lunedì, 7 Ottobre 2024

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Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati – Seconda edizione

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati – Seconda edizione

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Autore/i:  Dino Buzzati

Tipologia:  Romanzo

Editore:  Rizzoli & C., Collana "Il Sofà delle Muse", n.1

Origine:  Milano-Roma

Anno:  1941 (7 maggio)

Edizione:  Seconda

Pagine:  280

Dimensioni:  cm. 18,8 x 12,5

Caratteristiche:  Brossura, sovraccoperta con illustrazione fotografica e ritratto fotografico dell'autore al risvolto

Note: 

Seconda edizione del romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Questa edizione in brossura è identica alla prima. Il ritratto fotografico dell’autore presente al risvolto è lo stesso dell’immagine in evidenza su questa scheda.

Finito di stampare il 7 maggio 1941 nelle Officine Rizzoli & C. Anonima per L’Arte della Stampa a Milano.

 

GENESI DEL ROMANZO

« Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze e i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire. Chiaro che la stessa situazione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere. Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero preso io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili. (…) L’ambiente militare, specificatamente quello di una fortezza al confine, mi offriva due grandi vantaggi. Primo quello di esemplificare il tema della speranza e della vita, che passa inutilmente, con una maggiore evidenza, perché la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica. Pensavo insomma che, in un ambiente militare, la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura. Mi era bastato il normale servizio di allievo ufficiale e sottotenente di complemento, adesso non ricordo esattamente, ma dovevano essere stai non più di sedici mesi, per sentirmi attratto profondamente, e per assimilare, credo, fino in fondo, lo spirito di quel mondo che oggi sembra così screditato. (…) Ho cominciato a lavorare facendo una “scaletta”, come si dice, segnando su un foglio, in successione, tutti gli episodi del romanzo. Scaletta da cui non mi sono più scostato. Il lavoro vero e proprio è durato circa un anno, benché non abbia quasi mai avuto pentimenti. Lavoravo sempre nelle condizioni ideali. Cioè la notte, quando ero rincasato dal giornale, verso le due e mezzo di notte, e allora non si aveva sonno, la mente era lucidissima e anche l’inconscio sapeva che non esisteva alcuna possibilità di distrazioni (cinematografo, case allegre, incontri con gli amici e così via). Andavo a letto e, seduto, scrivevo su un quaderno che non so più dove sia andato a finire.

A quel tempo non ero legato per contratto con alcun editore. Al principio del ’39, quando il romanzo era già avanti, Longanesi mi ha chiesto se per caso avevo un romanzo da dargli per una collezione chiamata poi «Il sofà delle muse». Era, se ben ricordo, nel marzo 1939. Stavo allora per andare ad Addis Abeba come inviato speciale del Corriere, il mio primo incarico esterno. Quando fui ad Addis Abeba, ricevetti una lettera di Longanesi, il quale accettava il libro, diceva che era bello, solo mi consigliava di cambiare il titolo che era La fortezza. Era scoppiata la guerra europea; probabilmente anche l’Italia presto o tardi ci sarebbe entrata. Quel titolo poteva dare l’impressione al pubblico che il romanzo parlasse di guerra, argomento complessivamente ingrato al pubblico italiano. Io allora gli proposi altri tre titoli, fra cui uno era appunto Il deserto dei tartari (gli altri due non li ricordo). (…)

Mi ero, sempre, reso conto benissimo che, se fossi stato artisticamente onesto fino in fondo, avrei dovuto continuare a scrivere quel libro per tutta la mia vita, o per lo meno fino all’avanzata maturità, quasi si trattasse di una specie di autobiografia. Capivo anche che la tensione narrativa, verso la metà, calava alquanto, che certi passaggi erano un po’ forzati, insomma una rielaborazione sarebbe stata molto utile. Ma c’era la richiesta di Longanesi, la stesura era fatta, ero giovane e abbastanza ambizioso. Insomma non sono stato capace di aspettare, di avere pazienza. E il romanzo venne varato.

