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La cioccolata amara di Brusati

La cioccolata amara di Brusati

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Tipologia:  Articolo

Testata:  Catalogo IV ed. Sicilia Queer Filmfest

Data/e:  5 - 11 giugno 2014

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Tutte le opere di Franco Brusati (1922-1993) raccontano di personaggi in esilio (in patria o fuori), diversi e inadeguati, sperduti e interiormente frantumati, perennemente in fuga perché in conflitto con la propria coscienza, affannati a cercare pericolosamente (e inutilmente) una nuova dimensione dove potersi riconciliare con se stessi.

Anche “Pane e cioccolata” (1973), il suo film più apprezzato e premiato, traccia con avvelenata ironia il diagramma di questa condizione d’inquietudine. E lo fa attraverso la storia di un goffo cameriere italiano immigrato in Svizzera che non riesce ad accordarsi con la propria tentazione di tornare in patria.

“Pane e cioccolata”, per il suo autore, funzionò sia come un coronamento di carriera che come un annuncio di caduta.

Milanese di nascita e romano d’adozione, Brusati è stato un intellettuale “irregolare” del cinema e del teatro.

Nacque come figlio colto di una certa borghesia intellettuale dell’Italia nordica (la cui sostanza culturale volle mescolarsi con orgoglio a quella della tradizione mitteleuropea) e, da giovane promessa, decise impulsivamente d’inscriversi in quel cerchio magico delle arti che, a metà del Novecento, aveva per capitale Cinecittà.

Da assistente e, soprattutto, da sceneggiatore, Brusati lavorò, dal 1948 in poi, per Rossellini (“La macchina ammazzacattivi”) e Castellani (“Sotto il sole di Roma”), più volte per Camerini e poi ancora per Soldati, Lattuada, Gentilomo, Steno e Monicelli, Lizzani, Zurlini, Zeffirelli.

Affrontando la sua prima regia, “Il padrone sono me” (1955), si concentrò  a descrivere, con soffuso umorismo, la decadenza di una facoltosa famiglia romagnola che è costretta a vendere i possedimenti ai propri coloni il cui patriarca è interpretato da Paolo Stoppa, che qui anticipa in modo bonario il personaggio di don Calogero Sedara poi interpretato nel “Gattopardo” viscontiano.

Il film ha il merito di svelare in nuce una certa vocazione intimista di Brusati, oltre che la sua lucida e temperata concezione delle dinamiche sociali: lo scontro di classe non è che un’utopia consegnata alla storia delle vanità umane, fonte di dolorose frustrazioni e d’illusioni devastanti.

Per Brusati è importante schierarsi sempre e comunque dalla parte delle vittime e degli sconfitti, raccontandone la peregrinazione con il dovuto afflato critico e lirico.

Secondo tale ispirazione (più ideale che ideologica) si sviluppano i successivi teoremi di quest’autore sfuggente e acutissimo che amava nutrirsi delle iridescenze dei classici, restando però sempre in ascolto dei fermenti che gli maturavano a fianco. A seguire l’incrocio con Pasolini, sfociato nel tentativo di portare sullo schermo “Una vita violenta”, arrivò “Il disordine”(1962), ruvida e squillante meditazione sulla euforia dell’infelicità, insieme a “Pane e cioccolata” il film più rappresentativo della maniera di Brusati, un eccentrico melò (con qualche digressione simbolica alla Bergman) sulle avventure di un giovane povero nell’Italia del boom economico. In questa occasione, Brusati si rivelò un abile direttore di attori, dando rilievo alle belle prove di Renato Salvatori, Tomas Milian, Alida Valli e Adriana Asti.

