lunedì, 16 Settembre 2024

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Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Sceneggiatura Garzanti – Copia con dedica autografa di Enrique Irazoqui

Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Sceneggiatura Garzanti – Copia con dedica autografa di Enrique Irazoqui

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Autore:  Pier Paolo Pasolini, Giacomo Gambetti (a cura di)

Tipologia:  Sceneggiatura cinematografica e scritti

Film di riferimento:  Il Vangelo secondo Matteo (Italia, 1964), sceneggiatura e regia di Pier Paolo Pasolini. Fotografia di Tonino Delli Colli, costumi di Danilo Donati. Interpreti: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Ferruccio Nuzzo, Settimio Di Porto, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Elio Spaziani, Rodolfo Wilcock, Natalia Ginzburg, Giorgio Agamben, Susanna Pasolini

Editore:  Garzanti

Origine:  Milano

Anno:  1964 (1 settembre)

Caratteristiche:  Legatura in tela, sopraccoperta a due colori con illustrazione fotografica in bianco e nero tratta dal film. All'interno 32 fotografie di scena in bianco e nero in 16 tavole fuori testo.

Edizione:  Prima

Pagine:  312

Dimensioni:  cm. 22 x 15

Note: 

Prima e unica edizione della sceneggiatura di Il vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini.

Il volume, a cura di Giacomo Gambetti, è stato pubblicato da Garzanti nel settembre 1964, a ridosso dell’uscita del film, ed è illustrato da 32 fotografie di scena e di set del film.

 

 INDICE

Un film difficile? – Introduzione del curatore Giacomo Gambetti

 

♦ DALL’ IDEA ALLA SCENEGGIATURA:

Il Vangelo secondo Matteo: una carica di vitalità – Scritto di Pier Paolo Pasolini

Epistolario sul film (sei lettere di Pasolini e altri)

Cronaca del sopralluogo in Terrasanta

Due frammenti di poesie di Pasolini: da Israele e da L’ alba meridionale

 

♦ IL VANGELO SECONDO MATTEO – SCENEGGIATURA 

 

♦ SCRITTI

L’ opinione della Pro Civitate Christiana – Pro e contro

Un’intervento (fiducioso) del produttore Alfredo Bini

Nota su Il Vangelo nello spettacolo

Tre poesie di PasoliniLa Domenica Uliva, La crocifissione, da LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO

Da un incontro con Pasolini – Note del curatore

 

♦La copia in archivio reca nella pagina bianca prima dell’occhiello una dedica autografa di Enrique Irazoqui: “A Umberto con affetto” (settembre 2014) 

 

SUL FILM

« (…) Con questo film si conclude un momento irripetibile della poetica pasoliniana, tanto che occorre ribaltare il giudizio della critica cattolica sul film e comprendere, pur dietro la forza della narrazione, il senso più profondo di una frattura esistenziale maturata insieme al progressivo distacco dalla propria educazione e dai propri sogni. Perché se sono innegabili l’impulso e il respiro religioso dell’attività creatrice, non va dimenticato che il punto di partenza è una pesate sfiducia nell’istituzione e un recupero di valori che oggettivamente  sono oggi assimilabili in altre zone della terra e sostenuti da altre ideologie, il marxismo in primo luogo. La contaminazione così cara a Pasolini non la si evita neppure in questo caso. Anzi, c’è da chiedersi se in questo caso si sia partiti da Cristo per arrivar a Marx o viceversa, se insomma l’amore per la storia della Passione riporti poi, attraverso un cammino attualmente non inconsueto, a una oggettivazione del mito e a una sua riedizione profondamente rinnovata dalla spinta popolare sottoproletaria o terzomondista. Le numerose dichiarazioni dell’autore dovrebbero comunque aver fugato tutti i dubbi, sia quelli dei marxisti che quelli dei cattolici. Si tratta di una lettura integrale, di una presentazione quanto mai serena e ammirata della figura di Cristo, seppur non adorante e non viziata da metafisiche ansie: «… Io non credo che Cristo sia figlio di Dio. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale, da andare al di là dei comuni termini dell’umanità» (dalla prefazione a Accattone). Il Vangelo è il film forse più scandaloso che Pasolini abbia mai girato. L’autobiografismo che lo vena, e il cerchio di un’umanità che immanentizza costantemente il trascendente, richiamano l’assunto de La ricotta, con la differenza che lì anche il particolare era calato nel reale e la vicenda non era oscurata da veli culturali. (…) »

