La casbah palermitana vista da Farinella
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  6 aprile 2014
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Della nostra disastrata condizione di sudditi nel Mezzogiorno in agonia conosciamo ormai più le cifre che la Cifra. In questo attuale profluvio editoriale di pamphlet documentatissimi che denunciano gli sprechi di certa criminogena classe dirigente, a mancare sono quelle forme di compte rendu che sappiano raccontarci la condizione degli “invisibili”, affogati giorno dopo giorno nelle nostre periferie sempre più allargate. Mancano libri come “Profonda Sicilia”, una raccolta di evocativi reportage “nelle città e nei borghi della miseria” firmati sulle colonne de “L’Ora” da Mario Farinella (Caltanissetta, 1922 – Palermo, 1993), conosciuto dai più come l’autore delle prime inchieste sulla mafia apparse sui giornali siciliani.
L’ormai introvabile antologia, edita nel 1966, non a caso ospita la prefazione di Carlo Levi, gran concertatore d’ibridazioni, sempre mosse tra giornalismo e letteratura.
Seguendo la sua lezione, Farinella s’immerge nel territorio della Sicilia sommersa di quegli anni, narrandone nitidamente il dilaniato status quo. Arretratezza, ignoranza, sfruttamento: questiappuntiti tranche de viedenun-ciano sia il disastro di una civilizzazione incompiuta perché segnata da troppe sconfitte sociali, sia un esempio di straziata resistenza dell’umano. Nei racconti dedicati alla “altra” Palermo dei quattro quartieri (l’Albergaria, il Capo, la Kalsa, la Loggia) degradati al rango di casbah, si stagliano i ritratti delle spose bambine, dei “picciotti di giudizio”, dei ragazzini scippatori, dei capipopolo mafiosi e non, dei rivoltosi durante i sanguinosi tumulti del 1960 e dei poeti di strada ispirati da Petru Fudduni.
Tutti parlano attraverso la lingua trasfigurata del cronista che li eleva a modelli antropologici, a «ombre e testimoni» diventati – scrive Levi – «contenuto poetico per la fantasia e per la storia». Si animano così, tra gli altri, il decenne del Capo che invoca la mitragliatrice, una madre rabbiosa contro «i politici che si presentano quando ci sono le elezioni», le donne della Kalsa che piangono una giovane morta di parto («Doveva godere: per questo Dio se l’è presa!») e la gente dell’Albergaria che approva l’arresto di un infermiere ladro occasionale («Aveva il suo impiego, perché doveva rubare?»).
L’approccio critico e mai privo di pietas, accomuna la prosa meditata di Farinella a quella, sicuramente più ironica, di un altro poeta della Palermo “nera”, Salvo Licata. Entrambi sono stati i sofferti cantori di una casbah «travolta nell’incessante rovinìo delle civiltà sino allo sfaldamento totale, sino a perdere la memoria della sua travagliatissima storia».
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