“La Vedova Couderc” di Georges Simenon, in “Lo Straniero”, anno XVIII, numero 174/175, dicembre 2014/gennaio 2015
Tipologia:  Note
Data/e:  11 dicembre 2014
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Per un cultore di Georges Simenon indicare quale sia il preferito tra i tanti suoi romanzi non può che essere una verifica dolorosa oltre che incerta. Scegliere il titolo eletto mi costringe a proclamare la capitale di un territorio sconfinato. Ma se proprio una scelta va fatta, allora che sia il primo. Per quel che mi riguarda, il primo dei romans durs che a tempo debito ho letto perché l’ho scelto (o si è fatto scegliere). Un libro a cui peraltro debbo la mia passione da collezionista compulsivo delle edizioni simenoniane. Divorato da adolescente in un paio d’ore, La veuve Couderc è stato per molto tempo il mio Simenon più perturbante (e in qualche modo lo è ancora). Lo trovai talmente avvincente e spigoloso che ebbi voglia immediatamente di rileggerlo nella stessa edizione della prima volta, quella dell’Oscar Mondadori 1971 la cui brossura si sfaldava facilmente. Una edizione impreziosita dalla copertina disegnata da Ferenc Pintér, le sagome di due gendarmi che conducono alla ghigliottina Jean Passerat-Monnoyeur, il giovane outsider diventato l’assassino della vedova del titolo. Un disegno che ben sintetizzava quella storia implacabile. Inizialmente è stato il personaggio di Jean a imbrigliarmi. Mi identificai in lui, anche perché mi apparve più vittima che carnefice, un vero e proprio martire in balia di quel gineceo campagnolo che è il regno della vedova Couderc. Insomma, il romanzo lo lessi inizialmente come una specie di Notte brava del soldato Jonathan (il film di Don Siegel con Clint Eastwood, che m’impressionò da ragazzo). Mi affezionai a quella figura di giovanotto borghese (come me) in fuga perché ribelle per vocazione, uno che s’immerge nella sperduta campagna di Montluçon nell’Alvernia, prima vagando “leggero come un uomo che niente tiene legato a niente” e poi abbandonandosi al miraggio delle “ore regalate” con “la testa piena di luce”, simile in questo al Meursault di Camus che tanto avevo amato. Inizialmente scivolai sulla superficie cristallina di questo romanzo dalle simmetrie ingannevoli, trovando analogie con un altro Camus che mi aveva suggestionato, quello delle Réflexions sur la guillotine. In questa lettura fui confortato dalla versione cinematografica di Pierre Granier-Deferre, infarcita in modo disinvolto di riferimenti engagés all’Affaire Stavisky e all’Action Française, e che aveva un finale molto ruffiano al ralenti in stile New Hollywood. Sotto certi aspetti quel film mi deluse. Lo vidi dopo aver letto il romanzo. E perciò trovai fuori ruolo il Jean di Delon, troppo sfacciatamente solare, e pure Simone Signoret, che avevo appena ammirato in Le chat, altro Pierre Granier-Deferre da Simenon, mi sembrò troppo matronescamente morbida come vedova Tati. Avrei preferito al loro posto il più vibrante Patrick Dewaere, con la sua fragilità nevrotica, e magari Anna Magnani (ai tempi di Pelle di serpente), una milf dalla sensualità orgogliosamente sfatta (lei forse avrebbe accettato di esibire il porro peloso, quel segno di concupiscenza animalesca che, nel romanzo, “orna” il volto della Couderc). Oggi non ho cambiato idea su Delon, e invece mi pare formidabile la Signoret. Tornando al libro, furono le successive riletture a farmi apprezzare la sua inquietante costruzione spiroidale, oltre che i temi e lo stile materico di Simenon. Anche in La veuve Couderc, come in altri romans durs della sua preziosa produzione, Simenon ci spinge a entrare nel vortice esistenziale di personaggi terminali, morituri che macinano gli ultimi aneliti vitali, ognuno nel proprio dannato inferno quotidiano. L’amore che lega la vedova e il fuggiasco nel claustrofobico santuario rurale dei Couderc non può che essere un amore acido. Quella che i due abitano è una delle tante stanze della tortura che Simenon allestisce per iniettarci a dosi sempre maggiori la sua nichilistica visione dei rapporti umani. Per lui ogni manifestazione di rapacità familiare (e ancestrale, sociale, culturale), così come ogni pulsione sessuale (o deviata o negata), diventano presagi di un destino senza redenzione. Se da adolescente per me era Jean il protagonista del romanzo, oggi per me è Tati a esserlo. Il suo è uno dei personaggi femminili più potenti di Simenon. Una umanissima virago autodistruttiva che trascina con sé Jean, dopo averlo sedotto con la complicità della ragazza madre Félicie (a proposito, nel film Ottavia Piccolo è perfetta per il ruolo) fino al conclusivo omicidio/suicidio. Ormai mi sono pure chiari gli innesti autobiografici che Simenon dispone (chissà quanto inconsciamente), attribuendo a Tati la malinconia nevrotica e il risentimento rabbioso dell’amata/odiata madre Henriette, mentre i personaggi del pusillanime cognato della stessa Tati e della riottosa preda di Jean hanno i nomi di suo padre Désiré e della sua zia matta Félicie. Basterebbe questo a fare della Veuve Couderc un romanzo capitale dell’arcipelago Simenon, una delle più limpide espressioni della sua fibrillazione, della sua sincerità di scrittore. Comunque, caro Goffredo, mi hai chiesto un solo titolo e te l’ho dato, appunto come se fosse il primo e l’ultimo di Simenon. Anche se ormai credo che il vastissimo territorio simenoniano abbia più di una capitale.
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