Autore:  Alessandro Manzoni
Tipologia:  Romanzo illustrato con 24 fotografie di scena
Film di riferimento:  I promessi sposi (Italia, 1913) di Eleuterio Ridolfi. Sceneggiatura di Arrigo Frusta (Augusto Sebastiano Ferraris), dal romanzo omonimo di Alessandro Manzoni. Fotografia di Giovanni Vitrotti. Con Gigetta Morano, Mario Voller Buzzi, Ersilia Scalpellini, Umberto Scalpellini, Eugenia Tettoni, Antonio Grisanti, Cesare Zocchi, Eduardo Rivalta, Luigi Chiesa, Mario Voller Buzzi
Editore:  Ulrico Hoepli
Origine:  Milano
Anno:  1915
Caratteristiche:  Legatura in cartone rinforzato di colore marrone con illustrazione applicata (fotografia di scena del film di Ridolfi)
Edizione:  Prima dell'edizione cinematografica illustrata
Pagine:  574 + 24 di tavole fotografiche in bianco e nero tratte dal film "I promessi sposi" (1913) di Eleuterio Ridolfi
Dimensioni:  cm. 19 x 12,5
Note: 
“Edizione cinematografica” di I promessi sposi di Alessandro Manzoni, a cura di Alfonso Cerquetti, illustrata con 24 tavole cinematografiche Ambrosio tratte da I promessi sposi (1913) di Eleuterio Ridolfi.
La copia, in discreto stato di conservazione, conserva la sua copertina originale dove campeggia l’applicazione riquadrata di una immagine del film.
IL LIBRO
Nel 1915 la Casa editrice Hoepli, dopo aver pubblicato l’anno prima nella sua biblioteca classica una nuova ristampa del romanzo a cura di Alfonso Cerquetti e illustrata da Giacomo Campi, dà alle stampe una “versione cinematografica” de I promessi sposi corredata dalle fotografie di scena del film di Eleuterio Ridolfi del 1913 (appartenente alla «Serie Oro» della Società Anonima Ambrosio) che aveva raccolto grandi consensi di pubblico e di critica.
Da tempo la Hoepli aveva inserito nel proprio prestigioso catalogo alcune edizioni illustrate del capolavoro manzoniano, a partire dall’edizione 1895 con le composizioni di Campi che precedette quella, datata 1900, illustrata da 13 tavole in eliotipia e da 228 vignette di Gaetano Previati. Il pregevole lavoro del pittore ferrarese, le sue inquietanti e geometriche illustrazioni i cui soggetti privilegiano più il paesaggio che i personaggi nell’esibire un impianto tendenzialmente divisionista e suggestioni vagamente simboliste, non riscosse l’auspicato successo commerciale. Lo stile di Previati, la sua originalità interpretativa, si discostava troppo dalla tradizione iconografica inaugurata da Francesco Gonin, illustratore principale della versione “risciacquata in Arno”, curata dallo stesso Manzoni e pubblicata da Guglielmini e Redaelli nel 1840.
Nel 1904, la Hoepli tornò alle illustrazioni di Campi con una nuova edizione “divulgativa” del romanzo, mentre nel 1910 l’editore fiorentino Nerbini pubblicò quella, diventata assai popolare, con le 40 tavole di Tancredi Scarpelli.
Queste ultime segnarono la tendenza a privilegiare quelle caratteristiche che erano proprie dell’illustrazione popolare: l’enfatizzazione fumettistica dei sentimenti e degli affetti, un evidente bozzettismo e il marcato rilievo dato ai personaggi rispetto agli ambienti e ai paesaggi del romanzo.
Fin dalle origini, del resto, l’intera vicenda dell’iconografia manzoniana è segnata da una dicotomia tra le esigenze stilistiche e interpretative degli artisti che s’impegnarono a realizzare quelle illustrazioni e «gli eccessivi intenti strumentali che erano andati caratterizzando la strepitosa divulgazione visiva del romanzo» ( Fernando Mazzocca, in Manzoni. Il suo e il nostro tempo, Milano, Electa, 1985).
Dal punto di vista dei legami con l’iconografia fino ad allora esistente, la trasposizione cinematografica di Ridolfi, seguendo il dettato dell’impostazione classica del Gonin, si rivolge alla tendenza “popolare” espressa dai disegni di Scarpelli, tentando però di affrancarsi dagli schemi compositivi di una certa tradizione accademica di stampo ottocentesco. E ciò è facilmente rilevabile nelle tavole di questa “versione cinematografica” della Hoepli che utilizza le fotografie del film seguendo un criterio che tende a mettere in rilevo il valore evocativo dell’immagine rispetto a quello esplicativo del testo scritto.
