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I film della Panaria, gioielli senza età dei pionieri visionari

I film della Panaria, gioielli senza età dei pionieri visionari

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  3 settembre 2015

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Agli spettatori che si recano, in queste sere di fine estate, alla chiesa dello Spasimo felicemente recuperata per il ciclo di proiezioni “allo scoperto” della rassegna “Esco” (concepita con intelligenza da Andrea Inzerillo e realizzata dalla Sudtitles grazie al sostegno della Siae e sotto l’egida del Comune di Palermo, in corso fino a domenica 6 settembre), è concessa una formidabile rêverie siciliana: la proiezione, distillata ad anticipare ogni film in programma, dei cortometraggi della Panaria, dovuto omaggio ai “ragazzi” della pioneristica casa di produzione e soprattutto al suo artefice palermitano, il principe imprenditore Francesco Alliata di Villafranca, scomparso a 95 anni il 1° luglio scorso. Di queste perle entrate a far parte della storia del documentario, del loro permanente valore estetico e antropologico ha parlato, nella serata inaugurale della manifestazione, Alessandro Rais, attuale responsabile dell’Ufficio Cinema alla Regione e promotore del loro restauro operato dalla Filmoteca Regionale Siciliana nel 2006. Si tratta dei primi sei film targati Panaria, girati tra il 1947 e il ‘48 per la durata media di 10 minuti, che si proposero, fin dalla loro diffusione nei prestigiosi festival internazionali ai tempi dell’exploit neorealista, di raccontare  con asciutto lirismo le forme epifaniche di luoghi, ambienti e figure di una Sicilia sospesa nella mitologica asprezza dei suoi paesaggi naturali e dei suoi umani rituali incontaminati: la spietata fenomenologia della pesca del tonno in “Tonnara” e quella del pesce spada in “Tra Scilla e Cariddi”, l’arcaico territorio sulfureo e faunesco di Vulcano in “Isole di cenere” come l’umile quotidianità della rada popolazione di Panarea e Lipari in “Bianche Eolie”, e poi il gran teatro di  “Opera dei pupi”, sullo sfondo dei templi siciliani e dell’Isola Bella di Taormina e, in cima a tutti, il primigenio sguardo subacqueo di quella straordinaria impresa cinematografica che rimane “Cacciatori sottomarini”.

Ormai può dirsi rinomata l’avventura produttiva della “Panaria Film”, grazie anche all’amorevole cura della scrittrice e islamista Vittoria Alliata, figlia di Francesco, che ne mantiene vivida la memoria e che, nell’ambito della rassegna allo Spasimo, presenterà, venerdì prossimo (insieme a Laura Cappugi e prima della proiezione di “Vulcano” di Dieterle con la Magnani, la produzione Panaria che fronteggiò il coevo “Stromboli” di Rossellini con la Bergman), la recentissima autobiografia del padre, “Il Mediteranneo era il mio regno”, edita da Neri Pozza. È proprio nelle pagine di questo memoriale fluido e acutissimo che è possibile soppesare, assieme alla notevole caratura del suo autore, la storica rilevanza dell’impresa di quei “ragazzi” (Quintino di Napoli, Pietro Moncada e Renzo Avanzo, con la complicità di Fosco Maraini) guidati dal demiurgico Alliata, già cineasta sperimentato sul fronte bellico come ideatore di un Fotocinereparto. Dal 16 agosto al 30 settembre 1946 si consumò la prima sfida al silenzio ancestrale di quella terra e di quel mare fino ad allora cinematograficamente inesplorati. Tremila metri di pellicola girati in 45 giorni d’immersioni con una Arriflex 35 millimetri usata per riprendere gli ultimi bombardamenti del ’43 in Sicilia, la novità tecnica di riprese in apnea senza alcuna garanzia di riuscita (lo sviluppo avvenne settimane dopo nello scantinato di una banca a Palermo), il battesimo sottomarino reso possibile dall’ingegnosa costruzione di un rudimentale “scafandro per cinepresa” agganciato a un cilindro regolatore, il paziente e continuativo stare ammollo sotto il sole cocente cibandosi di uova dure, capperi e di una qualità di cioccolato in dotazione alle truppe americane: il risultato è “Cacciatori sottomarini”, presentato al Festival di Cannes nel ’47. A questo seguirono le vicissitudini di “Tonnara”, documento rimasto unico sulla pesca del tonno girato a Castellammare, ripresa di “canti, invocazioni, riti” e di una mattanza la cui pericolosa fase finale costrinse Alliata stesso a convivere con le prede in agonia, una volta immerso con la cinepresa dentro una massiccia gabbia di rete a forma di culla, la “camera della morte”. E poi la spericolata caccia melvilliana di “Tra Scilla e Cariddi”, con i “ragazzi” operatori legati alla vita da una corda sottile trattenuta sulla barca o distesi fra i piedi dei rematori, soggiogati dalle vorticose correnti dello Stretto di Messina, condotti a sfidarne il ritmo con un periscopio al contrario costruito ad arte per cogliere i fulminei volteggi del pesce spada inseguito. Oggi come oggi, chiunque assista a queste straordinarie espressioni di un dissolto status millenario stenta a credere che la loro armonia compositiva sia costata tanta faticosa abilità. E, al di là dell’attuale abitudine al trucco digitale, tale effetto è dovuto alla tranquilla determinatezza dell’ispirazione che ha animato i corti della Panaria.  A illuminare con forza Alliata e i suoi “ragazzi” fu la volontà di condividere emotivamente con gli spettatori un desiderio di conoscenza, la stessa volontà che anima tutti gli autentici visionari.

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