(da Pier Paolo Pasolini di Sandro Petraglia, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro Cinema», n. 7/8, luglio/agosto 1974)

 

« (…) Il Vangelo secondo Matteo rappresenta un momento cruciale per il percorso intellettuale di Pasolini, in quanto è qui per la prima volta che il poeta affronta, in tutta la sua dilacerante evidenza, il tema della propria, personale irrazionalità. (…) L’idea di fondo del Vangelo pasoliniano non scaturiva tanto dalla volontà di mettersi ancora una volta in discussione, e così di mettere in discussione ogni dogmatismo possibile, anche quello antireligioso, ma attingeva soprattutto a quel senso di fondamentale irresolubilità di ciò che Pasolini, da sempre, identificava come nodo essenziale del proprio percorso intellettuale: l’idea della morte. «È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita ( con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e significati senza soluzione di continuità. (…) Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».

Questa, dunque, era l’ansia metafisica che metteva in gioco il sentimento del “sacro”, nel senso di “inattendibile dalla ragione”, del marxista Pasolini. (…) È a partire da un senso di sacralità della vita fornito dall’idea della sua fine, che spinge l’uomo ad agire per lasciare le sue tracce postume, in antitesi al falso rifugio dell’idea dell’immortalità dell’anima, che l’idea del Vangelo prende forma. (…) È un irrefrenabile sentimento irrazionale della propria unicità che spinge il personaggio storico Cristo, nella sua lotta contro l’ipocrisia religiosa senza concessioni alla tentazione del potere, a porsi come figlio di Dio. E se questa affermazione, che gli causerà la morte per il reato di “bestemmia”, su un piano irrazionalistico può essere sostanziata solo dalla “fede” intesa come credenza disarmata nel Mistero, cosa che Pasolini non accetta, è pur vero che in un altro senso, più razionale, per Pasolini Cristo è divino, di una divinità laica: «Certi laici mi hanno detto che il mio Cristo è stalinista. In effetti io pensavo a Lenin. Il fatto è che i laici non tengono conto che Cristo si propone come figlio di Dio, e il culto della personalità è un po’ questo: divinizzare un uomo», scriveva il regista esemplificando provocatoriamente il rapporto esistente tra le due ideologie storicamente “nemiche” che con il suo film aveva tentato di raccordare attraverso il trait-d’union della “rivoluzionarietà” del rigore morale, esemplificato nella poco oleografica figura del suo Cristo.

Per comprendere la complessità dell’analisi pasoliniana della figura di Cristo, occorre distinguere innanzi tutto le due istanze  da cui Pasolini ha mosso la sua lettura del Vangelo di San Matteo: la prima è la volontà di demistificazione della soluzione “divina” del mistero del mondo e della morte, a favore di un più ampio e complesso “senso del sacro”, cioè del senso di sostanzialità dell’irresolubile, che non chiede qualcosa di ulteriore per essere compreso; la seconda, è la rivoluzionarietà della diversità sociale, della nonviolenza e della forza del pensiero morale (un tratto, quest’ultimo, che consentiva al poeta una sorta d’immedesimazione “autobiografica” con la figura di Cristo). Attraverso di esse, il regista mette in scena l’esasperata, umana passione religiosa di Cristo, che dal testo di Matteo emerge come una rabbia senza posa nei confronti del falso e un’ansia di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione farisaica, cieco e ottuso braccio mistico di una repressione politica e sociale che non ha nulla di divino. È un Cristo mite e violento, animato da una continua tensione verso il suo obiettivo di redenzione del male terreno, quello che ha detto «non sono venuto a portare la pace ma la spada», per perseguire l’unica causa del “regno di Dio”, al quale si accede quella “rivoluzione interiore” che comporta essere puri e semplici “come i bambini” (tema onnipresente nella poetica pasoliniana). (…)  »

(Da Pier Paolo Pasolini di Serafino Murri, Milano, Il Castoro, «L’Unità/Il Castoro», 1995)

 

