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Godard l’esausto, in “InTrasformazione”, vol. XI, n. 2 (22), 1 ottobre 2022

Godard l’esausto, in “InTrasformazione”, vol. XI, n. 2 (22), 1 ottobre 2022

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Tipologia:  Articolo

Data/e:  1 ottobre 2022

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

 

Non ci sarà mai dato di sapere se sia stata veramente sua la scelta di definirsi esausto all’annuncio del proprio suicidio assistito. Fatto sta che il termine esausto si addice a quelle due o tre cose che si sanno sull’ultimo Godard, morto il 13 settembre scorso a 91 anni in un paese, la Svizzera, nel quale chiunque può decidere di estinguersi da estenuato grazie a una legge che risale al 1937.

Per Gilles Deleuze, che intorno a questo termine ha costruito il suo levigatissimo saggio dedicato a Beckett (“L’épuisé”, in Italia pubblicato da Cronopio nel 1999), esausto non vuol dire stanco, e questo perché «lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile». L’esausto non è stanco, piuttosto è sfinito, in quanto «ha rinunciato a qualsiasi bisogno, preferenza, scopo o significato». È probabile, anzi certissimo, che da tempo Godard vivesse la condizione di esausto. E che la vivesse con una certa malinconica euforia.  Lo si può intuire guardando i suoi ultimi magnifici film-frantoio che giocano beffardamente a distorcere, spesso fino a provocare il caos della percezione e del senso, le tante possibili immagini utili a (s)comporre le mille historie(s) du cinéma che sono la storia (per l’ appunto estenuata) di uno sguardo solo, il suo.

Se l’ultimo Godard dell’esilio in Svizzera era esausto, insomma, lo era alla maniera di Deleuze. Il quale attribuisce all’esausto qualità come il disinteresse e la scrupolosità.

E ci dice che «bisogna essere esausti per darsi all’arte combinatoria, a meno che sia l’arte combinatoria a sfinirci, a portarci all’esaurimento, o che siano addirittura entrambe, combinatoria ed esaurimento».

Dunque l’esausto ha a che fare l’esaustivo. E, a ben pensarci, entrambi i termini si addicono all’ultimo Godard. Il Godard engagé che aveva respinto il destino profetizzatogli da Serge Daney, quello di trasformarsi in un mero ripetitore d’immagini. Il Godard che, in vecchiaia, aveva abbracciato, con un poetico entusiasmo da neo-situazionista, l’arte combinatoria.

Con i suoi film-saggio, dove le sequenze d’immagini originali e di repertorio si mescolano alla visualizzazione di lacerti di citazioni letterarie e filosofiche, e dove il regista evoca i propri fantasmi per giocare a confondersi con loro (è la trama di tutte le sue ultime opere di fiction mancate e mancanti), Godard si era affrancato, ormai da tanti anni, non tanto dal gioco del cinema quanto dal suo giogo che lo obbligava a raccontare storie.

E, una volta liberatosi da ogni vincolo narrativo nelle sue opere, aveva continuato a fare quello che aveva sempre sostenuto di aver fatto: pensare cinematograficamente, ossia pensare al cinema.

Quando lo intervistavano da enfant terrible della Nouvelle Vague, lui dichiarava di considerarsi un saggista: «Faccio saggi in forma di romanzo o romanzi in forma di saggio: solo che li filmo invece di scriverli». Non aveva mai smesso di praticare l’esercizio del pensiero critico sul cinema e sulla realtà.

