Storie di casa Schicchi: se la libertà sessuale è un’eredità paterna
Tipologia:  Articolo
Testata:  la Repubblica / Palermo
Data/e:  sabato 2 marzo 2019
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Non c’è foto o filmato che non l’abbia immortalato in giacca e cravatta, a ostentare un aplomb da viveur emaciato e un sorriso a tastiera di fisarmonica, capace di suscitare una certa complice simpatia di stampo machista riservata agli strateghi di quel mercato dell’erotismo che un tempo, anche in Italia, ha saputo farsi promotore di valori libertari.
Sull’avventurosa storia di Riccardo Schicchi, scomparso a 59 anni nel 2012 per una perniciosa forma di diabete mellito, è da tempo calato un ingiusto velo d’oblio.
E così davvero in pochi rammentano l’origine siciliana di colui il quale arrivò a essere, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, il Pippo Baudo dell’hardcore nazionalpopolare, l’invidiato artefice delle combattive carriere delle pornodive engagé Moana Pozzi e Cicciolina, sempre in prima linea a issare le bandiere nelle piazze oltre che a farle issare ai loro spettatori dagli schermi.
Già nella sua schietta autobiografia, edita nel 1995 con il titolo di “Oltraggio al pudore”, Riccardo ha rivendicato orgogliosamente le proprie radici isolane dovute al padre Giacinto, originario di Collesano e che lo aveva messo al mondo nel 1953, mentre dirigeva da ufficiale l’idroscalo di Augusta.
Lì il futuro imprenditore a luci rosse aveva trascorso i suoi primi tre anni di vita, sufficienti a creare un legame indissolubile con l’isola, in cui ritornava ciclicamente dopo il trasferimento a Roma.
Pare infatti che per lui, come per il personaggio brancatiano di Paolo il caldo, la sicilianità fosse un attributo legato precipuamente all’eros, una peculiare qualità genetica in grado di provocare un insopprimibile impulso alla lussuria.
Ma è pure vero che i pruriti precocemente avvertiti da Riccardino — quando si comportava da infoiato Gianburrasca scandalizzando i coetanei messinesi che una volta arrivarono a punire la sua ostentata disinibizione costringendolo a spogliarsi integralmente in piazza Cairoli — erano un caratteristico marchio di famiglia, così come lo era l’attitudine alla trasgressione.
E che sia esistita una vocazione comune della dinastia degli Schicchi lo scopriamo in un libro dove la biografia del controverso manager assume i connotati di una saga. Pubblicato dalle Edizioni Arianna di Geraci Siculo, arriva in libreria “Giacinto e Riccardo Schicchi – La famiglia, gli aerei, la pornografia”, nuova fatica di Nicola Schicchi, cugino di Riccardo e autore di un altro volume dedicato alla vita del prozio Paolo, un acceso anarchico che il fascismo condannò al carcere e al confino.
Per capire poi che cosa c’entrino gli aerei nella vicenda di questa eccentrica stirpe, dobbiamo immergerci nei trascorsi avventurosi del padre militare di Riccardo, quel fascistissimo Giacinto che si era guadagnato i suoi gradi in Africa settentrionale come aviatore dello smandrappato esercito di Mussolini.
La medaglia di bronzo attribuita alla sua eroica tempra di combattente, durante la stessa battaglia area del luglio 1941 in cui venne fatto prigioniero dagli alleati, fu utile ad ammantare di rispettabilità la sua reputazione già macchiata dall’ingiurioso epiteto di “porcello”, affibbiatogli in gioventù proprio dallo zio anarchico (con il quale poi entrò in ideologico contrasto) per via della sua attitudine di aitante “fimminaru”.
Un’attitudine che lo fece approdare, dopo tanta dongiovannesca spavalderia, a un quieto matrimonio altolocato con la figlia di un questore che era stata miss di bellezza a Reggio, predisposta a diventare madre borghesissima e cattolica zelante.
Non sfuggirà al lettore quanto questo libro tenti di annodare tra loro i destini di padre e figlio seguendo l’adagio secondo il quale buon sangue non mente mai.
Apprendiamo che l’ex “porcello” fece carriera fino a conquistare il grado di generale, posizione austera che l’obbligò a contrastare (ma senza troppa convinzione e con qualche rigurgito nostalgico) l’inquietudine che albergava nel Dna dello scapestrato rampollo, prima di essere stroncato, a 64 anni, da un infarto fulminante.
Era il 1981 e Giacinto aveva fatto in tempo a seguire le prime tappe della degenerata ascesa del suo Riccardo.
Inizialmente come fotografo di pruriginosi reportage che, durante l’epocale sbornia della sexual revolution, sfidavano la censura assecondando commercialmente la sempre più diffusa voglia di pelo, patinato alla “Playmen” o ruspante tra le pagine di “Le Ore”.
E in seguito, come affabile pigmalione di Ilona Staller, alias Cicciolina, incontrata nel ’73 e avviata a una fortunata carriera prima di fatina arrapante dai microfoni di Radio Luna, poi di eterea quanto scatenata pornodiva nei film made in Schicchi e infine, con l’ausilio del leader radicale Pannella, di pasionaria del liberismo sessuale, talmente popolare da entrare in Parlamento, nel 1987, eletta da 20.000 preferenze.
Se proprio volete trovare, nell’assunto di queste biografie incrociate, una comune inclinazione all’idealità o all’ideologia, provate a confrontare la passione anarchica di Schicchi Paolo, la fedeltà al duce profusa con sacrificio da Schicchi Giacinto e la febbrile adesione di Schicchi Riccardo al Partito dell’amore per il quale si candidò senza successo, anni dopo Cicciolina, a fianco della sua nuova scoperta, quella Moana che fu la Marilyn della sua scuderia denominata “Diva Futura”.
E così, assecondando l’impresa di Nicola Schicchi intenzionato a fare genealogicamente i conti con i propri parenti terribili, scoprirete tra l’altro che al più celebre di loro, lo smunto “Riccardo il caldo” diventato pornografo anche per genetica sorte, toccò di combattere a modo proprio una buona battaglia.
Quella contro la repressione, la censura e i tabù che inducono alla paura, convinto com’era che la sessualità sia come un esplosivo, che più la comprimi e più deflagra.
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