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Michael Cimino e “Il Siciliano”, epopea di un flop figlio del genio

Michael Cimino e “Il Siciliano”, epopea di un flop figlio del genio

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  5 luglio 2016

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Delle sue radici italiane non parlava mai volentieri, anche perché, a suo dire, ogni sentimento di appartenenza etnica favorisce un modo di guardare le cose più rivolto verso l’interno che l’esterno, inibendo la sensibilità per il paesaggio. E il paesaggio, si sa, era tutto nel cinema di Michael Cimino, il grande regista newyorkese la cui scomparsa, sabato scorso, ha commosso la comunità dei cinefili che da anni lo rimpiangeva mentre era ancora in vita, visto che nessuno si arrischiava a finanziare i tanti film che avrebbe voluto fare (l’ultimo, Verso il sole, risaliva al 1996). Questo perché anche la Nuova Hollywood dei mitici anni Settanta/Ottanta, quella del Rinascimento dei Coppola e degli Scorsese, aveva imparato a non perdonare i suoi “ragazzacci”. E, nella leggenda, Cimino era diventato il “ragazzaccio” per antonomasia, un regista “inaffidabile” che, dopo aver fatto incetta di Oscar, si era permesso il lusso di far costare un suo film del 1980 quaranta milioni di dollari per poi incassarne nemmeno due. Così, al suo arrivo in Sicilia, trent’anni fa, la fama di “maledetto” già precedeva questo cineasta sregolato, e indipendente fino al midollo, figlio di emigrati viterbesi (Soriano del Cimino, da cui il cognome), con alle spalle il trionfo del Cacciatore (1978) e il clamoroso flop del successivo I cancelli del cielo che appunto costrinse la gloriosa United Artists fondata da Chaplin & Co. a farsi divorare dalla MGM. Il Siciliano , suo quinto lungometraggio del 1987, liberamente tratto dal best seller di Mario Puzo dove veniva trasfigurata (fino alla falsificazione) la vicenda del bandito Salvatore Giuliano, fu girato nell’estate del 1986, utilizzando in modo magistrale alcune location sparse in mezza Sicilia. Qualcuno ha scritto che la rivendicazione dell’identità è il motivo su cui si fondano tutti i film dell’oriundo Cimino, nei quali si assiste allo scontro tra identità subalterne e sistema di potere dominante. Con queste premesse appare tutt’altro che casuale la sua scelta di prendere di petto la leggenda più che il “caso” di Giuliano, sfumandone ogni prospettiva storica e affrontandone il mistero nel solo modo che ci si poteva aspettare, come poi scrisse Leonardo Sciascia (senza nemmeno aver visto il film), “da un regista americano di origine italiana che si mette a raccontare la storia di un bandito siciliano”. Ovvero, alla maniera del “sentire popolare” di un cantastorie o di un “facitore di romanzi a dispense”, per i quali un brigante equivale a un vendicatore di torti e di angherie, a un giustiziere, a colui che toglie ai ricchi per dare ai poveri. E in effetti Il Siciliano si esercita con spudoratezza a vivificare il “falso mito” stigmatizzato da Sciascia. Iperbolico, onirico, melodrammatico, ispirato più al Gattopardo di Visconti che al precedente (e, del resto, ineguagliabile) Salvatore Giuliano di Francesco Rosi: così Cimino parlò del proprio film al regista Roberto Andò, che in quell’occasione fu suo assistente e che curò il cinelibro coevo delle edizioni “Novecento”. A Cimino il bandito Giuliano ricordava certi personaggi leggendari della storia western. Era arrivato a identificarsi con lui per via del suo “sentirsi altrove”, per quella esibita volontà di non voler essere siciliano, irresistibilmente spinto com’era da “una nostalgia e un desiderio d’America”, e anche perché “è sempre stato molto arduo in Sicilia rimanere individuo e percorrere la propria strada”. Il risultato di tante meditate, sofferte torsioni fu un altro film “speciale” dell’outsider Cimino. Certamente non la sua opera migliore; forse “pezzi di bravura sparsi in un insieme indefinibile”, come commentò argutamente Bertrand Tavernier. Ma quanta bravura! Cinema purissimo è, ad esempio, l’iniziale sequenza con angoli del centro storico di Palermo (dai Quattro Canti alla Cattedrale) immersi nella luce dell’alba: “una visione onirica e suadente dove il respiro, l’aria e il colore hanno un senso di morte, di dolore e d’intrigo”, ha scritto il critico Edoardo Bruno. A dare consistenza alla trama alquanto sgangherata c’è, restituito con flagrante pittoricità, quel “deserto di fertilità” che è il paesaggio dell’entroterra siciliano, la sua “troppa luce” e la sua “luce di cenere” negli scenari (mai più visti così a cinema) di Grammichele, Caltagirone, Bagheria, San Vito Lo Capo, Caltabellotta (dove è stata girata la strage di Portella della Ginestra), Corleone, Montelepre, Castellammare del Golfo. E c’è poi la Palermo “teatrale” della Chiesa di San Gioacchino (davanti alla quale viene deposto il cadavere di Giuliano), del Grand Hotel et des Palmes, degli interni del Museo di Storia Patria, del Cimitero dei Rotoli, del Palazzo delle Ferrovie…  Così, pur sforando i previsti tempi di lavorazione, anche per via di iniziali mafioseschi boicottaggi dei soliti appaltatori di comparse made in Sicily, il film andò finalmente in porto. Ma sullo schermo uscì sfregiato, rimontato e tagliato di 31 minuti, per volontà dei distributori che imposero a Cimino la durata delle due ore canoniche. Imbarazzante risultò poi l’anteprima a Palermo, che attirò l’acido commento di Sciascia: “A Stoccolma, il film forse avrebbe suscitato entusiasmo. A Palermo, dove la memoria dei fatti è ancora viva, non poteva che suscitare dileggio”. La maggioranza dei recensori italiani si fece interprete di quell’iniziale reazione, e il film non riuscì nemmeno a fare cassa: anche fra gli estimatori di Cimino, in pochi accettarono questa volta la provocatoria volontà d’irrealismo, la perturbante aspirazione al melodramma, al simbolo, al sogno. Insomma, ai più non piacque il Giuliano novello Robin Hood, con l’aplomb déco di Christopher Lambert, capace di coltivare utopiche aspirazioni separatiste insieme a uno smodato narcisismo, di amoreggiare infantilmente con la patinata duchessa di Barbara Sukova e di abbracciare commosso i cadaveri di Portella della Ginestra, per poi offrirsi come vittima sacrificale all’amico suo doppio Pisciotta, ben intagliato da Turturro, che lo ammazza a bordo di una barca a vela. Anche per questo film, come per i fallimenti che lo precedettero e lo seguirono, il “ragazzaccio” Cimino stentò a comprendere i motivi di tanta incomprensione. Dopotutto aveva la coscienza tranquilla: ancora una volta, da cineasta di razza, si era gettato anima e corpo nella sua impresa, era riuscito a farsi invadere dall’incantevole asprezza del paesaggio siciliano e aveva cercato di restituirne l’immagine come una visione sospesa nel tempo, come il cuore rivelatore del suo mito. E scusate se è poco.

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