Secondo le intenzioni dell’editore, il volume avrebbe dovuto essere il primo di una collana di “cinelibri” caratterizzata dall’utilizzo di illustrazioni tratte da film, confermando così la speciale attenzione che la Hoepli dedicò alla neonata settima arte (pubblicando nel 1907 il manuale Il cinematografo e i suoi accessori e avvalendosi della collaborazione di Adolfo Padovan che diresse, con Francesco Bertolini, il primo lungometraggio italiano della storia, L’Inferno, prodotto nel 1911 dalla Milano-Films).
Per analizzare gli elementi innovativi di questa «edizione cinematografica» del romanzo di Manzoni pubblicata dalla Hoepli, lo studioso e docente Raffaele De Berti, in un capitolo del suo saggio Dallo schermo alla carta (Milano, Edizioni Vita e Pensiero, 2000), traccia un confronto tra questa pubblicazione e la precedente impresa della casa editrice Treves a cui si deve il primo cinelibro italiano uscito nel 1914, il Quo Vadis? di Sienkiewicz illustrato da 78 fotografie di scena dell’omonimo film della Cines diretto, nel 1912, da Enrico Guazzoni (vedi scheda relativa in questo archivio):
«(…) Ne I promessi sposi della Hoepli si nota, rispetto al Quo vadis?, la totale assenza di ritratti dei personaggi, una scelta d’immagini molto meno statiche dove i personaggi appaiono come fotografati a loro insaputa durante lo svolgimento di una scena, e non come se fossero in posa. Le didascalie, poste a commento delle singole immagini, confermano la sensazione di voler offrire al lettore non spiegazioni didascaliche, ma un richiamo a un testo già noto di cui si colgono “al volo” brevi battute di un’azione in pieno svolgimento. Per esempio, la scena dell’incontro iniziale fra i bravi e Don Abbondio è commentata come segue: “Vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere…” (pag.7). Naturalmente permangono anche didascalie più tradizionali e l’uso d’indicare la pagina del libro a cui immagine e battuta si riferiscono, ma gli elementi innovativi mi paiono molto significativi di un processo evolutivo in atto sull’introduzione e l’uso dell’immagine nella rete comunicativa (…) Se il merito di Treves è di riconoscere col suo gesto editoriale piena dignità al cinema a entrare a far parte delle arti illustrative per i libri, Hoepli fa un altro passo avanti, intuendo il portato innovativo che il cinema introduce nel circuito della nascente moderna industria culturale italiana. L’immagine, oltre ad avere sempre più spazio, può rivolgersi a un lettore-spettatore ormai abituato a convivere e a “crescere” in una cultura figurativa che non limiti la sua funzione al solo aspetto illustrativo di tipo didascalico-pedagogico. In questa direzione l’edizione de I promessi sposi per la scelta di alcune immagini del film Ambrosio rappresenta un punto di svolta».
Nell’articolare un paragone tra l’«edizione cinematografica» della Hoepli e quella del 1840 illustrata da Gonin e curata da Manzoni, De Berti sottolinea quanto, in quest’ultima, «le immagini di Gonin non presentano didascalie, perché inserite nel testo scritto di cui sono la rappresentazione visiva». Al contrario, le “tavole cinematografiche” della Hoepli (collocate a distanza rispetto al brano del romanzo al quale si riferiscono) non intendono amalgamarsi al testo: si tratta di 24 fotografie di scena del film di Ridolfi la cui funzione «non è tanto di costruire un romanzo visivo che proceda in stretto parallelo con quello scritto» ma semmai di farsi «illustrazione e richiamo memoriale delle situazioni narrativamente più coinvolgenti».
Accanto a immagini il cui riferimento iconografico è quello delle illustrazioni di Gonin (basti citare quella degli incubi notturni di don Abbondio o quella del Griso che deruba don Rodrigo malato di peste), non mancano «alcuni scarti significativi che segnalano come l’introduzione del cinema nell’illustrazione per i libri non comporti solo una ripresa degli elementi figurativi tradizionali, ma anche una trasformazione che porterà nel corso degli anni all’uso sempre più frequente dell’immagine fotografica rispetto al disegno».
