best-seller Usa (firmata nel 1962 da Anton Giulio Majano) che le regalò una fama travolgente. Virna aveva cominciato a recitare da adolescente, nel 1953, guidata da solidi artigiani come Pastina, Borghesio, Cortese, e aveva proseguito con il grande Mario Mattoli in “Le diciottenni”, in “Cinque marines per cento ragazze”, e poi in “Totò, Peppino e le fanatiche” e in “Sua eccellenza si fermò a mangiare”. Ha fatto il peplum con Sergio Corbucci (“Romolo e Remo”) e la farsa con il mai troppo lodato Steno (“Un militare e mezzo”). Nel 1956, mentre recitava sul palcoscenico del Piccolo Teatro, diretta da Strehler nei “Giacobini” di Zardi, si era misurata con l’arduo personaggio di Liliana, vittima di violenza carnale, in “La donna del giorno” di Francesco Maselli: una prova che ne aveva rivelato il talento a critici e spettatori. Il trampolino televisivo e teatrale le aveva aperto il sentiero internazionale, consentendole di partecipare al film più macerato e macinato di Joseph Losey, “Eva” (1962), a fianco di una straordinaria Jeanne Moreau. Il suo aplomb virginale, combinato a una insinuante e consapevole malizia, la faceva sembrare adatta alla commedia più che al dramma. E così la sua carriera internazionale si è consumata in ruoli spumeggianti per coproduzioni italo-francesi siglate da Christian-Jacque e Maurice Labro, prima del breve approdo a Hollywood, diretta da Richard Quine e in coppia con Jack Lemmon nel formidabile “Come uccidere vostra moglie” (1964). In Italia, durante quelle stagioni, è stata la preda erotica di Vittorio Gassman in “Una vergine per il principe” (1965) e di Marcello Mastroianni in “Casanova ’70” di Mario Monicelli, e protagonista in episodi d’autore, come “La telefonata” per “Le bambole” (1964) di Dino Risi, come “L’ora di punta” per “Oggi, domani e dopodomani” (1965) di Eduardo De Filippo e come “Creatura indifesa” per “Made in Italy” (1966) di Nanni Loy. Fra i tanti contratti che le richiedevano partecipazioni a prodotti di serie A e B (diretta da Verneuil, Zampa, Bolognini), arrivò d’improvviso l’occasione d’oro di Pietro Germi per quel capolavoro che rimane “Signore e signori” (1966). Quando parlava dei registi conosciuti nel corso della sua lunga esperienza, Virna faceva il nome di Germi prima degli altri: “Mi colpì la sua umanità, anche se non ci siamo scambiati più di dieci parole durante le riprese. Bastava uno sguardo”. Se c’è un segno rivelatore della sua conquistata maturità d’attrice, è tutto nelle pieghe di quella interpretazione, capace di dare smalto e chiaroscuri all’appannata frustrazione del personaggio della cassiera di bar coinvolta nel girotondo piccolo borghese animato da Germi e dalla sua acida satira sui vizi del profondo Nord. Il successo di “Signore e signori” costituì una svolta decisiva per Virna. Nei primi anni Settanta, ruoli analoghi a quello contribuirono ad imporne la duttilità introspettiva, proiettata fuori dal cliché originario di bellezza angelica e sacrificata: sullo schermo il suo fascino si fece più inquietante e “sporco”, grazie a film come “Tenderly” di Brusati, “Giochi particolari” di Indovina, “Roma bene” di Lizzani, fino a “Barbablù” (1972), sottovalutato film di Dmytryck e Sacripanti, dove appare tra le grinfie di Richard Burton.
Finalmente considerata attrice a tutto tondo, durante il crepuscolo di quell’ultimo decennio felice del cinema italiano, è stata chiamata a confrontarsi con personaggi complessi come la sorella di Nietzsche in “Al di là del bene e del male” (1977, di Liliana Cavani) o come la madre nell'”Ernesto” che Samperi ha tratto, nel 1979, da Umberto Saba. Poi è arrivato il turno di Alberto Lattuada che le ha offerto Wilma, “cantante e anche puttana”, memorabile personaggio di “La cicala” (1980), capace di attizzare l’ammirazione anche dei critici più riottosi (in quella occasione,Tullio Kezich scrisse di “una splendida, rinnovata Virna Lisi”). Da allora in poi, decise di affidare la sua popolarità alla routine della neo-Tv delle fiction e delle soap, con una tenuta e una dignità d’interprete che le conferivano, anno dopo anno, un aspetto sempre più distante, argenteo, aristocratico. Sul grande schermo, ritrovatasi nel serraglio “vintage” dei “Sapore di mare” e “Amarsi un po’” targati Vanzina, non ha smesso di partecipare al cinema denso e ispirato di Gianni Amelio, ne “I ragazzi di via Panisperna” (1988), o a quello trasparente e acutissimo del Luigi Comencini di “Buon Natale, buon anno” (1989), giungendo così alla sorprendente performance, nei panni della crudele Caterina de’ Medici, per la regia del compianto Patrice Chereau, in “La regina Margot” (1994). Questo film, oltre a farle conquistare un meritato premio a Cannes, ha forse avuto per lei il sapore di un ritorno alle strehleriane origini teatrali. E comunque, la “fidanzata d’Italia”, quella che piangeva, si perdeva e poi si ritrovava per farsi sposare, la “ragazza del dentifricio”, era ormai per Virna un ricordo lontano. E lo era anche per i suoi spettatori che avevano imparato ad ammirare il suo intelligente pudore insieme alla sua bella tempra di attrice e di donna.
All’epoca di “La regina Margot” si lasciò andare, lei solitamente riservata, a una confessione: “Prima non avevo la faccia giusta, ma finalmente sono pronta a invecchiare, a diventare una madre, una nonna perfino. Le mie colleghe, che vogliono restare giovani a oltranza, si stupivano inizialmente della mia scelta. Poi hanno cominciato ad imitarmi”. Nel giorno dello strappo che ha fatto più piccolo il cuore dei suoi tanti ammiratori, nel giorno della sua perdita, dimentichiamo queste sue parole, guardiamo pure indietro e concediamoci il lusso di ritrovarla come era un tempo, attraente superficie delle nostre visioni adolescenziali: una “divina creatura”, fatta della stessa stoffa dei sogni, del cinema e di certa piccola grande Tv.
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