Ancora più sregolati e sorprendenti (fuori dai canoni ideoestetici in voga a cavallo tra i Sessanta e i Settanta) sono i successivi “Tenderly” (con Virna Lisi e George Segal) e “I tulipani di Harlem”: due storie d’amour fou (1968 e 1970) dalle temperature opposte, la seconda divenuta di culto, nei cineclub dell’epoca, per via delle coloriture vagamente “hippie” e di un malinteso retrogusto libertario che però è solo la patina di questo apologo crudelissimo (e mitologico alla maniera di Cocteau) su un adolescenziale ménage che degenera nell’autodistruzione.

Tra un titolo e l’altro di questa filmografia frastagliata, anomala e incostante vanno considerati i progetti negli anni successivi febbrilmente inseguiti e poi abbandonati.

Guidato dal proprio carattere introverso e da un’originale intenzionalità di stile, Brusati non fece altro che sciogliere uno dopo l’altro i nodi che lo legavano alla società culturale del proprio tempo pur non rifiutandone i modelli produttivi.

Preferiva contestare il “sistema” dal suo interno, esibendo una voglia di diversità e un eclettismo dettati da un rigore ispirato che rifuggiva da ogni compromesso con le mode correnti, da ogni allineamento ideologico, da qualunque adesione a consorterie o a caste.

Tale atteggiamento guidò tutte le sue scelte, il lavoro delle regie come l’attività di scrittore (per il teatro ha composto sottili, provocanti e amarissimi tranches de vie).

La svolta di carriera avvenne proprio con “Pane e cioccolata”, tormentato progetto che gli procurò qualche gioia (per il quale conquistò diversi premi, tra i quali l’Orso d’argento a Berlino e il David di Donatello europeo per la regia) ma anche, a suo dire, molta “rabbia e fatica”.

Scritto a quattro mani da Brusati prima con Ugo Pirro e poi con la commediografa Jaja Fiastri, il film era destinato inizialmente a Ugo Tognazzi. In seguito al suo rifiuto, la sceneggiatura fu rielaborata sulle misure di Nino Manfredi che, dopo qualche tentennamento, sposò a tal punto l’impresa da pretendere di apparire nei crediti come co-sceneggiatore.

C’è da dire che nessuno meglio di lui avrebbe saputo regalare gli accenti di ambiguità sorniona, d’ironia dolente e di mestizia beffarda che rendono memorabile il personaggio di Giovanni Garofoli detto “Nino”, straniero ciociaro ritrovatosi in una condizione di “diversità coatta”, prigioniero di una way of life protettiva/repressiva che l’ha ingabbiato senza integrarlo, la Svizzera dove egli lavora come cameriere e da dove viene espulso per avere orinato in strada dopo un interrogatorio in questura su un delitto non commesso ma di cui lui sarebbe stato disposto ad accusarsi.

Il detour psicologico provocato dall’iniziale “fattaccio” conduce progressivamente Giovanni all’accettazione della propria schizofrenia, prima animata da un irrefrenabile desiderio di normalità e poi esibita ribellisticamente fino alla liberatoria rottura di tutti i propri freni inibitori.

Brusati decide di pedinare il suo malinconico loser protagonista, ne segue il vagabondaggio mentale e materiale, il suo perdersi e ritrovarsi, liberarsi e imbrigliarsi, a confronto con i paesaggi estranei e le figure altre di una dimensione civilizzata dispensatrice di valori dominanti, il Nord che è lo specchio rovesciato del Sud, di tutti i Sud del mondo.

Sciorinando i panni sporchi dell’italianità come categoria dello spirito (colta nel suo ambiguo e isterico oscillare tra orgoglio campanilistico e provinciale sentimento d’inferiorità), l’apologo di “Pane e cioccolata” s’inscrive, senza reticenze intellettualistiche e con molte variazioni tonali, all’interno della migliore tradizione della commedia all’italiana, per via delle cadenze satiriche e per una propensione all’analisi antropologica mai ridotta a pretesto aneddotico.

Manfredi asseconda con grazia la propria vocazione di attore stralunato (che sa come ispirarsi al dettato di Chaplin e di Italo Calvino), regalando al suo emigrato “diviso” lo stupore di una diversità “naturale” e le accensioni di un’inadeguatezza struggente.