« (…) A Cristo contrapposto in lunghi flashes indimenticabili di volti e figure, immobile in una fissità atemporale, sta il popolo ormai disincarnato e totalmente astorico. È il polo dialettico di un contrasto fra una razionalità tenacemente voluta e una naturalezza istintiva che è qui divenuta anch’essa mostruosità radicale. Le connotazioni tipiche del sottoproletariato pasoliniano   sono elevate a potenza e sublimate, pur nell’umiltà francescana dei ritratti. Tale purezza veramente non è della realtà ma della cultura, questa natura non è del popolo ma dell’intellettuale che in esso riversa le proprie contraddizioni. Il coro balenante e impudico del vecchio disegno sottoproletario risulta in questo caso schiacciato da una impossibilità a redimerlo in qualunque modo. Infatti è il Cristo a morire per esso, è l’inviato giunto da altre realtà a compiere la parabola della fine e del riscatto. Questo popolo non solo non lotta per la propria vita, non solo si fa sostituire sulla croce, ma si affida esclusivamente alla forza del superuomo, sebbene materializzata in forme consuete, e in definitiva subisce in maniera ancora una volta perdente una realtà che non riesce ad afferrare. Accetta il miracolo come ultima spes, rifugio inarrivabile, escluso dalla dinamica delle forze reali: il pessimismo di tale scelta è trasparente, lo si scopre subito ad ogni livello di lettura del film. (…) C’è anche qui la tragedia ed essa segue il filo sottile delle proprie ansie; solo che non ha più bisogno di altro che di se stessa e il salvatore è un io gigantesco che muore ma risorge invincibile. L’antistoricismo perde il suo carattere antinaturalistico per rimanere semplicemente antipopolare. Il fascino del miracolo è infatti fascino di una bellezza senza mezzi termini, incontrastata, libera come sono liberi i poeti quando si avventurano nelle verdi distese in cui la realtà è sogno e memoria. E non è vero che Pasolini recuperi il cronachistico miserabile delle campagne sorde al progresso, perché questi contadini conducono fuori e non dentro la realtà, perché sono costantemente stupiti e commossi dal Verbo , perché sorridono col sorriso ambiguo di chi non capisce e confusamente sente il fascino della superiorità. (…) »

(da Pier Paolo Pasolini di Sandro Petraglia, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro Cinema», n. 7/8, luglio/agosto 1974)

 

« (…) La trama del film segue la narrazione evangelica dall’Annunciazione alla Resurrezione, ma viene consapevolmente affrontata da Pasolini con una tecnica cinematografica in grado di abolire ogni solennità, da lui definita “magmatica”. In essa si alternano primi piani ripresi col grandangolare a campi sonoro-visivi lunghissimi, con frequenti spezzature logiche e salti cronologici sottolineati tematicamente dall’uso caotico delle musiche (che vanno dalla solennità di Bach e Mozart ai canti popolari russi, agli spiritual, fino alla messa cantata congolese): elementi che, insieme all’ambientazione appena ritoccata ma riconoscibile dei vecchi borghi e delle rovine di città dell’Italia del Sud, tendono a restituire una dimensione smitizzante e storica (nel senso di attuale) delle vicende di Cristo. Sul piano stilistico, dunque, il film si presenta molto complesso: in primo luogo, alla costante tensione verbale di Cristo, che epicamente, con una forza morale radicale e a colpi di raziocinio (anche allusivo, attraverso le parabole), fa piazza pulita di tutta la stagnante retorica religiosa che lo circonda, si alterna il lirismo degli innumerevoli volti “di antichi” delle comparse autoctone, che spaziano senza alcun imbarazzo attoriale nelle rovine della loro propria civiltà, a cui è concessa unicamente una delicata recitazione mimica, fatta di espressioni rubate dalla cinepresa. Queste espressioni dei volti, intrappolate nei costumi atipici e semplici di generici uomini del passato, costituiscono quasi una toponomastica degli stati d’animo e delle condizioni di vita, controbilanciata, a sua volta, da una recitazione degli sguardi fondamentalmente ispirata all’espressionismo del muto, eseguita con efficacia dilettantesca dagli amici di Pasolini (da Alfonso Gatto a Enzo Siciliano, da Rodolfo M.Wilcock a Mario Socrate, ma anche da sconosciuti e icastici volti di uomini “del popolo”). Ma nel Vangelo, soprattutto, predomina stilisticamente il silenzio “cinematografico”, quella commistione di rumori di fondo, quell’orizzonte sonoro puro, che non ha bisogno di parole, che d’ora in poi diverrà una caratteristica essenziale del cinema di Pasolini. (…) Un esempio di questa drammaticità senza parole è già la prima scena del film, quella dell’Annunciazione: dopo un inquieto scambio di sguardi, l’ansia di Giuseppe per l’inaspettata gravidanza di Maria viene significata attraverso un carrello “a mano” che ne segue la nervosa camminata fuori della città; quest’ansia è dapprima acuita dall’osservazione di alcuni bambini che giocano sereni in un campo, e poi sciolta dalle poche, lapidarie parole dell’angelica ragazza che annuncia il Prodigio. E così, anche il ritorno della pace tra i due coniugi si compie senza una parola, attraverso l’eloquenza di sguardi timidi e impacciati di fronte all’avvento del Sovrannaturale. Anche quando le parole scandiscono narrativamente l’azione, sono molto spesso contaminate da inflessioni dialettali che ne intensificano l’immediatezza già riposta nel volto delle comparse. L’impostazione coreografica di alcune scene raggiunge la sua massima espressività nel ricalcare schemi pittorici ancora una volta rinascimentali (ispirati in primo luogo a Piero della Francesca), come nell’atroce scena della Strage degli Innocenti, schemi contaminati di tanto in tanto da allusioni appena percettibili alla contemporaneità (per esempio, i fez neri sui volti angolosi da squadristi dei soldati di Erode). La luminosità di alcune scene di esterni ricorda molto da vicino (nella scena della pecca, ad esempio) quella dell’onnipresente Ejzenstein, mentre, sempre a favore di una “umanizzazione” drammatica delle vicende evangeliche, i processi subiti da Cristo sono ripresi in lontananza tra le le nuche della folla, che ogni tanto si sovrappongono all’obiettivo. (…) »