Nell’ultima parte del capitolo dedicato alla «edizione cinematografica» della Hoepli, De Berti concentra la propria analisi sugli scarti che comporta il passaggio dall’illustrazione con il disegno a mano a quella fotografica-cinematografica:
«Il primo elemento innovativo nell’edizione Hoepli è dato dalla totale scomparsa dei ritratti dei personaggi, che affollano, invece – secondo la consuetudine ottocentesca – il lavoro di Gonin. Inoltre, buona parte dei disegni di Gonin sono incentrati su pochi personaggi, mentre i fotogrammi Ambrosio illustrano situazioni e ambienti di maggior respiro narrativo. Le scene tratte dal film mostrano una profondità di campo tale da creare più piani dell’azione perfettamente a fuoco. Il lettore/spettatore si trova nella posizione ideale di un osservatore che assiste in diretta allo svolgersi di un’azione. Non a caso spesso lo sguardo dei personaggi è rivolto verso un fuori campo, che appare come un voler chiamare direttamente in causa il lettore/spettatore per coinvolgerlo in quanto accade. A ulteriore dimostrazione di una maggiore attenzione della versione Hoepli-Ambrosio alla vicenda complessiva e alla sua ambientazione, rispetto allo studio sui singoli personaggi che prevale nei disegni di Gonin, c’è la totale assenza d’immagini della Monaca di Monza e del lungo flashback sul passato di Fra Cristoforo.
In conclusione, si può dire che dal confronto fra le due edizioni emerge una continuità indiscutibile a livello dell’iconografia dei personaggi e delle situazioni più note (…). A chiudere il flusso continuo e circolare dei prodotti dell’industria culturale che si rimandano e influenzano l’un l’altro in un costante rapporto intermediale è la notevole produzione di cartoline postali. Le cartoline, immesse sul mercato direttamente dalla società Ambrosio, sono illustrate con scene del film, molte delle quali identiche a quelle usate per il libro.
Il cerchio, dunque, si chiude: i disegni di Gonin creano una tradizione iconografica che si diffonde in vari campi tra cui il cui il cinema, il quale, a sua volta, metabolica le immagini rimandandole, con qualche variante, nel flusso circolatorio “alto” dei libri illustrati e in quello “basso” delle cartoline.
Si può, forse, ipotizzare, volendo riportare a osservazioni più generali le conclusioni, che il cinema negli anni Dieci comincia a svolgere una sorta di funzione cerniera, di terreno comune d’incontro, fra diverse tipologie di consumo, una destinata a un pubblico borghese più colto (come nel caso del Quo vadis?) e l’altra rivolta a un pubblico popolare (come per l’edizione Hoepli de I promessi sposi), facendo contemporaneamente da punto di confluenza e da cassa di risonanza di tradizioni letterarie e iconografiche diverse e diffuse nelle varie forme espressive».
IL FILM
Quella di Eleuterio Ridolfi è la terza delle cinque versioni cinematografiche risalenti all’epoca del muto del romanzo di Alessandro Manzoni.
Il primo film sui Promessi sposi è quello di Mario Morais del 1909, a cui segue quello del 1911 di Ugo Falena (commediografo e regista) prodotto dalla Film d’Arte. Nello stesso 1913, insieme al film di Ridolfi prodotto dalla Società Anonima Ambrosio, venne realizzata un’altra trasposizione del romanzo di Manzoni dalla Pasquali & C., I promessi sposi, per la regia di Ubaldo Maria Del Colle ed Ernesto Maria Pasquali. La stampa non mancò di dare ampio risalto alla rivalità tra le due case. La quinta e ultima trasposizione muta dei Promessi sposi è quella di Mario Bonnard prodotta in 2 parti nel 1922-23.
Due sono le versioni sonore per il grande schermo: quella di Mario Camerini del 1941 e la coproduzione italo-spagnola del 1964 diretta da Mario Maffei.
♦Per quanto riguarda I promessi sposi di Eleuterio Ridolfi, la rivista «La Cinematografia Italiana ed Estera» pubblicò nel novembre 1914 un inserto pubblicitario di 16 pagine con estratti della trama, passi del volume manzoniano, 6 fotografie a figura intera per i personaggi principali e 9 fotografie tratte dalle sequenze del film. Il film veniva presentato come suddiviso in sei parti.
