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Ricostruzione di un mistero – “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi

Ricostruzione di un mistero – “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  20 marzo 2015

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Mostrare la realtà in tutte le sue torsioni, nel momento stesso in cui la si vuole interrogare, è impresa difficile.

E il cinema, che della realtà dovrebbe essere la lingua (come auspicava Pasolini), sembra da un po’ di tempo in qua sottrarsi con incoscienza a tale sua vocazione.

Uno dei motivi che, a cinquant’anni e oltre dall’uscita, fa di Salvatore Giuliano un film ancora radicalmente esemplare, modello per gli odierni engagés di buona volontà, è che esso conduce il sentimento profondo di una interrogazione sulla realtà, utile a conferirle  quel senso in più che ci si aspetta di cogliere in ogni sua rappresentazione.

Fu così che l’affaire Giuliano, ancora rovente in quel 1962 quando l’opinione pubblica già subodorava i mefitici fetori degli intrighi di Stato, si trasformò per Rosi, cineasta duro e puro, nello specchio concavo da cui sbalzarono, con inedita forza, i contorni di quello che diventò uno dei luoghi eletti delle sue indagini problematicamente prive di soluzioni: l’immagine denudata della Sicilia e del suo mistero gravato da un fatale destino d’irredimibilità.

Per quel film, paragonato dal suo stesso autore a «un mulo che scalcia perché non vuole messo sulla groppa il sovrappiù del carico che riesce a portare», occorreva innanzi tutto un esercizio di sottrazione. E dunque, via qualunque orpello documentativo inizialmente previsto in sceneggiatura (i brani dei cinegiornali sullo sbarco alleato nell’isola, sulle imprese armate del movimento separatista osteggiato dal primo governo Parri, sul narcisismo mediatico di Giuliano e sui funerali dei carabinieri da lui uccisi); via la linearità narrativa assieme a ogni concessione estetizzante o enfasi epica. E via persino i primi piani del bandito protagonista, la cui calamitante presenza andava più avvertita che mostrata: una scelta d’invisibilità, quella di Turiddu nel film, che persino all’entusiasta esegeta Leonardo Sciascia sembrò ambigua, perché «se da un lato rendeva più dura l’accusa verso la classe dirigente che lo muoveva, dall’altro non faceva che confermarne il mito».

Rinunciando alla metafora prosastica di Giuliano (che rese convenzionali film coevi come I fuorilegge di Vergano o Morte di un bandito girato da Peppino Amato), Rosi operò cercando di allontanare il presente per avvicinare il passato, preferendo dialogare liricamente con il paesaggio naturale e umano di quella vicenda esemplare, esplorandone la sostanza tragica attraverso i rapporti «tra Giuliano e gli altri siciliani, tra Giuliano e la vita contemporanea di quell’epoca», come lui stesso dichiarò più tardi. E se per un verso Mario Soldati parlò equivocando di «documentario magico», per un altro verso Umberto Eco salutò come rivoluzionario (in una nota del suo Opera aperta, datato 1962) l’utilizzo straniante che il regista fece del flash-back, diventato il contenuto critico di un’opera dove «allo spettatore viene raccontata una storia oscura da un autore che è vittima della stessa oscurità». Non sorprende allora il fatto che da tanta ombrosità d’autore sia scaturita un’illuminante, storica svolta: fu lo scandalo rivelatorio di quel film, infatti, a spingere il governo nazionale ad ammettere l’esistenza della mafia, nell’accettare la richiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana di una commissione d’inchiesta sul fenomeno.

Salvatore Giuliano fu girato nei luoghi (Montelepre, Castelvetrano, Montedoro) e con i testimoni di quei fatti in cui la verità doveva essere solamente intravista per poter essere percepita in quanto tale.

L’esperienza di set fu vissuta al pari di uno psicodramma dagli attori, tutti non professionisti ad eccezione dell’americano Frank Wolff nei panni di Pisciotta e, come Presidente della Corte al processo di Viterbo, del nostro Salvo Randone, nel cui sgomento si rispecchiò la dolente causticità partenopea del regista.

Per la scena durante la quale le donne sfidano pubblicamente i soldati che ne hanno rastrellato i mariti perché complici omertosi del bandito, rimediando all’iniziale rifiuto d’impersonarle da parte delle monteleprine, si pensò di ricorrere ad alcune palermitane del quartiere Kalsa, la cui rivale presenza trascinò per reazione le prime a decidersi di rivivere davanti la macchina da presa quell’episodio che le aveva sconvolte.

E per il materno compianto del cadavere di Turiddu, rinvenuto nel cortile diventato teatrino dell’inganno mai chiarito di una morte occultata dalla Ragion di Stato, Rosi scelse una popolana alla quale era stato ammazzato il figlio che, nel rievocare il proprio strazio, non fu capace di fermare le lacrime nemmeno a “si gira” ultimato. Lo stesso accadde alle comparse scelte per la potente sequenza della strage di Portella della Ginestra (ricostruita dalla prospettiva delle vittime senza inquadrare le bocche di fuoco dei carnefici), che dovettero mimare il medesimo terrore provato nel 1° maggio di quattordici anni prima.

L’onda di quell’identificazione collettiva trovò sbocco all’anteprima del film, avvenuta davanti alla popolazione di Montelepre un anno dopo le riprese, dove mentre montava l’indignato clamore da opera dei pupi suscitato dalla rappresentazione sullo schermo del tradimento di Gaspare Pisciotta, il fratello di questi, presente alla proiezione, si schernì urlando un «Non è vero niente!» risentito.

La memoria presente di Salvatore Giuliano, film che non si limita a celebrare meccanicamente la liturgia del cinema civile, è dunque alimentata dall’alchimia di un transfert ancora capace di tracimare, come elaborazione del persistente malessere provocato in noi da questo come dai tanti altri enigmi irrisolti che hanno segnato, a partire da quei fatti siciliani, la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni.

Ora che di quella Sicilia vera è rimasto solamente l’archetipo, possiamo permetterci di ritrovare, nell’evento della sua giusta riproposizione, quel senso in più regalatoci dal cinema perturbante di Francesco Rosi: l’utopia possibile del superamento di quello status quo che ogni potere impone quando s’industria a nascondere la realtà del mondo.

 

In occasione della proiezione di Salvatore Giuliano al Cinema De Seta (Venerdì, 20 marzo 2015) nell’ambito della manifestazione «Le due Sicilie di Francesco Rosi», a cura di Franco Maresco per l’Associazione Lumpen di Palermo.

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