Il palermitano che produsse Ferreri e Maselli
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  21 maggio 2017
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Un’allettante leggenda per cinefili è quella che riguarda la carriera del palermitano Alfonso Sansone, produttore illuminato ai tempi della Hollywood sul Tevere, scomparso a 91 anni nel 2015. Se è vero che di lui si è scritto poco, a colmare ogni lacuna ha però provveduto il regista Claudio Costa, esperto in cinebiografie, che nel 2014 gli ha dedicato un documentario, oggi edito in Dvd dalla Ronin Film Production.
In poco più di un’ora, “Alfonso Sansone, produttore per caso” evoca ascesa, caduta e tempi supplementari del suo protagonista, utilizzando, fra i tanti testimoni di quella irripetibile esperienza, i registi Citto Maselli, Vittorio Taviani e Tonino Valerii, ognuno dei quali deve molto alla lealtà, da gentiluomo di vecchio stampo, del tycoon siculo.
Tutto cominciò quando, nel ‘52, la ditta palermitana dei fratelli Sansone allargò la propria attività di noleggio di apparecchiature cinematografiche producendo cortometraggi come quelli di Maselli sull’Opera dei pupi e di Mario Verdone che a Palermo girò “I mestieri per le strade”. Reinventarsi come produttore nella giungla di Cinecittà e dintorni fu, per Alfonso, un rimedio alle “mazzate” inferte da committenti prestigiosi ma insolventi come Orson Welles, che gli pagò il conto delle attrezzature affittate per il suo “Otello” con un proprio ritratto autografato. E quando fondò la SanCro Film in società con quel gran virtuoso della cineimprenditoria che era il polacco Chroscicki, il nostro si ostinò a investire su un altro irregolare emergente, Marco Ferreri, producendogli “L’Ape Regina” che nel ‘63 trionfò al botteghino. In verità, a tenere in piedi la baracca, compensando i buchi in bilancio provocati da flop d’autore come “Un uomo da bruciare” dei Taviani e altri Ferreri snobbati dal pubblico, provvedevano gli incassi milionari dei western tosti firmati da Valerii e Giulio Petroni. Finché non arrivò, nel ’90, la Waterloo che troncò ogni residua ambizione produttiva, il fallimentare “Giorni felici a Clichy” di Chabrol & Henry Miller.
Nel documentario di Costa è Sansone stesso a raccontare la propria reazione a quello tsunami debitorio che provò a spezzarlo, trasformandolo infine in un distributore italiano di Jodorowsky, Herzog, Fassbinder. Lo fa con la stessa determinata, serena puntigliosità con la quale sottolinea l’abisso che separa i produttori impresari come lui dall’odierna, preponderante schiatta dei produttori ragionieri, disabituati al rischio (tanto paga lo Stato) e abituati a “fare” la cresta più che ad “alzarla”.
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