Quando si trattò di dare il libro in composizione, Longanesi – io ero ancora in Africa – mi avvertì che bisognava cambiare il “lei” in “voi”, secondo la regola fascista. A fare la revisione fu un mio carissimo amico di allora, Arturo Brambilla, un uomo di cervello e di carattere meravigliosi, che è morto improvvisamente qualche anno fa, e di cui Mondadori ha pubblicato l’anno scorso un diario postumo. »

( Dichiarazioni di Dino Buzzati ad Alberico Sala, in una intervista contenuta nel capitolo Un’intervista all’Autore dell’Introduzione all’edizione Mondadori, «Oscar Narrativa», Milano 1979,  di Il deserto dei tartari ).

 

« Il titolo del romanzo all’inizio era La fortezza. Ma Leo Longanesi cui Dino Buzzati lo aveva fatto leggere e che, trovandolo bello, lo avrebbe pubblicato nel 1940 nella nuova collana «Il sofà delle muse» che dirigeva per la Rizzoli, gli consigliò di cambiarlo. L’Italia era entrata in guerra e un romanzo di militari in attesa del nemico poteva, con quel titolo, prestarsi a qualche osservazione o censura.

Meglio Il deserto dei Tartari (l’autore aveva avanzato, bocciata la prima, questa e altre due proposte poi dimenticate) che più che sulle armi puntava sulla solitudine e aveva comunque un’aura più letteraria. Buzzati aveva lasciato il romanzo nelle mani di Longanesi poco prima di partire come inviato del Corriere della Sera per Addis Abeba e da lì seguiva la composizione del libro incaricando l’ex compagno di scuola ed amico per sempre Arturo Brambilla della correzione delle bozze. Il romanzo esce: ha una copertina gialla , i titoli in carattere egizio e nel risvolto una foto dell’autore a giudizio di Gaetano Afeltra molto romantica.

Sul Corriere del due agosto Pietro Pancrazi lo giudica “uno dei romanzi più singolari che si siano pubblicati da noi negli ultimi anni”. Non si sbagliava. Buzzati ha una sua cifra particolare, una singolarità che ne fa appunto, nel panorama della letteratura italiana d’allora, un’eccezione. Presto esaurita la prima edizione iniziano lunghe trattative tra Rizzoli e Mondadori che vuole acquistare i diritti del romanzo. La seconda edizione sarà appunto mondadoriana e reca la data 1945. Nel frattempo (1942) è uscita la versione tedesca: la prima di una lunga serie di traduzioni.

Ma come nacque Il deserto dei Tartari? Da dove viene la storia del tenente Giovanni Drogo che, preso servizio nella remota Fortezza Bastiani vi resterà tutta la vita senz’altro scopo che l’attesa di un nemico invisibile? Solitudine e paesaggio sono quasi certamente maturati nelle lunghe frequentazioni delle montagne che lo scrittore, bellunese di nascita, ebbe sempre, ma l’idea dell’attesa estenuante e a suo modo epica è nata altrove e precisamente nella sala cronaca del Corriere della Sera intorno all’enorme tavolo su cui si affaticavano la notte tante penne che non sarebbero mai diventate celebri.

In una delle numerose riedizioni del Deserto lo stesso autore confidò ad Alberico Sala che firmava una introduzione: “Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire”.

Quando scrisse Il deserto dei Tartari Buzzati aveva trentatré anni. Fin dal 1937 aveva usato lo pseudonimo Giovanni Drogo per firmare un racconto, Notizie false, comparso su «Omnibus». Dunque Buzzati era Drogo.

Il romanzo comincia con una cavalcata, per monti e per valli, alla ricerca della mitica e lontana fortezza. E’ settembre, il settembre di un anno imprecisato. Il giovane, nominato ufficiale, “si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato”. Eppure, penserà poco dopo, finalmente cominciava la nuova vita, fuori dall’Accademia, lontano dai comandi aspri del sergente. Ma insieme alla speranza del nuovo il giovane tenente nutre una certezza: qualcosa è tramontata in lui, la prima giovinezza se ne è andata per sempre.