Esaustivo lo è stato, l’esausto Godard, nel formulare in tanti modi (sempre con una causticità che sapeva farsi crudelissima), e attraverso tante combinazioni, un’unica ossessiva domanda riguardante il destino delle immagini qui e ora. Che è il destino del mondo e delle sue rappresentazioni oltre a essere il destino del cinema (o di quel che ne resta dopo le sue tante mutazioni). Fin dall’inizio del proprio percorso di cineasta (esemplarmente coerente), Godard aveva voluto flirtare pericolosamente con l’idea della morte del cinema, ne aveva fatto uno dei fulcri concettuali delle sue clamorose, funamboliche sperimentazioni. Prima l’aveva teorizzata, questa morte, con infinite variazioni esorcistiche («Nessun film finisce, ogni film è la critica e il superamento del precedente»), e poi era arrivato addirittura a desiderarla alimentando la propria furia iconoclasta, da rivoluzionario duro e puro. Nel ’68 i militanti della sovversione come Godard volevano letteralmente distruggere il cinema insieme al mondo di cui era lo specchio. In seguito, la rabbia si era trasformata in una specie di tormentata adesione a un dogma filosofico e sentimentale sul potere immarcescibile delle immagini («Un’immagine è un’immagine, che sia pittorica o meno. L’ottica non cambia. Finché avremo due occhi, non cambierà»). Insomma, da tempo per Godard, cineasta-filosofo del Novecento, fare cinema significava assistere ciclicamente alla sua morte e resurrezione. Significava meditare incessantemente e febbrilmente sull’esercizio di una passione che può farsi magnificamente concreta quando si mescola alla vita e la (re)suscita.

Non è certamente un caso che il film più prismatico e paradigmatico del Godard teorico s’intitoli Passion.

Questo film del 1982, che espone con sublime ironia tutte le possibili domande sul senso e il sentimento del fare cinema, ne contiene un altro girato in elettronica (allora si diceva così), due anni dopo: Scénario de passion, una specie di diario di lavorazione, dove Godard denuncia con sarcasmo tutta la propria diffidenza nei riguardi della sceneggiatura.

Il cinema non si può raccontare prima, ci dice, ma solamente dopo, come i sogni che sembrano quelli quando li raccontiamo, ma che in verità sono ciò che sono nel momento in cui si proiettano dentro di noi.

Quello che il cinema elabora nel suo farsi (e anche nel suo disfarsi) è dunque l’unica realtà che conta. Al cineasta spetta il compito di lavorarla, questa realtà, lasciandola trasparire concretamente, con critica passione. Anche per tale motivo non può morire l’immagine.

Godard ha sempre lavorato disperatamente a far (r)esistere le immagini. E ultimamente non solamente quelle realizzate con straordinaria intelligenza visuale, ma pure quelle dell’archivio della storia del cinema che egli ha saputo metabolizzare e rendere epifaniche nell’anamorfosi cinefila dei suoi recenti film-saggio.

Poi, a un certo punto, anche lui ha cominciato ad arrendersi, postulando un Adieu au langage (titolo della sua penultima opera del 2014, girata beffardamente in 3D) che è una rarefatta elaborazione del lutto riguardante non tanto le immagini ma appunto il loro linguaggio, insieme al linguaggio tout court. Quello che si era esaurito per l’ultimissimo esausto Godard alla soglia dei 90 anni, era il possibile.

Ci avverte Deleuze nel suo saggio, che si può operare per esaurire il possibile sia impegnandosi a «formare serie esaustive di cose», sia a «dissolvere la potenza dell’immagine».

Nel finale di Le livre d’image (2018), diventato giocoforza il film-testamento, Godard fa affacciare su uno schermo buio la propria voce arrochita, e via via sempre più distorta da un deformante riverbero elettronico. Una voce, la sua, che legge, con sgranata e atonale fluidità beckettiana, quello che risuona come lo scampolo di un appello all’utopia («Anche se niente è stato come avevamo sperato, ciò non cambierà in niente le nostre speranze»).  D’improvviso, ecco nuovamente aprirsi il libro d’immagini. E non è un caso che a riempire lo schermo sia una celeberrima sequenza tratta dal sublime Le Plaisir di Max Ophuls. Quella che mostra il crescendo della danza vorticosa di un vecchio signore in frac che esibisce l’artificio di una maschera levigata utile a farlo apparire giovane, fino a quando uno spasmo ne annuncia la marionettistica caduta sul pavimento tra le danzatrici sconvolte. No, non è davvero un caso che l’ultima sequenza di un film del geniale, irripetibile, necessario Godard nostro contemporaneo riguardi l’ultimo respiro di un esausto, la sua fulminante resa.