Il principe che inventò la villa dei mostri
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  6 novembre 2016
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Capitò a Giovanni Macchia, francesista tra i più brillanti del novecentesco panorama critico italiano, d’imbattersi nella figura del proprietario-creatore di quella singolare attrazione che è la Villa dei mostri a Bagheria. Dal confronto tra uno dei più rinomati simboli della vocazione siciliana al “soprannaturale tetro” e il letterato di Trani, da sempre attratto da quei personaggi che il sonno della ragione non ha mai smesso di generare, nacque nel 1978 Il principe di Palagonia, saggio romanzato (corredato da alcuni scatti di Enzo Sellerio e diventato ormai raro) il cui capitolo culminante è la pièce del colloquio immaginario tra un giovane viaggiatore veneto approdato in Sicilia e Ferdinando Francesco Gravina e Alliata (1722-1788), il bizzarro principe palermitano del titolo, uno che mentre il mondo cercava di specchiarsi nelle voci dell’Encyclopédie aveva deciso di votarsi all’orrore trasformando la villa-palazzo dei suoi avi in un luogo, dicono i versi del Meli, “unni l’arti mpetrisci eterna e addenza/l’aborti di bizzarra fantasia”. Il fatto che quell’architettonico modello di nonsense, decorato da eccentriche figure di personaggi e animali che la pietra d’Aspra deteriorata fa apparire mostruose, sia diventato un marchio di sicilianità si deve, com’è noto, ai suoi più illustri visitatori (Swinburne, Houel, Goethe sono i più citati) che, a partire dalla seconda metà del Settecento, ne propagandarono lo scandalo, tra ammirazione e disprezzo. Non furono pochi gli estimatori novecenteschi (da Brandi a Berenson, e poi Dalì, Borges, Cartier-Bresson) a cui danno risonanza le note di Lanza Tomasi, la prefazione di Sciascia all’album Einaudi (1977) del fotografo Scianna, e soprattutto l’illuminante saggio (“L’Immago espressa”) dell’italianista Natale Tedesco, che ha abitato da erede Villa Palagonia fino alla recente scomparsa. Abbandonandosi al piacere della narrazione e dell’analisi psicologica, Macchia sceglie di rappresentare il suo “folle” principe artista con lo stesso procedimento adottato da Orson Welles per il suo Citizen Kane, attraverso un puzzle di testimonianze qui rintracciate nei documenti come in tutte le letterature. Poi, arrendendosi al mistero di una vita indecifrabile, l’erudito si fa drammaturgo lasciando che il suo personaggio argomenti da profeta una futura vittoria della scienza sull’enigma della natura. E così trasforma la malinconica recita del principe nella bruciante visione di un tempo in cui a dominare saranno tecnologici mostri ben più minacciosi di quelli pietrosi di Bagheria.
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