Creando un clima di sempre più rarefatta tensione, lo scrittore ci porta lentamente verso la fortezza dove Drogo arriverà incerto e affamato. Presto matura in lui l’idea d’aver sbagliato e la voglia di restare in quel luogo il meno possibile. Lo assecondano, proponendogli addirittura di profittare d’un certificato medico che gli verrebbe rilasciato senza particolari difficoltà. Ma al momento opportuno Drogo ha un sussulto: non sarà mai un malato immaginario, resterà alla fortezza. Inutile dire che vi rimarrà per sempre, salvo un momentaneo ritorno a casa in licenza, dove scopre ormai d’essere cambiato e che gli altri sono per lui cambiati.

La Fortezza somiglia ad un disegno del Piranesi: muri infiniti si ergono davanti al nulla, la struttura dei fabbricati è labirintica e si moltiplica con effetti stranianti. Ma l’Ordine vi regna, il Divino Regolamento anima qualunque azione, anche la più folle e ingrata. Una sentinella arriva ad uccidere un commilitone che, da poco giunto alla fortezza, non rispetta il rituale della parola d’ordine. Lo conosceva benissimo, dunque l’identificazione era assolutamente inutile, ma lo uccide, è costretto ad ucciderlo, per una questione di forma. Drogo ne è turbato, ma altri ufficiali godono di questa uccisione rituale, lodano la precisione del colpo e il rispetto delle regole.

Buzzati era affascinato e insieme turbato dalla vita militare. L’ordine perfetto, la gerarchia, l’obbedienza davano senso anche ai giorni senza senso, sublimavano l’attesa più inutile. Molti anni dopo Buzzati scrisse una poesia, anzi un poemetto, che si intitolava Il capitano Pic cui seguiva un sottotitolo: o il trionfo del regolamento. Il capitano Pic non bada alle madri che lo supplicano di non infierire sui loro figli soldati e li porta a soffrire nel deserto. Ad ogni lamentela egli oppone la lettura di un passo del regolamento che tutto prevede. “In quel mentre il capitano sfogliò/ il manuale di disciplina// la dove dice: il militare/ può lasciar crescere i baffi/ ovvero tenerli rasi/ la barba di qualunque foggia/ purché convenientemente corta// Là dove dice: egli deve / adoperarsi per calmare/ gli eventuali disordini/ che nascano alla sua presenza…”. Ma, aggiunge Buzzati nelle strofe successive, il regolamento non dice un mucchio di cose: le cose dolci della vita e le sere fantastiche della città, non dice lo sguardo di lei…

A tutte queste cose Drogo ha, più o meno consapevolmente, rinunciato: ha accettato di vivere in un incubo metafisico e va da sé che quando finalmente l’atteso nemico sarà alle porte egli sarà troppo vecchio e malato per poter dare un senso a tutta la propria vita morendo sul campo di battaglia. E la vicenda è volutamente emblematica, collocata com’è in un passato senza troppi connotati precisi, con le carrozze e i lumi a petrolio, quasi una favola senza lieto fine.

Il deserto dei Tartari è un longseller che ha avuto anche la fortuna, capitata solo a pochi titoli di romanzo, di diventare addirittura un’espressione proverbiale per significare un’attesa vana. Valerio Zurlini ne fece un film, non eccelso, con Jacques Perrin, Gassman e altri attori di primo piano nel 1976, quattro anni dopo la morte di Buzzati avvenuta proprio trent’anni fa ed è opportuno aggiungere che si preparano in questi giorni a Belluno e dintorni mostre e convegni per ricordare lo scrittore e non solo.

