domenica, 19 Maggio 2024

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Dansen

Dansen

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Tipologia:  Dramma

Di:  August Strindberg

Regia:  Umberto Cantone

Location:  Teatro Biondo Stabile di Palermo

Data/e:  29 febbraio - 11 marzo 2012

Produzione:  Teatro Biondo Stabile di Palermo

Cast:  Nello Mascia, Liliana Paganini, Alfonso Veneroso, Eva Drammis

Costumi:  Dario Taormina

Scene:  Pietro Carriglio

Note: 

Traduzione: Carlo Terron

Luci: Pietro Sperduti

Regista assistente: Luca D’Angelo

Direttore di scena: Sergio Beghi

Foto di scena: Tommaso Le Pera

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NOTE DI REGIA di Umberto Cantone

Il luogo di Strindberg è Strindberg stesso.

«Mentre stavo seduto sulla scrivania fui preso da un accesso di febbre. […] Ero in preda alla febbre che mi scuoteva come un materasso di piume, che mi afferrava alla gola per strangolarmi. […] Ma io non volevo morire. Le opposi resistenza e la lotta si fece accanita; i nervi si tendevano, il sangue scorreva veloce nelle arterie, il cervello si contorceva come un polipo nell’aceto. Di colpo, convinto che stavo per avere la peggio in quella danza macabra, mollai e mi lasciai cadere riverso, abbandonandomi alla stretta del terribile».

In un passaggio delle sue memorie, Strindberg prova a decifrare il trauma del proprio crollo psichico: Dödsdansen, la danza macabra, è per lui, innanzitutto, l’espressione di un sentimento di rovina.

Un sentimento che Georg Simmel definiva più «triste» che «tragico». Perché l’uomo non può avvertire se stesso come rovina benché la rovina rientri nel naturale dettato dell’esperienza umana.

Il teatro di Strindberg somiglia a quei paesaggi seicenteschi dove le architetture sovrastano la dimensione della figura umana, dentro il tempo circolare della rovina che assimila il ricordo del passato al perenne senso di vuoto del presente.

Nel nostro spettacolo, la scultura scenografica di Pietro Carriglio è lo scheletro di una prigione metafisica che proietta in platea il ring, assecondando la prospettiva drammaturgica sperimentata da Friedrich Dürrenmatt nella sua densa riscrittura di Danza macabra.

La scenografia di Carriglio allude così alle architetture della psiche: un omaggio all’impianto concettuale della letteratura di Kafka, e un concettuale richiamo all’esperienza umana della rovina. La prigione carragliana si fa reificata presenza “musicale”: campane e tubi, risonanze di Bach, la musica della malinconia.

Seguendo l’idea di Strindberg, il nostro spettacolo propone l’interno borghese in quanto soglia. Una dimensione liminare,  né fuori né dentro, un habitat d’incertezza e di crisi dove i personaggi si preparano a una partenza continuamente rinviata. I personaggi di Dansen sono prigionieri dell’isola che abitano. E l’isola che abitano è Strindberg stesso.

Ad Alice e a Edgard è riservata l’attesa di una peste annunciata, come in un sacrificio di bergmaniana memoria.

In questa Danza non può esserci se non l’indicazione a un fin de partie: la coppia di coniugi esibisce la propria terminale vitalità avvelenandosi reciprocamente in un sottile gioco al massacro. E nel far questo, intrappola nella sua rete mortuaria   il visitatore debole Kurt. Dal canto suo, come un angelo del male,  la governante Jenny predispone l’avvicendarsi di entrate e uscite prive di porte.

Dansen è la messinscena del cul de sac di ogni crudeltà coniugale, domestica. E la coppia si dilania fino a schiantarsi, prosciugandosi nell’attesa febbrile di un’altra quarantena. I due protagonisti del dramma finiscono per riconoscersi irreparabilmente nel conflitto che li attanaglia, e diventano essi stessi polverosi oggetti del museo familiare che è diventata la loro casa.

Nell’annunciare, con speciale ferocia, la rovina di ogni umana illusione di dare senso al tempo, Strindberg ammonisce noi tutti sulle tragiche sorti delle relazioni familiari . E su questa annichilente, beffarda, constatazione impianta il segno del suo magistero teatrale.

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