Distribuito in Francia, Germania e negli Stati Uniti. La versione statunitense era lunga 6 rulli.
RECENSIONI IN ARCHIVIO per I PROMESSI SPOSI (1913) di Eleuterio RIDOLFI :
« La scoperta più piacevole di questi ultimi giorni di festival è venuta però da un film italiano, I Promessi sposi (Eleuterio Ridolfi, 1913) ovvero uno degli incunaboli del feature film. Il maestro della sceneggiatura muta, Arrigo Frusta, propone una versione narrativamente efficace del romanzo, conservando l’umorismo manzoniano, preservando nelle didascalie e nel montaggio i centoni delle scene celebri e costruendo persino una suspense sull’esito della vicenda. La recitazione moderna di Gigetta Morano (Lucia) e un uso interessante di esterni con ruderi ad evocare castelli e stradine lombarde, ci ricordano che accanto alle dive e alla retorica dei superspettacoli storici, il cinema italiano muto nazionale ha prodotto anche l’invenzione dell’adattamento letterario di largo respiro, l’uso di location reali invece che fondali dipinti e attrici come la Morano, riscoperta negli ultimi anni per la sua verve comica pre-femminista. »
(Giuliana Muscio, da un articolo dedicato alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, il manifesto, 16 ottobre 2013)
« Se quando Alessandro Manzoni – nei suoi lunghi conversari sulle attinenze tra storia e poesia – sosteneva all’amico Fauriel, (lo storico idealista), che la poesia non vuol morire, se avesse potuto fermarsi nella sua stanza a terreno, verso il piccolo giardino, e seduto restarvi immobile per il passare delle primavere, per l’aumentare dei morti, per l’isolamento delle opinioni, se d’allora avesse potuto arrivare a questo scorcio d’anno, ed assistere alla programmazione Ambrosio, avrebbe riaperto, con la piccola Firuly, il suo libro dei Promessi Sposi, e staccandovi leggero i muschi tenuamente verdi, scuotendoli dalla polvere sottilmente dorata, commosso avrebbe ripetuto all’amico: “No: la poesia non muore”. Nobile pellicola questa dei Promessi Sposi checché se ne voglia dire: il libro riapparisce nuovo e grande, la sua bellezza si sparpaglia su umili cose, la figura del poeta, ritorna in tutta la sua bontà e ci ridesta tante illusioni. Che facile, piana lettura è questa, e che degni esemplari ci dà della scuola italiana. Cosa può esservi di più gradito che trovarci animato davanti agli occhi quel lago tanto magistralmente descritto e così calmo e misterioso nella nostra immaginazione? Rivedere i muri e la piccola casa di Lucia? e il povero paesaggio nelle tinte rapite all’aperta campagna? e la piazzetta e il campanile… e le campane che chiamano a raccolta? e tutte quelle persone che palpitano di vita propria? È poesia questa: insensibile chi la nega. Io sinceramente mi rallegro con il cav. Ambrosio di questa sua edizione, ho già detto nobile. Mi rallegro non solo per la pellicola, ma per l’idea che l’ha informata e che è obbligo apprezzare in tutta la sua eccellenza. Mi rallegro con l’avvocato Ferrari [sic] (Frusta) che ha studiato per la divisione il romanzo, e innestati i quadri sul massimo rilievo dei capitoli e nell’insieme formato, ordinato, distribuito il bozzetto. Non era compito facile per il rispetto dovuto all’arte. Mi rallegro pure con il Ridolfi che l’ha messo in scena. Tanto i quadri che illustrano la carestia, quanto quelli che ci riportano tutti gli orrori della pestilenza sono un breve riassunto di storia, e girando con essi per le miserie di quei tempi, se ne conta le ore terribili. Questi quadri sono riprodotti con energia e fedeltà di concetto e con quello studio coscienzioso che da loro si richiede. Le figure livide sono conformi al carattere che l’autore ne porge dalle sue pagine, ne [sic] la scena poteva rendersi più tetra e più drammatica. È impossibile gettare l’occhio su tutto il quadro, senza che un’amara ricordanza ci spicchi viva all’anima. Tutto il film è dunque veramente degno del modello ed ammirabile. […] Ha richiamata la mia attenzione la figura dell’Innominato, personificata dal sig. Antonio Grisanti. Il quadro che va