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“Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia – Prima edizione

“Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia – Prima edizione

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Autore/i:  Leonardo Sciascia

Tipologia:  Romanzo

Editore:  Einaudi, Collana "I Coralli", n. 122

Origine:  Torino

Anno:  1961 (22 marzo)

Edizione:  Prima

Pagine:  140

Dimensioni:  cm. 19,5 x 13

Caratteristiche:  Legatura in tela e cartone illustrata dal dipinto "Paese del latifondo siciliano"(1956) di Renato Guttuso. Fascetta editoriale e acetato protettivo.

Note: 

Prima edizione del romanzo di Leonardo Sciascia, finito di stampare il 22 marzo 1961  per la prestigiosa collana Einaudi de «I Coralli» (n.122).

Il giorno della civetta fu ristampato nel 1972 nei «Nuovi Coralli» (n.17) e, in seguito, con una prefazione dell’autore e con le note di Sebastiano Vassalli nella collana Letture per la Scuola Media (n.21) di Einaudi. L’edizione Adelphi, nella collana «Fabula» (n.66), è del 1993.

La copertina reca come illustrazione il dipinto Paese del latifondo siciliano (1956) di Renato Guttuso.

 

« Si può scrivere un racconto su un problema della nostra società che sia un’analisi chiara ed esauriente del problema, delle sue cause sociali, storiche, politiche, morali, un vibrato “pamphlet” di  denuncia, e – nello stesso tempo – quello che si dice un bel racconto ? Con questo suo “romanzo breve” sulla mafia, Leonardo Sciascia risponde di sì: ne Il giorno della civetta egli raggiunge il risultato più complesso d’una maturità letteraria che – come già le sue prove precedenti dimostravano – ha sempre come principale nutrimento una coscienza civile appassionata e dolente, un legame – morale e storico ma sempre caldo d’affetti – con l’umanità siciliana. Protagonista è qui un ufficiale dei carabinieri, settentrionale, di stanza in Sicilia, ma soprattuto un uomo che crede nei valori di una società democratica e moderna, contro all’immobilità d’un mondo di vecchi interessi costituiti. e la narrazione si muove su due piani: quello dell’inchiesta che l’ufficiale conduce su una catena di delitti di mafia; e quello delle complicità, più o meno potenti, più o meno segrete, che scattano a fermarla o ad annientarne i risultati. »

dalla nota editoriale presente nel retro di questa edizione )

 

« Il delitto passionale, il capitano Bellodi pensava, in Sicilia non scatta dalla vera e propria passione, dalla passione del cuore; ma da una specie di passione intellettuale, da una passione o preoccupazione di formalismo, come dire? giuridico: nel senso di quella astrazione in cui le leggi vanno assottigliandosi attraverso i gradi di giudizio del nostro ordinamento, fino a raggiungere quella trasparenza formale in cui il merito, cioè l’umano peso dei fatti, non conta più; e, abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si specchia.
Quel personaggio di nome Ciampa, nel Berretto a sonagli di Pirandello: parlava come se nella sua bocca ci fosse la Cassazione a sezioni riunite, tanto accuratamente notomizzava e ricostituiva la forma senza sfiorare il merito.
E Bellodi si era imbattuto in un Ciampa proprio nei primi giorni del suo arrivo a C.: tale e quale il personaggio di Pirandello, piovuto nel suo ufficio non in cerca d’autore, che già lo aveva avuto grandissimo, ma in cerca, stavolta, di un verbalizzante sottile; e perciò aveva voluto parlare a un ufficiale, parendogli il brigadiere incapace di cogliere il suo loico rabesco.
E ciò discendeva dal fatto, pensava il capitano, che la famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale.
La famiglia è lo Stato del siciliano.

Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse il servizio militare, la guerra, il carabiniere.

Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza.Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine.