Accanto al Buzzati narratore c’è infatti l’autore del Poema a fumetti e il pittore che pure ebbe una sua fama non trascurabile e un suo pubblico. Anche i suoi quadri erano delle narrazioni. Dicono gli amici che amava disegnare prima di mettersi a scrivere, quasi a fissare un volto, un momento, da riprendere poi con la penna. Grazie a Camus, cui piacque la versione teatrale del racconto Settimo piano (Un caso clinico) Buzzati ebbe un particolare successo in Francia dove ha trovato dei critici e soprattutto dei fan desiderosi di riunirsi e discutere e scrivere della sua opera: il che per uno scrittore non è poco.

Quanto a Kafka, giacché è d’obbligo parlare almeno per un attimo di Kafka quando si parla di Buzzati e dei suoi misteri, direi che vale l’osservazione di Montale, suo collega al Corriere. Scrive Montale che chi parla di Kafka a proposito di Buzzati e del suo Deserto deve essere perdonato perché evidentemente non ha letto il precedente romanzo di Buzzati, Bàrnabo delle montagne. Per dire che Buzzati è autonomo da Kafka nell’inventare il suo mondo tenebroso. Anche se sappiamo che il fratello Adriano regalò a Dino nel ’35 il Kafka pubblicato da Frassinelli è, criticamente parlando, una suggestione superficiale parlare di influssi kafkiani. Ma si sa, kafkiano è diventato uno degli aggettivi più abusati e diffusi senza bisogno neppure di un processo, di un castello o di un impiegato.

Alla fine Buzzati, nel Deserto propone lo scandalo di una vita che non ha proprio nulla di misterioso. E’ scandalosa la vita di Drogo nella sua conclamata, eppure inevitabile inutilità. La storia affascina perché ammonisce. Mira all’esemplarità, al simbolo e dunque tocca un po’ tutti. Buzzati è uno scrittore raffinato e a suo modo complesso, ma gli abissi di Kafka sono remotissimi.»

(Paolo Maurila Repubblica, 3 settembre 2002)

Sinossi: 

 

Il tenente di prima nomina Giovanni Drogo, vestita la nuova divisa, lascia a cavallo la sua città per recarsi alla nuova destinazione che gli è stata assegnata, la Fortezza Bastiani, molto distante dalla capitale. La Fortezza, ultimo avamposto situato ai confini settentrionali del Regno, domina la desolata pianura chiamata “deserto dei Tartari”, che è stata un tempo lo scenario  di rovinose incursioni da parte dei nemici. Da innumerevoli anni quel fronte non rappresenta alcuna minaccia: la Fortezza, svuotata ormai della sua importanza strategica, è rimasta solo una costruzione arroccata su una solitaria montagna, di cui molti ignorano persino l’esistenza.

Il giorno dopo la partenza, avendo attraversato un territorio impervio, Drogo incontra il capitano Ortiz, uscito dalla Fortezza per una corsa a cavallo, e da lui riceve notizie più dettagliate sulla sua destinazione, sulle montagne che la circondano e sul deserto impenetrabile che le si stende davanti, il leggendario percorso delle orde dei Tartari.

Normalità, quotidianità assoluta degli avvenimenti si mescolano nelle parole di Ortiz, con una sorta di fervore che lascia trasparire un inconfessabile sentimento di attesa e di speranza.

Arrivato a destinazione,  Drogo ha una cattiva impressione della Fortezza. Confida all’aiutante maggiore Matti di voler chiedere l’avvicinamento alla capitale, questi gli consiglia di attendere quattro mesi fino alla visita medica periodica, dopo la quale potrà farlo trasferire per motivi sanitari. Drogo si pente subito di avere acconsentito, ma in questo periodo subisce inconsciamente il fascino degli immensi spazi desertici che si aprono a settentrione. Rinuncia al trasferimento e viene coinvolto nell’atmosfera quieta e rassicurante del posto.  La vita alla Fortezza Bastiani si svolge secondo le norme ferree che regolano la disciplina militare, ed esercita sui soldati una sorta di malia che impedisce loro di lasciarla. Si tratta di una specie di Regola laica che impone a ognuno di votarsi al servizio della Fortezza. I militari sono sorretti da un’unica speranza: vedere apparire all’orizzonte, contro le aspettative di tutti, il Nemico. Fronteggiare i Tartari, combatterli, diventare eroi: sarebbe l’unica via per restituire alla Fortezza il suo valore  e per dare un senso alla propria permanenza in quel luogo di confine.