rivelando il contrasto interno primeggia per entrinseco valore artistico, tratteggiato con tono per l’effetto di luce, concentrata e distribuita sulla figura dell’attore, l’espressione del suo viso assurge all’evidenza richiesta dalla situazione e convince. Scelta molto bene la figura del Buzzi per il personaggio di Renzo. Egli ha una leggiadria svelta e nervosa nei movimenti quali si convengono all’amoroso giovinotto e attraverso tutta l’interpretazione il carattere è conservato con felice correttezza e lodevole misura. Molto a posto il sig. Chiesa nella parte di Rodrigo. Padre Cristoforo è determinato con solenne confidenza dal sig. Zocchi. Simpatiche nelle rispettive parti l’Eugenia Tettoni e la Gigetta Morano. Quest’ultima rende con intuito vero la riservata e ritrosa gentilezza cui è improntato il carattere di Lucia, e con la personificazione datane dall’attrice spicca la grazia delle sue maniere. Né va scordata la Schenini che, nella tipica figura di Perpetua, ha trovato una geniale e propria personificazione. Buon Don Abbondio il signor Scalpellini. Or dunque, qualunque possa essere la maggiore o minore convenienza di certi accessori, è certo che la Casa Ambrosio ha dovuto superare non poche difficoltà nell’allestimento di questa riproduzione, ma vi è completamente riuscita e ha messo favorevolmente alla luce un’opera a cui auguro d’esser compresa per quanto è eletta. E se dietro a se, le programmazioni lasciano qualche cosa, da questa, si rivela certamente tutta la verità di quella grande asserzione: La poesia non muore. » (E. Bersten, Il Maggese Cinematografico, anno I, n. 13, 25 ottobre 1913).
« Dei Promessi sposi di Pasquali già ho parlato nella passata corrispondenza di luglio. Qualche breve nota invece intorno all’edizione della Casa Ambrosio. Lodo la bella interpretazione della Gigetta Romano [sic] (Lucia) di Mario Waller Buzzi [sic] (Renzo) dello Scarpellini [sic] (Don Abbondio) che avremmo voluto meno caricato in qualche caso, del Chiesa (che preferiamo però assai di più nella Lampada della Nonna) e del Grisante [sic], che fa dell’Innominato una creazione personalissima. I sottotitoli non erano che periodi tolti dal romanzo e proiettati con ottima idea, che offrì al pubblico contemporaneamente la lettura dei passi scultorii del capolavoro illustrati dalla cinematografia. La messa in scena è stata in parecchi punti assai più grandiosa di quella di Pasquali, specialmente nelle scene della peste, che sono di un verismo impressionante. » (E. Geymonat, Cinema, anno III, n. 62, 25 ottobre 1913).
Sinossi: 
Lombardia, XVII secolo. Il matrimonio tra due giovani popolani, la mite Lucia Mondella e l’impetuoso Renzo Tramaglino, viene ostacolato da un signorotto locale, Don Rodrigo, che tenta invano di sedurre la ragazza e impedisce al pavido Don Abbondio di celebrarne le nozze col promesso sposo.
Fallito un tentativo di portare a termine la cerimonia con l’astuzia, Renzo e Lucia, quest’ultima insieme alla madre Agnese, abbandonano il paese su indicazione di Padre Cristoforo: il giovane andrà a Milano, mentre Lucia troverà ospitalità a Monza, in convento.
Mentre Renzo si trova coinvolto nelle agitazioni seguite al rincaro del prezzo del pane e scampa alla prigione fuggendo nel bergamasco, dove ha dei cugini, Lucia viene rapita: Don Rodrigo ha infatti chiesto l’aiuto di un temibile personaggio, l’Innominato, che ha fatto condurre la ragazza nel suo inespugnabile palazzo. I saldi principi morali e la fede religiosa della prigioniera acuiscono una crisi personale che l’Innominato sperimenta da qualche tempo, spingendolo a recarsi a colloquio dal Cardinal Borromeo.
Convertitosi al cattolicesimo, l’Innominato libera Lucia, che viene affidata alle cure di una famiglia benestante. La calata in Italia dei lanzichenecchi ha intanto scatenato una terribile peste; tra le molte vittime figura Don Rodrigo, abbandonato dai suoi bravi. È proprio al lazzaretto che Renzo e Lucia si rincontrano e, grazie all’interessamento di Padre Cristoforo, vengono finalmente uniti in matrimonio.
- GALLERY -