Gli affondi di Brancati sulle colpe del fascismo
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  19 giugno 2016
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
“Le nostre colpe ci seguono”, così recitava la fascetta rossa applicata alla prima, e ormai introvabile, edizione di un libriccino di 70 anni fa che ha ancora qualcosa da dirci. E visto che si tratta di “colpe” legate a perenni qualità italiote, conformismo e trasformismo in primis, possiamo pure dire che non è affatto invecchiato “I fascisti invecchiano”, seconda raccolta di prose (dopo “I piaceri”), che Vitaliano Brancati affidò, nel 1946, alla sapienza editoriale di Leo Longanesi (a cui si deve l’evocativo titolo), recuperando articoli e saggi apparsi in alcuni periodici. Nel suo capitolo più citato, “Istinto e intuizione”, lo scrittore di Pachino si ritorce su se stesso, argomentando su quanto sia stata disonorevole la propria giovanile adesione al fascismo. Qui l’analisi si fa dunque autoanalisi, alchimia di pensiero che regala uno speciale valore di verità a ogni successivo giudizio. Nelle altre pagine è facile rintracciare figure e motivi ricorrenti in Brancati, quel suo sapiente miscelare saggistica e narrativa, insieme alla caratura della sua ironia da gran moralista. Provate a confrontare la smagata comicità di questi capitoli con quella degli odierni testi, precocemente invecchiati, di certi supponenti scrittori di costume, quasi tutti genuflessi davanti all’altare del politicamente corretto. A segnare la differenza è soprattutto il fatto che negli affondi critici di Brancati, nella sua indagine sui persistenti conformismi e autoritarismi presenti in ogni aspetto della “società civile”, non troverete alcuna compiacenza dell’autore verso se stesso. Per questo anche il lettore più intimidito può sentire dalla propria parte il Brancati di “I fascisti invecchiano” (come, del resto, quello del “Diario”), mentre racconta la provinciale parabola del brigante terrorizzato dalle profezie di un medico sui fatti del ’43; oppure quella dell’ostinato notaio delatore che, all’indomani del fascismo e della guerra, riempie di accuse vecchie le sue nuove lettere anonime contro l’odiato avversario di sempre; o ancora quella del Natale degli ex-gerarchi trasformisti intenti ad assaporare la nuova “libbertà”. Arrivando così alla toccante storia vera di Filadelfio Rapisardi, prigioniero da anni in Etiopia, uno per il quale Brancati, da amico commosso, avverte l’obbligo di manifestare (e lo fa in una lettera alla moglie Anna Proclemer) quel “sentimento di pietà e ribellione” che per lui andava speso soprattutto nei riguardi delle “sole persone che contino nel mondo, i disgraziati coperti di sputi e di fango dai potenti di ieri e da quelli di oggi”.
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