Questi pensieri, in cui la letteratura offriva alla sua breve esperienza ora la carta buona ora la falsa, andava rimuginando il capitano Bellodi mentre nel suo ufficio aspettava che gli conducessero l’Arena.
E stava passando a considerare la mafia, e come la mafia si adattasse allo schema che era venuto tracciando, quando il brigadiere introdusse don Mariano Arena. »

Sinossi: 

È il racconto di un delitto mafioso e delle relative indagini da cui emergono sullo sfondo della tormentata terra di Sicilia, tra la fitta rete delle complicità e del clientelismo, le figure dei due protagonisti, simboli di un’Italia spaccata in due: il capitano dei carabinieri Bellodi, settentrionale, appena trasferito al Sud, reduce dalla lotta partigiana, interprete emblematico del corretto e democratico rapporto uomo-legge; e il vecchio capomafia Arena, uomo violento e inflessibile, eroe negativo di una società – quella isolana – corrosa dall’omertà e succube dei potenti locali. Salvatore Colasberna, ex muratore approdato alla presidenza di una piccola cooperativa edilizia, viene ucciso per una questione di appalti e di protezioni rifiutate. Il capitano Bellodi cerca di fare luce sull’accaduto interrogando i due fratelli dell’assassinato, soci della medesima cooperativa, che si trincerano dietro il più rigoroso silenzio. Successivamente viene convocato in questura un ex pregiudicato, Calogero Dibella detto Parrinieddu, che svolgeva il ruolo di confidente, «un po’ per vocazione, un po’ illudendosi di avere così privilegio d’impunità col mestiere che faceva»; e tra le menzogne architettate per coprire la verità troppo scomoda e compromettente riescono a filtrare solo due nomi: Ciccio La Rosa e Rosario Pizzuco, informazione comunque utile a Bellodi per smascherare chi tiene le fila del gioco. Nel frattempo viene denunciata dalla moglie la scomparsa di tale Paolo Nicolosi, incensurato, di mestiere potatore, che può avere riconosciuto l’assassino di Colasberna, in quanto abita nella stessa via dove l’uomo è stato ucciso. Interrogata dal capitano, la consorte del testimone scomparso ricorda che il marito ha pronunciato il nome di «Zicchinetta» quando, svegliato dagli spari, si era affacciato alla finestra e ave visto un individuo fuggire di corsa. E Zicchinetta è il soprannome di Diego Marchica, un ex detenuto implicato nel gioco d’azzardo, che così viene arrestato. Nel frattempo Parrinieddu è stato ucciso, e prima di morire ha voluto – forse come supremo riscatto – fare i nomi di Rosario Pizzuto e di Mariano Arena, il capomafia, indirizzando una lettera al capitano. Anche Arena è arrestato, ma ecco che scatta la protezione del potere politico: Arena è «un galantuomo, tutto casa e parrocchia… un uomo come ce ne sono pochi per onestà, per amore del prossimo, per saggezza». E la mafia, poi, è solo un’invenzione: «Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». Bellodi però non si arrende e prosegue nell’interrogatorio di Pizzuco e Marchica, nella speranza di fare confessare i due sicari di Arena attraverso alcuni espedienti (il falso verbale, ad esempio, che costringe Marchica ad ammettere una serie di circostanze). Anche la stampa comincia a dare rilievo all’indagine e ad ipotizzare la collusione nell’intera vicenda del potere politico. Ma Pizzuco è reticente e inventa una sua personale versione dei fatti che sconfessa quella di Marchica, cosicché un giornale arriva a proporre, per tentare la soluzione del delitto Nicolosi, addirittura la pista passionale. Anche l’interrogatorio di Arena produce effetti scontati: per il capomafia l’umanità è «una bella parola piena di vento» divisa in cinque categorie («gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà»). E nonostante che il procuratore spicchi i mandati di cattura per Marchica, Pizzuco e Arena, la soluzione deve venire da Roma, dove il sottosegretario, a nome del ministro, respinge l’insinuazione, fatta dalla sinistra, di una complicità del potere politico in vicende «cosiddette mafiose», ribadendo che la mafia non esiste «se non nella fantasia dei socialcomunisti». Cosicché il capitano Bellodi, recatosi a Bologna a testimoniare ad un processo e poi a Parma, in famiglia, apprende dai giornali locali, inviatigli dal brigadiere, che tutta la sua ricostruzione dei fatti è stata smontata con alibi inoppugnabili grazie alla testimonianza di persone incensurate e insospettabili, e che per il delitto Nicolosi è prevalsa la pista passionale. A Bellodi non rimane che meditare, insieme a un amico, sulla condizione italiana («Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia»), pensando, da uomo incapace di rinunciare alla sfida per la giustizia, di ritornare quanto prima in quella terra «a rompersi la testa».

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