Pochi sono gli avvenimenti che segnano le lunghe giornate di Drogo e compagni: l’apparizione di un cavallo sbandato nel deserto e la morte di un soldato che, uscito per recuperarlo, viene abbattuto da una sentinella che pure lo ha riconosciuto; la spedizione per la demarcazione del nuovo confine tra le montagne, nella quale muore l’elegante tenente Angustina, militare esemplarmente devoto allo “stile” e agli ideali bellici.

Il tenente Simeoni, in possesso di un cannocchiale fuori ordinanza, sembra avvistare segnali di movimento. Drogo viene coinvolto nella visione. Dentro la Fortezza tutti credono che stia per accadere l’atteso evento, che lunghe colonne di uomini si stiano avvicinando da settentrione attraverso la pianura deserta.

La Fortezza Bastiani è in fermento, i soldati sognano battaglia e gloria, ma si scopre che non si tratta dei tartari bensì di soldati del Regno confinante che vengono a definire la linea di frontiera. Pare che il Regno del Nord stia costruendo una strada diretta verso le montagne di confine, ma occorreranno quindici anni di lavori attraverso il vasto deserto per arrivare nei paraggi della Fortezza. 

Dopo quattro anni Drogo torna a casa in licenza, ma non si ritrova più nei ritmi della città: prova un senso di estraneità e smarrimento nel ritornare al suo vecchio mondo, a una casa che non può più dire sua, ad affetti a cui scopre di non saper più parlare. Maria, sorella del suo amico, gli sembra indifferente, eppure basterebbe una sola parola di Drogo perché lei rinunciasse a un viaggio in Olanda e rimanesse con lui. Si reca da un Generale per ottenere il trasferimento, come sarebbe prassi dopo quattro anni in Fortezza, ma il superiore gli dice che l’organico della piazzaforte sarà drasticamente ridotto e molti suoi colleghi hanno presentato domanda prima di lui, senza dirgli nulla.

Ormai cinquantenne, Drogo ritorna alla Fortezza e ai suoi ritmi immutabili. Nell’attesa della “grande occasione” si consuma la vita dei soldati di guarnigione; su di loro trascorrono, inavvertiti, i mesi, poi gli anni. Drogo vedrà alcuni dei suoi compagni morire, altri lasciare la fortezza ancora giovani o ormai vecchi. Dopo trent’anni di servizio diventa Maggiore e Vicecomandante della Fortezza. Quando una malattia al fegato lo corrode fino a costringerlo a letto, accade l’avvenimento che soldati e ufficiali hanno atteso per tanto tempo: la guerra contro il regno del Nord fa affluire truppe e artiglierie lungo la strada, i tartari avanzano.

All’arrivo di due reggimenti di rinforzo alla Fortezza Bastiani, il comandante e suo ex collega Simeoni fa evacuare Drogo malato per dare spazio ai nuovi ufficiali.

La morte coglie Drogo immerso nella solitudine, rinchiuso in un’anonima stanza di una locanda di città, ma non in preda a rabbia e a delusione. Nei suoi ultimi istanti di vita, Drogo comprende quale sia stata la sua personale missione, l’occasione per provare il suo valore che aveva atteso per tutta la vita: affrontare la morte con dignità, “mangiato dal male, esiliato tra ignota gente”. Drogo non ha quindi centrato l’obiettivo della sua esistenza ma ha sconfitto il nemico più grande: non la morte ma la paura di morire. Con questa raggiunta consapevolezza, Drogo muore da soldato, riappacificato con se stesso e con la propria utopia.

 

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