Agrodolce nella prima parte, quando accentua i toni da commedia degli equivoci e da clownerie (la descrizione del tran tran di Nino cameriere, l’episodio del delitto di pedofilia, il racconto gogoliano della perdita del posto insieme a quello del cul de sac in cui il nostro si ritrova quando diventa complice del ricco debosciato e maneggione magnificamente interpretato da Johnny Dorelli), il film si rapprende nella seconda parte, lasciando affiorare ombrose coloriture surreali che si coniugano alla volterriana weltanschauung del regista.

Con raffinata e tagliente tenerezza, l’omosessuale Brusati identifica l’inferno di una condizione umana amputata e degradata coniugandola ai fantasmi del desiderio sessuale frustrato. E questo sia nella scena degli operai immigrati (tra cui spiccano il messinese Tano Cimarosa e l’efebico divetto dei fotoromanzi Max Delys) che si esibiscono en travesti per un grottesco quanto patetico chant d’amour, sia in quella del pollaio popolato di “calibani” (mostri sottoproletari che annunciano quelli brutti sporchi e cattivi di Scola) in concupiscente contemplazione dello spettacolo agreste e olimpico di corpi nudi e dorati di ragazze e ragazzi, tutti svizzeri e naturisti, tutti statuari, simbolo allucinatorio e sfottente di una idealizzata quanto “impossibile” superiorità di razza.

Nino partecipa a tutti questi rituali, trasformandosi ora in cerimoniere e ora in agnello sacrificale, fino a quando indossa la sua ultima maschera, il capello ossigenato che dovrebbe cancellare l’imbarazzante etnia, un disperato gesto di omologazione, una tentazione di doppiezza e di mutazione di status che si stempera nell’urlo di gioia partecipe manifestato davanti a un goal dei calciatori italiani nel corso di una partita trasmessa in tv davanti a una piccola platea di tifosi locali.

Ed è di fronte all’esibizione canora di un gruppetto di meridionali caciaroni (“Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”) che il protagonista di “Pane e cioccolata” sceglie di abbandonare il treno che dovrebbe riportarlo in patria: un polemico rifiuto di fuga riconciliatrice che lo spinge a rimanere per sempre straniero del suo e dell’altro mondo.

Una serie di beghe produttive e distributive, unitamente all’ostilità malcelata dell’establishment, avvelenarono non poco il successo del film. Brusati scelse una retrovia dorata (lui che non volle mai stare in trincea), continuando a coltivare progetti di film crepuscolari e intensamente autobiografici.

Tre di questi andarono in porto, tra il 1979 e il 1989: il cechoviano “Dimenticare Venezia” con Erland Josephson e Mariangela Melato (che è il testamento artistico del regista), l’acidissimo ritratto familiare de “Il buon soldato” (scritto con Ennio De Concini e interpretato ancora dalla Melato) e il freddo, cinico affondo “da congedo” de “Lo zio indegno” con un gigantesco Vittorio Gassman.

Ma il Brusati touch, l’espressione piena e variegata dello stile di quest’autore orgogliosamente anticonformista e criticamente nostalgico (che merita di essere riscoperto e studiato), trovò in “Pane e cioccolata” la possibilità d’incidere il suo segno forte.

E’ Brusati stesso, del resto, a sottolineare il paradigma (in un’intervista apparsa su L’Europeo nel 1974), quando afferma di aver trovato in questa storia di sperdimento il tema dell’ “estraneità vissuta in solitudine” in cui si è riconosciuto pienamente: “Voglio dire che io sento moltissimo il senso dell’estraneità su questa terra. E credo che viviamo una specie di copia della vita in quanto la vita vera sta altrove. L’uomo nasce e muore solo, insomma. Senza chance per realizzarsi. In nessun luogo e in nessun tempo”.

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