(Da Pier Paolo Pasolini di Serafino Murri, Milano, Il Castoro, «L’Unità/Il Castoro»1995)

 

« (…) Il film rinvia a una raffinata cultura pittorica e ripropone una tradizione colta e niente affatto popolaresca, anche se evita il rischio, anch’esso paranaturalistico, di una composizione sacra con caratteristiche ieratiche. Nella figura della madre di Cristo, questa libera scelta riesce a salire di tono sino a giungere a una grande dimensione di personaggio. Pur costruita secondo i tratti tipici della dolcezza che tutto intende e accetta, la Maria della giovinezza e quella della vecchiaia propongono il tema dell’angoscia materna posta di fronte alla “diversità” del proprio frutto, in maniera severa e dolente, classica eppure densa (nel suo silenzio) di un esasperato lirismo. L’impenetrabilità del profeta diviene più evidente e solitaria di fronte a questa tragica incomunicabilità che lo separa dalla propria madre, distrutta da una sconfinata amarezza, domata da un destino che l’ha prescelta, donna, a diventare co-protagonista di un atto assoluto che possiede una incorruttibile crosta difensiva. Solo di fronte alla morte, a quell’unico momento in cui il dramma scoppia umanissimo e finalmente percepibile, ai piedi della croce in cui il figlio muore  con un urlo straziante, questa madre può sentirsi piangere e dunque esistere anche per se stessa. (…) »

(da Pier Paolo Pasolini di Sandro Petraglia, Firenze, La Nuova Italia, «Il Castoro Cinema», n. 7/8, luglio/agosto 1974)

 

« (…) L’immedesimazione del regista con la figura Cristo, che costituiva la pietra dello scandalo nei confronti della critica marxista, è un dato innegabile: la sovrapposizione tra la “diversità” morale di Pasolini, velata dalla stessa angoscia irruenta e non violenta di quella di Cristo, dolorosa e incomunicabile, cristallina eppure impenetrabile, è addirittura rimarcata dall’ave fatto recitare il ruolo della Madonna adulta dalla propria madre, Susanna Pasolini, fonte di quello spirito di religazione che costituiva una spina nella lucidità marxista del regista. La stessa radicalità, la stessa irremovibilità nel perseguire l’obiettivo di una “rivoluzione senza sangue”, che Pasolini aveva affermato nel commento di La rabbia, esplode anche nell’invettiva anticlassista di Cristo. (…) »

(Da Pier Paolo Pasolini di Serafino Murri, Milano, Il Castoro, «L’Unità/Il Castoro»1995)

 

 

 

 

 

 

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